giovedì 24 gennaio 2019

Cacciatori di bambini.

Non so perchè lo feci, ma non ne potei fare a meno.
Ero un bambinetto di non più di 11 anni, sulla mia bicicletta nuova. Una Atala 18, che avevo sognato per settimane prima che papà mi portasse al negozio di articoli sportivi a comprarla. Era una bicicletta con il cambio, una delle prime che avessi mai visto in vita mia. Una novità assoluta per me e per la cerchia dei miei amici. Tre rapporti, con una leva per la cambiata proprio sul telaio, tra il sedile e il manubrio, rivestita di plastica nera ad imitare una vera leva del cambio. Per me quella era la cosa più figa di tutta la bici, anche del colore, giallo ambra metallizzato e nero, più figa del grande sedile con la spalliera cromata, più figa ancora delle grandi ruote tacchettate (grandissime per me, che fino ad allora ero andato su una “graziella 16” da bambina e di cui mi vergognavo molto).
Scelsi quella e non altre, per quella leva.
Poi, mi resi conto, nell’uso di ogni giorno, di quanto stupida fosse stata la mia scelta. Non tanto per la linea aggressiva del telaio, che donava l’aspetto di una bici da cross capace di scalare anche le montagne, ma perchè quella maledetta Atala pesava una tonnellata. Me ne resi conto ancora di più  quando feci a cambio per qualche ora con uno dei miei amici, che aveva una più classica BMX, piccola, maneggevole e leggerissima. Tutta cromata. Nera e acciaio, con la scritta BMX sul telaio bellissima, ai miei occhi.
In quel momento mi resi conto che era quella la bicletta che faceva per me, non quel carro armato che avevo comprato.
Quando andavamo in giro e dovevamo affrontare la dannazione per ogni ciclista del mondo, la salita, mi rendevo conto che facevo uno sforzo doppio rispetto a tutti i miei compagni, che pedalavano spediti e anche se affaticati, mi distanziavano sempre.
Restavo sempre indietro.
Sudato.
Afflitto.
Incapace di ammettere al mio papà che mi fossi sbagliato.
Si perchè, il papà me lo aveva detto.
“Non prendere questa. Prendi una BMX, magari una di quelle con i parafalangi e i parafanghi. Sono più leggere e vanno più veloci”.
Strano sentir papà consigliarmi qualcosa di più veloce e presumibilmente per questo, più pericoloso. Ed io (ma perché???) non ne approfittai.
Dissi no, non voglio una BMX. Voglio quella. Ti prego papà, costa troppo? chiesi.
Non costava molto di più. Ma vidi la perplessità e poi l’accettazione sul suo viso trasformarsi in un sorriso. Il suo sorriso. Quello che amavo. Una luce che accendeva i miei giorni senza saltarne mai uno.
Ricordo le sue manone forti sollevare la bici e sistemarla sul portapacchi del tettuccio dell’auto. Ricordo che mentre legava la bici con le cinghie elastiche fischiettava. Una delle sue melodie inventate, sempre diverse, eppur tutte così simili e melodiose tanto che sembrava che ogni volta che cominciasse a fischiettare, riprendesse la stessa infinita melodia, esattamente laddove l’aveva lasciata.
Ricordo che quando finì di legare la bici, mi fece l’occhiolino, il classico segno per dirmi “andiamo, ci siamo, è tutto ok!”.
E così presi quella dannata bici pesante, troppo per le mie gracili gambine da bambino iperattivo e troppo magro.
E tutto per quella dannata leva del cambio, che mi faceva sognare di essere su una stupida moto e non su una  bici.
L’ho maledetta tante volte quella leva del cambio, dopo di allora. Dimentico, completamente, della felicità di quel giorno, davanti al negozio di articoli sportivi, davanti alla vetrina del quale stavano sistemate, quasi ammassate, una di fianco all’altra un numero sbalorditivo di biciclette di ogni genere, di ogni misura, legate una all’altra con una lunga catena.
Anche la mia, veniva da quel mucchio selvaggio.Stava tra una graziella rosa e bianca con il cestino di plastica anch’essa rosa sul manubrio e una grossa bici da corsa con i manubri a manico d’ombrello, con le ruote così grandi che una della mia sembrava una fede nuziale al confronto.
