giovedì 20 settembre 2012

La nuova (in)Giustizia.


Di Michelangelo Consoli*

Come sempre, con la calura estiva, vengono confezionate le peggiori porcherie a danno dei cittadini. Non fossero sufficienti le già innumerevoli manovre autoritarie adottate dal governo in materia fiscale, economica e sociale, si è pensato di colpire in maniera incisiva laddove già il predecessore dell’attuale Presidente del Consiglio aveva incentrato quasi ogni suo sforzo politico: la Giustizia.
Si badi, non la giustizia delle leggi ad personam o dell’apparato burocratico–repressivo che avvelena il paese, ma la Giustizia con la “G” maiuscola, quella che dovrebbe tutelare le garanzie, quella che dovrebbe proteggere dalle angherie, quella conquista di Civiltà che fin dai tempi dell’Impero Romano ha contraddistinto, nel campo penale e civile, la nostra Societas.
Ebbene, in nome delle “Misure urgenti per la crescita del paese” (crescita in nome della quale si è tra l’altro recentemente smantellato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori), è da poco divenuta effettiva una significativa riforma del Processo Civile, introdotta con D.L. 22 giugno 2012 ed entrata in vigore con L. di conversione 7 agosto 2012, che introduce novità di rilievo nel processo di appello.
Già il mezzo legislativo utilizzato (ancora una volta il ricorso alla decretazione d’urgenza!) svuota sostanzialmente di ogni contenuto la possibilità di contrastare in nuce questo genere di provvedimenti, ma è proprio nel merito che le nuove norme (art. 54 del succitato D.L.) presentano i maggiori aspetti critici, con peculiare riferimento al c.d. “filtro in appello” che verrà d’ora in poi ad integrare il procedimento di secondo grado e troverà collocazione sistematica nei nuovi artt. 348 bis e 348 ter del cod. proc. civ.
Il primo dei due articoli prevede che: “Fuori dai casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta” e fa salvi solamente i casi in cui il P.M. intervenga nel processo civile e di appello ai sensi dell’art. 702 quater cod.proc.civ.
Orbene, ciò significa che, aldilà dei due (sporadici) casi sopra citati, nella stragrande maggioranza dei processi di appello il giudice, d’imperio, potrà “sbattere la porta in faccia” all’appellante già alla prima udienza, senza istruire o quantomeno trattare alcun processo, sulla base di una mera valutazione, a priori, della bontà della domanda. Si introduce, infatti, un concetto nuovo e alquanto pericoloso, quello della “ragionevole probabilità” che, oltre a comparire per la prima volta nel nostro ordinamento, rievoca sinistramente modelli di giustizia W.A.S.P. avulsi alla nostra cultura giuridica.
E’ poi il metodo, ossia gli strumenti a disposizione del giudice dell’appello per la declaratoria di inammissibilità, a rendere ancora più evidente il vulnus arrecato alle garanzie dei cittadini.
Dispone infatti il successivo art. 348 ter  che il giudice, prima di procedere alla trattazione, dichiara inammissibile l’appello a norma dell’art. 348 bis, con “ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi”.
Siamo di fronte all’arbitrio più totale. In sostanza, il giudice, dotato di prerogative praticamente illimitate, potrà decidere del tutto sommariamente sulla base di mere attinenze o analogie con casi già trattati, il tutto “in barba” alle allegazioni ed alle deduzioni della parte che propone appello. Consentire poi che tale prevaricazione avvenga tramite una ordinanza (non una sentenza) solo “succintamente” motivata non fa altro che confermare la portata assolutamente eversiva ed autoritaria della nuova norma.
Anche qui, peraltro, il richiamo al “precedente” è chiaro sintomo della volontà di scardinare i principi generali del nostro ordinamento civilistico e introdurre manu militari istituti giuridici di matrice anglosassone.
Un esempio pratico chiarirà meglio. Supponiamo di essere stati condannati in primo grado in quanto il Giudice non ha compiutamente valutato i fatti e le prove a mio favore (succede spessissimo, in particolare nelle corti di merito più inclini ai “poteri forti” di banche, assicurazioni, etc.). Si propone appello affinchè il giudice di secondo grado riesamini tali fatti e tali prove (in quanto giudice del c.d. “gravame” è il suo compito istituzionale). Ebbene, d’ora in poi, saranno sufficienti un paio di precedenti analoghi (in materia bancaria e assicurativa certo non mancheranno) per impedire a monte qualsiasi forma di revisione della decisione…..un vero e proprio diniego di giustizia!
Certo, mi si dirà che è sempre percorribile, come previsto dallo stesso art. 348 ter, la strada del ricorso per Cassazione (anche “per saltum” al fine di evitare i rischi del “filtro”), ma non si dimentichi che il giudizio di appello rappresenta l’ultima risorsa per un esame di merito dei fatti oggetto di causa e, particolare assolutamente non trascurabile, i soli costi fiscali del processo di Cassazione (ca. € 1.000,00 per la sola introduzione della domanda) raddoppiati (ma guarda un po’….) a partire dal 2012, rappresentano per i cittadini ostacolo quasi insormontabile nell’accesso alla giustizia.
Il danno è fatto. I partiti che dovrebbero vigilare sull’operato del governo scodinzolano felici dai loro scranni (dove sono tutti i parlamentari avvocati quando debbono difendere ciò su cui hanno giurato!?). Le uniche risposte a questa, come ad altre più gravi prepotenze, devono provenire da un risveglio popolare e dalla formazione di nuove élites culturali e politiche. Né l’uno né le altre però si intravedono all’orizzonte.

Fonte: http://www.mirorenzaglia.org/2012/09/il-filtro-in-appello-anche-nel-processo-civile-la-deriva-autoritaria-del-governo-monti/ 
*titolo originale: Il "filtro in appello": anche nel processo civile la deriva autoritaria del Governo Monti.

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