Quel giorno fui felice. Così felice che ricordo ogni particolare ancora oggi, come se fosse ieri.
La felicità è così. Ti si scolpisce nell’anima. Forse perchè è così rara. Momenti del genere sono così fugaci, così repentini, come soffi di vento, che l’unico modo che abbiamo per onorarli è il conservarne gelosamente il ricordo.
Così, quel giorno, rimasto indietro, per l’ennesima volta, con il mio pezzo di ferro pesante, quando vidi la macchina ferma nella piccola piazzola di sosta, dove di solito si fermava il pulmann che portava in città i pendolari, maledii quella Atala 18 e la sua stronza leva del cambio con tutto il cuore.
I miei amici erano troppo avanti. Così avanti che non li vedevo nemmeno più. Erano volati via, in una delle loro solite gare di velocità, in cui io naturalmente ero spacciato in partenza. Così non partecipavo nemmeno.
E restavo indietro.
La macchina era ferma con il cofano del motore rivolto alla strada, come se chi avesse parcheggiato, avesse voluto evitare di perdere tempo a fare manovra per riprendere la strada.
Era una macchina rossa. Uno di quei modelli vecchi che ogni tanto si vedevano passare nel loro borbottìo rumoroso ed una scia oleosa nell’aria.
Notai subito come i parasole del parabrezza fossero abbassati. Perchè, nonostante un riverbero di sole, impediva la vista dell’interno dell’abitacolo, le due alette di pelle e plastica, si stagliavano da dietro il vetro con nettezza inusuale. Come se fossero stati disegnati da un tratto di matita più forte.
Io me ne stavo in cima ad un piccolo dosso che portava la stradina che stavo percorrendo (e che i miei amici avevano già percorso chissà da quanto tempo) ad intersecare la strada principale che portava in paese. Proprio di fronte a me, il piccolo spiazzo dove si fermava e faceva manovra l’autobus e su un lato una piccola nicchia votiva di San Giuseppe, con il suo caratteristico piccolo tetto a spioventi e la grata simile al cancello di una cella che imprigionava il santo all’interno della costruzione.
Me ne stavo fermo sul dosso, a guardare dal rialzo verso il basso l’incrocio che avrei dovuto attraversare, per prendere la strada che sapevo con certezza che i miei amici avevano percorso poco prima, con una doppia paura in corpo.
Quella incoscia, della voce di mia madre, che mi aveva messo in guardia su quell’incrocio e sulla pericolosità di attraversarlo velocemente (come tra l’altro sapevo senza dubbio avevano fatto i miei amici) senza guardare da una parte e dall’altra controllando che non arrivasse nessuno. E poi c’era la paura di quella macchina, parcheggiata in modo così incosueto, oltre che in un posto dove raramente parcheggiava qualcuno. Intorno all’incrocio, a parte una villetta ancora in costruzione, con un cancello da cantiere mezzo aperto e tenuto fermo da una catenaccia arruginita, non c’era altro.
Perchè avrei dovuto aver paura di quella macchina? Cosa c’era di tanto minaccioso in essa? Il riflesso del sole che di taglio rifletteva sul parabrezza, quasi accecandomi, poteva essere un motivo plausibile?
Poi mi resi conto che erano i parasole abbassati, quel piccolo particolare notato quasi di sfuggita con l’occhio della mente, quella sempre vigile, quella parte fifona di ogni bambino, quella in cui albergano le voci dei propri genitori con le loro apprensioni e paure, con i loro ammonimenti e racconti raccapriccianti per farti stare attento, ogni volta che uscivi di casa.
Benchè casa mia, distasse non più di 800 metri da quell’incrocio, non mi sono mai sentito più lontano da casa, come in quel momento.
Perchè quei parasole abbassati, quei due stupidi pezzi di finta pelle e plastica dura, significavano una  cosa sola: che dentro la macchina c’era qualcuno.
Il modo com’era parcheggiata. E i parasole.
Se due indizi non fanno una prova, in quel momento non lo sospettavo minimamente.
Perchè a dirmi che in quell’auto, ci fosse qualcuno, e per giunta qualcuno di pericoloso, erano moltissime altre cose, oltre a quei due apparentemente poco importanti indizi.
E cos’erano tutte quelle cose?
Pochi giorni prima, era venuta a casa a trovarci una cugina di mio padre. Una strana signora, una di quelle signore di cui non intuisci mai l’età a guardarla, nè mai nessuno glielo chiede o lei lo dice, piccolina di corporatura, con una di quelle acconciature demodè che avrebbero fatto apparire anziana una adolescente, vestita di nero perennemente, sempre a lutto per qualcuno, anche se non poprio di famiglia, uno di quei parenti che vedi ogni lustro e che dimentichi ogni volta per poi ricordare quando ritorna a trovarti.
Era rimasta a cena da noi. Ricordo che aveva piluccato per tutta la durata della cena perchè impegnata in una ininterrotta sequela di parole.
Dio quanto aveva parlato!
Aveva parlato di qualsiasi cosa. Pettegolezzi, per lo più, credo di ricordare. Perchè di tutte quelle parole, non ricordo assolutamente nulla, se non quelle dopo cena, quando ci trasferimmo in soggiorno, davanti al focolare acceso. Lei se ne stava seduta su una delle poltroncine appena comprate, a rate, di cui mamma sapevo andasse così fiera, con il loro rivestimento a fiori viola, che davano un tocco così vivace al soggiorno.
Stava ritta come se stesse sulle spine, come se si sentisse a disagio, come in procinto di alzarsi per andare via. E sebbene vedessi che mamma e papà sorridevano a quelle che presumibilmente dovevano essere delle battute, tra quel fiume di parole, con quella voce nasale e stridula allo stesso tempo, quasi strozzata, come di un uccellino rimasto incastrato tra le sbarre della propria gabietta, tuttavia avevo come l’impressione che la signora dall’età misteriosa, vestita di nero e con i capelli dello stesso intenso colore, fosse a disagio. Come se ci fosse qualcosa che la turbasse profondamente.
Quando cominciò a raccontare quello che non ho più dimenticato per tutta la vita, alzai immediatamente la testa anch’io dal tappeto sul quale stavo seduto a giocare con i miei soldatini, proprio davanti al fuoco, e fissai il mio sguardo su di lei, al pari dei miei genitori, irrimediabilmente attratti da quell’esordio improvviso, una cesura, rispetto al fluire quasi indistinto e usuale delle parole vomitate fino a quel momento.
“Sono passata per avvertirvi”
Non furono le parole ad attrarre inesorabilmente l’attenzione dei miei genitori e addirittura quella di un bambino intento ai suoi giochi preferiti. Fu il tono.
Fu come il rintocco di una campana a morto.
Come una sentenza di morte.
Sentii quasi il repentino abbassarsi della temperatura, nonostante il fuoco acceso e scoppiettante.
“Non dovete continuare a starvene tranquilli, come se niente fosse” aggiunse poco dopo. Dopo quell’attimo di teatrale silenzio. Messo lì forse ad hoc, per aumentare il senso di suspence e attirare ancora di più l’attenzione dei miei.
Non dovete continuare a starvene traquilli.
Il che significava che era venuta a trovarci per sovvertire la tranquillità di casa nostra.
Tutto faceva pensare proprio di sì.
Non aveva mentito nel dirlo.
“Forse è meglio che il bambino” (il bambino…) “ non ascolti” disse. Nemmeno il mio nome le sovvenne lì per lì, a testimonianza che la sua più completa attenzione era concentrata su ciò che era venuta a rivelare ai miei. Era tutta la sera che se lo portava addosso, come un presagio di sventura.
E così fui portato in camera da letto da mamma, che mi diede il bacio della buonanotte e mi rimboccò le coperte, non dopo aver salutato la strana cugina del babbo ed essermi lavato i denti in bagno sotto l’attenta supervisione di mia madre che come al solito ebbe da ridire su ognuno dei singoli movimenti del mio spazzolino, sui miei denti.
Ma non appena la porta della cameretta fu chiusa delicatamente, com’era solita fare lei (mio padre aveva il tocco delicato di un bufalo africano, ogni volta che chiudeva quella porta), la curiosità più divorante che avessi mai provato, mi assalì come un cane affamato farebbe su un pezzo di carne trovato per strada.
Così attesi che il rumore dei passi di mamma si allontanassero nel corridoio per poi svanire, in quello strano effetto doppler morbido delle case, e mi alzai, scalzo, per non far rumore e andai ad appoggiare l’orecchio sul legno freddo della porta, nella speranza che le voci dal salotto giungessero fin lì.
Per mia somma sfortuna, non lo facevano. Benchè la casa fosse piccola, molto piccola, da quel punto, non sentivo nulla, se non un brusìo indistinto.
Riconoscevo la voce di mia madre che diceva qualcosa, con un tono calmo e sereno, il che mi tranquillizzò molto, facendomi quasi desistere dalla voglia di ascoltare quale misterioso segreto stesse per rivelare la strana signora vestita di nero.
Fu in quel momento che mi resi conto di quanto stesse battendo forte il mio cuore nel petto, perchè la calma infusa dal tono delle parole ovattate di mia madre, fecero rallentare i batitti e riuscii a sentire quasi distintamente qualche smozzico di parole di papà. Una domanda, intuii dal tono.
“Ti prendo… uno solo… bicchiere?”
Sentivo meglio, si, ma non abbastanza.
Così mi arrovellai per un tempo che sembrò infinito, se uscire di soppiatto ed appostarmi alla fine del corridoio, punto dal quale avrei sicuramente sentito tutto alla perfezione, come se non mi fossi mai mosso dal tappeto dal quale ero stato violentemente sbattuto via, oppure restare nella stanza e nel dubbio, a consumarmi nella curiosità di un mistero non svelato.
Non potevo restare lì.
Non era possibile.
Così, aprii la porta il più silenziosamente possibile e avanzai nel buio del corridoio e mi accoccolai sulla parte inferiore della cappelliera, che fungeva da portascarpe, ma non veniva mai usata a quello scopo. Ricordo che la dimensione del mio sederino smagrito era così piccola che si incastrava alla perfezione tra il tondino poggiatacco e la base della piccola scarpiera. Appoggiai la schiena al velluto della parete della cappelliera, morbido, comodo e rivolsi tutta la mia attenzione alle parole, che in una strana eco giungevano dal salotto. L’unica luce era il riverbero del fuoco, che voltava l’angolo del corridoio, illuminandolo fiocamente, facendo danzare una pletora di ombre, che sarebbero ben presto diventate inquietanti, sui muri.
“Mi sembri preoccupata, Mena” stava dicendo mio padre. Mena era il nomignolo con la quale tutti chiamavano la strana signora, cugina in secondo grado di mio padre. Il suo vero nome credo fosse Amelia o qualcosa del genere. L’ho dimenticato.
“Sono preoccupata. Sono venuta il prima possibile per avvertirvi, appena ho saputo quello che sto per raccontarvi”.
“Che cosa succede?” chiese mia madre. Nella sua voce notai una nota d’apprensione così disperata che mi fece paura.
Mi immaginai gli occhi di Mena, scuri, come due fori aperti su un pozzo scuro, fissi in quelli di mia madre ed ebbi un brivido anche io.
“Conoscete Virginia e suo marito Carlo?Di ….., giusto?”
Mia madre e mio padre risposero di si insieme.
“Sono stata a trovarli, come faccio di solito, almeno una volta all’anno. Resto da loro per qualche settimana. Questa volta mi sono fermata solo tre giorni. Avevo premura a tornare. Non potevo aspettare troppo senza parlarvi, non con un bambino piccolo come il vostro”.
Il tono quasi brutale con il quale pronunciò quelle parole, mi costrinsero ad alzarmi. Improvvisamente non avevo più voglia di restare seduto al buio e ad ascoltare. Sarei ritornato nella mia cameretta, se solo avessi avuto il coraggio di farlo.
Si, perchè non appena compresi che l’oggetto della conversazione in qualche modo fossi io, la mia volontà fu completamente annulata. Dovevo ascoltare. Non potevo non farlo.
“Cosa vorresti dire?” sentii mia madre chiedere con un filo di voce, sempre più preoccupata, ma anche un po' sulla difensiva.
Sospettavo che Mena stesse facendo la sua solita teatrale sceneggiata drammatica, ma qualcosa mi diceva che questa volta era diverso.
“Voglio dire che vostro figlio è in grave pericolo”.
BOOM!
Il cuore accelerò nel mio petto all’istante. Come se fosse incalzato da una creatura infernale. Mi resi conto che avevo cominciato a tremare qualche secondo dopo, quando fui riportato alla conversazione che si stava svolgendo nel salotto della nostra piccola casa, tra ciocchi scoppiettanti e il silenzio della sera inoltrata, dalla voce concitata di mio padre che a quella dichiarazione così brutale, reagì alzando il tono e chiedendo spiegazioni con agitazione crescente.
“Lo so, lo so” cercava di placarlo Mena con il suo tono mellifluo “So che ti sconvolge, ma è la pura verità. Sta succedendo qualcosa di terribile e ancora nessuno ne parla, perchè tutti hanno maledettamente paura di ammetterlo. Fanno ancora tutti finta che non sia vero”.
Calcò quel “maledettamente” come se fosse il perno della frase, come se tutto il costrutto delle sue parole, dovesse girare intorno a quella unica, singola parola.
“Ma si può sapere di cosa diavolo stai parlando?” chiese mio padre quasi gridando.
“Calmati, lasciala parlare” si intromise mamma. Me la immaginai appoggiargli una mano sulla spalla, a mò di carezza e accondiscendenza.
“Te lo spiego subito di che cosa sto blaterando” sentii il rumore di un accendino, poi riprese a parlare con voce rotta, aveva iniziato a fumare una delle sue solite sigarette lunghe, bianche, con il bocchino di osso nero, che le davano quel tono da vecchia matrona che tanto infastidiva la gente.
“Virginia e Carlo all’inizio non volevano crederci, ma poi hanno visto quasi con i loro stessi occhi…” lasciò la frase sospesa, come una goccia da un rubinetto, prima di cadere (Plink!), continuò espellendo il fumo della sigaretta con un rumore di sbuffo sfastidiato “Di solito arrivano a bordo di una familare rossa con un finestrino crepato… cioè tutto pieno di crepe, come se fosse stato colpito da un sasso. Sono due, due uomini, appaiono qualche settimana prima, li vedi apparire in paese, nel quartiere, passare come se niente fosse, o parcheggiati da qualche parte e non scendono mai dalla macchina. Nè fanno altro. Sembrano osservare. Scrutano le zone. Imparano le abitudini della gente che abita in quelle strade, probabilmente, raccolgono informazioni….” si fermò di nuovo, probabilmente per un altro tiro di sigaretta.
Adesso il silenzio era assoluto. La casa era completamente immersa. Si sentiva solo lo schioppettìo sfiacchito del fuoco che si andava esaurendo velocemente e il ticchettìo lontano dell’orologio in cucina. Tutto il resto era come se stesse trattenendo il respiro.
Ed io lo stavo facendo davvero.
“Qualcuno dice di averli visti anche a bordo di un’auto bianca, più piccolina. Non fanno altro che andare su e giù per strade e traverse, ogni tanto si fermano da qualche parte e aspettano. Anzi, osservano” ripetè.
Osservano.
Stupidamente mi guardai indietro. Anche io in quel momento mi sentivo osservato. E vinto da un disagio crescente, pensai che avevo fatto la cazzata più grande del mondo a voler origliare. Pensai a Marco, uno dei miei amici, forse il mio miglior amico a quel tempo, pensai agli altri. Dio! quanto avrei voluto che fossero lì con me in quel momento. Ci saremmo dati conforto e coraggio l’un l’altro.
Nel frattempo Mena aveva ripreso a parlare.
“Non danno mai fastidio. Non si mettono in mostra. Non attirano l’attenzione e poi, dopo poco più di una settimana di osservazione”  calcò la parola osservazione con una risatina di ironico sarcasmo “spariscono”.
Me li immaginavo con visi anonimi, dai tratti indistinti, dietro il parabrezza della loro auto rossa, a scrutare, osservare, registrare, prendere appunti. Famelici. Cattivi. Pericolosi.
“Passato qualche giorno” riprese “appare un furgone. Anzi, probabilmente più di uno. Su questo Virginia e Carlo non sono stati precisi. Alcuni hanno parlato di una autoambulanza, di quelle vecchie, senza le luci sul tettuccio, ma con lo stemma rosso su sfondo bianco della CARITAS sulle fiancate. Ma qualcuno ha parlato anche di un furgone con i finestrini posteriori ciechi, oscurati. Alcuni hanno detto di aver visto un furgone blu, altri bianco. Altri ancora verde, di quelli vecchi della Ford”.
“Ma cosa fanno?!” la interruppe mia madre, con apprensione e sollecitudine, come a voler spezzare la “trama” del racconto e arrivare subito alla conclusione, non solo per sapere come andava a finire, ma soprattutto per interroperne la narrazione. Il tono di mia madre fu l’ennesimo colpo di maglio al mio coraggio.
In quel momento, mi sentivo totalmente terrorizzato.
Non avevo ancora intuito cosa quegli uomini in macchina o nei furgoni facessero o volessero, ma era sicuramente qualcosa di spaventoso.
“Lo so, lo so” disse Mena, come a voler calmare la mamma “ora te lo spiego…”
Sentii nuovamente il rumore dell’accendino.
Riprese a parlare con la voce più roca per via del fumo.
“In paese da Virginia e Carlo, R……, sono spariti due bambini nell’ultimo mese”
BOOM!
Seconda bomba nucleare.
Le ginocchia mi cedettero e caddi a terra con un tonfo ovattato sul pavimento duro. Qualcosa mi sfiorò l’orecchio destro proprio in quel momento, come una carezza fantasma, più verosimilmente una mosca o qualche altro insetto, e per poco non urlai. Mi cacciai un pugno in bocca e mi trattenni, versando qualche lacrima. Tremavo. Ma restavo dov’ero. Volevo sentire altri particolari. Non potevo andarmene così semplicemente a letto, dopo quello che avevo sentito.
“Come spariti?” era la voce di mio padre quella che sentivo, ma sembrava quella di un vecchio. Sfiacchita, come ginocchia artritiche.
“Spariti” rispose la megera con voce grave.
“Ma non si è saputo niente!! Nessuno ne ha parlato!!” argomentò mia madre con tono di voce supplichevole.
“Perché le autorità che indagano hanno cercato di mantenere il riserbo più severo possibile per garantire una indagine più efficace, o almeno questo è quello che ho sentito poco prima che venissi via da R….. Ma la cosa preoccupante è un’altra…” aggiunse lasciando la frase in sospeso, in quel modo tutto teatrale di chi racconta una storia e vuole mantenere viva il più possibile l’attenzione di chi ascolta.
Il fatto era che, in quel momento, non poteva non avere che l’attenzione più assoluta da parte di mia madre e mio padre, e da parte mia ahimè, e non c’era alcun bisogno di questi giochetti da affabulatrice. Ma Mena era esattamente questo: un’affabulatrice. Lo era sempre stata.
“Conoscete Maria la Matta, no?” continuò e senza aspettare alcuna risposta aggiunse “Beh, ha una sorella, Gemma, che vive a T…. anche lì, in paese da loro, è sparita una bambina di 7 anni. L’hanno cercata in lungo e in largo per settimane, ma era come se si fosse volatilizzata. L’avevano vista uscire dal giardino di casa propria inseguendo un gattino e nessuno l’ha più vista. Gemma ha lavorato come domestica a casa della bambina e se n’è presa cura molte volte, come baby sitter, così ha potuto parlare direttamente con la sua famiglia, dando pure una mano non solo nelle ricerche. Beh, non c’è stato nulla da fare…”
“Ma quando è successo tutto questo? Non ne abbiamo sentito nulla, possibile che nessuno ne ha parlato?” chiese nuovamente mia madre.
Allora, mentre me ne stavo rannicchiato sul poggiatacco della scarpiera, praticamente gelato dalla paura, non capivo l’insistenza e la supplica implicita in quella domanda di mia madre. Una domanda che del resto le aveva già rivolto pochi minuti prima. Ma ora, a distanza di così tanto tempo, capisco perfettamente il perchè di quella supplica.
Mia madre sperava che tutto quello che stava ascoltando fossero solo un mucchio di balle. E sono sicuro, conoscendo mia madre, che in parte era proprio ciò che pensava, o meglio che voleva credere. Nondimeno, però sentivo dal tono della sua voce che la paura aveva ormai sopraffatto anche lei. Perchè se c’è una cosa che ho imparato vedendo all’opera i miei genitori con me, è che per un padre o una madre, quando c’è di mezzo il proprio bambino, la lucidità è una opzione non praticabile.
Finché tutto va bene, sono ragionevoli e logici, al limite del parossismo. Ma non appena incombe anche la più piccola minaccia sul proprio bambino, addio lucidità.
“Credo che ne stiano parlando poco sui giornali e in tv perchè così chiedono gli inquirenti” disse la megera “E’ una situazione delicata che si sta espandendo a macchia d’olio. Prima erano casi isolati, adesso la cosa si sta ripetendo”
“Ma chi sono? Cosa vogliono? Chiedono un riscatto, li uccidono, li violentano?” chiese mio padre che ora aveva sostituito la rabbia allo sgomento. Lo intuivo benissimo dal suo tono. Conoscevo benissimo quel fuore, quel fuoco che lo accendeva come la capocchia di un cerino per poi spegnersi subito dopo. Zolfo.
“E’ proprio questo il punto. Ed è per questo che ci tenevo a parlarvi stasera per mettervi in guardia e stare attenti con il vostro bambino…. “ disse con tono grave Mena, accendendosi l’ennesima sigaretta “Sono più pericolosi di quanto possiate immaginare. Prendono i  bambini per uno scopo ben preciso, uno scopo terribile. Prego ogni giorno il padreterno e la Madonna affinchè la polizia li fermi presto, anzi prestissimo. Perchè ciò che fanno è orribile…” buttò fuori un’altra zaffata di fumo, ne sentii il rumore distintamente anche dal corridoio, quasi ne sentii anche l’odore. La pausa ad effetto, tese ancora di più i nervi dei miei genitori e dei miei.
Il vento fuori nel frattempo, sferzò la casa, facendola gemere nelle giunture. Improvvisamente anche la notte fuori divenne inquietante. Per me, seduto al buio in corridoio, fu come se mi rendessi conto solo in quel momento che esisteva il mondo esterno, proprio quel mondo scuro popolato da mostri, i mostri di cui stavano parlando in soggiorno. Quella sferzata di vento, mi riportò alla mente che in quel momento, là fuori, forse anche intorno alla casa, si aggiravano le bestie con gli occhi rossi che rapivano i bambini.
“Cosa fanno Mena?” chiese mia madre, che non riuscì a nascondere una nota di disperazione nella voce.
“Espiantano gli organi e li vendono al mercato nero”.
BOOM!
Terza bomba nucleare.
Devastazione. Silenzio. Morte. Paura. Sofferenza.
Fu come prendere uno schiaffo in pieno volto. Anzi, un cazzotto, potente, esperto, ben assestato, di quelli che ti mandano giù e da cui riprenderti non è cosa facile.
Cominciai a tremare. Mi resi conto che non c’èra scampo. Avrebbero preso anche me.
“Espiantano gli organi?!? Non è possibile, non ci credo” quasi urlò mio padre.
“Schhhhhhhh” intervenne immediatamente mamma “Non vorrai svegliare…”
“Si, così ha detto il medico di T… il paesello di Virginia e Carlo. Ha fatto alcune telefonate per capire qualcosa in più su quei furgoni, soprattuto sulla macchina della Caritas, ha delle conoscenze, nel volontariato, ed è venuto a sapere che nel R…. in alcuni paeselli della zona di C….. sono stati visti alcuni furgoni aggirarsi per settimane, e l’immancabile auto della Caritas, dopodichè è sparito un bambino di 10 anni, mentre andava a giocare a calcio. Troavarono solo il pallone, abbandonato a ciglio strada. Dopo poche settimane, rinvenirono il corpo straziato in un campo non distante da dove era stato visto l’ultima volta. Dapprincipio nessuno si era accorto delle mutilazioni, ma poi l’autopsia, così come al dottore di T…. gli ha confermato un collega del posto, ha riportato che il corpo del bambino era privo di entrambi i reni, degli occhi, del cuore, del fegato e dei polmoni. Espiantati chirurgicamente. Non con particolare maestria, ma molto professionalmente. Si pensa che siano comunque medici, o che abbiano studiato chirurgia quantomeno e abbiano fatto pratica con gli animali”
Troppi particolari. Troppi dettagli. Troppo orrore. Troppo di tutto.
Quello che stava raccontando Mena, sembrava un film dell’orrore spaventoso. Di quelli che ti lasciano incollato allo schermo con il cuore a martellare in gola e la paura che qualcosa di orribile spunti all’improvviso dagli angoli bui della stanza.
Anche il vento, fuori, sembrava più spaventoso, una voce rauca, proveniente dall’infinito, che sussurrava oscenità nella notte. Le ombre del fuoco, il fioco bagliore che arrivava al corridoio, sulle pareti, erano fantasmi danzanti con occhi profondi e incavati, nella cui oscurità si celavano gli orrori del mondo.
I miei genitori, da par loro, erano rimasti senza fiato. E mentre io mi dondolavo avanti e indietro abbracciando le ginocchia, come in preda ad un delirio, tremando, conscio del fatto che da lì a qualche momento i cacciatori di organi sarebbero balzati dall’oscurità su di me per espiantarmi tutto ciò che potevano, entrambi, a modo loro, si dondolavano di fronte a quelle parole così terribili.
“E’ per questo che ho voluto a tutti i costi tornare prima dal mio soggiorno a T…” continuò la megera, sicuramente complice di cacciatori di organi e assassini, pensai “per avvertirvi. Non potevo sopportare l’idea che il vostro bambino se ne andasse in giro come se niente fosse, rischiando di finire in mano a queste bestie”.
Cacciatori di organi e bambini scomparsi e ritrovati cadaveri.
Quando Mena decise di andare via, quasi non avevo più la forza di alzarmi e tornare di soppiatto nella mia stanza, anche perchè in quel momento la stanza nella quale avrei dovuto trascorrere il resto di quella terribile nottata, non era più la mia stanzetta accogliente e profumata di lavanda per le lenzuola di bucato, ma era l’anfratto buio nel quale si nascondevano le più spaventose creature della notte.
Strisciai stralunato attraverso la porta della stanzetta socchiusa e me la chiusi alle spalle. Quando fui circondato dal silenzio ovattato della stanza e dal buio, però, non andai in panico. Ero sicuro che non mi sarebbe successo nulla, se avessi tenuto gli occhi chiusi e mi fossi infilato sotto le coperte senza perdere tempo. E così feci.
Facile immaginare la notte che passai.
Non chiusi occhio.
Continuai a dibattermi e a svegliarmi in continuazione, passando da un incubo all’altro.
Incubi nei quali, immancabilmente, un cacciatore di organi con la bocca distorta da un ghigno infernale, mi inseguiva alla ricerca spasmodica dei miei organi interni.
Nei giorni seguenti, non parlai con i miei della paura costante nella quale la mia vita da bambino era improvvisamente piombata. Ogni giorno mi aggiravo anche per casa, con l’impressione di essere seguito ovunque da qualcuno. Le notti erano terribili, dove ogni più piccolo rumore era l’indizio che qualcuno era vicino a saltarmi addosso e portarmi via per essere operato, tra atroci tormenti ed essere privato dei miei organi.
Fu una vera ossessione che mi perseguitò per settimane.
Poi pian piano, le cose, come sempre, migliorarono e cominciai ad affrontare le giornate (e soprattutto le nottate) con più serenità. Gradualmente riuscii a trovare le giuste distrazioni e a superare i seppur sempre presenti momenti di terrore. Bastava una macchina sospetta, qualche sconosciuto che incontravo per strada, per farmi saltare il cuore in gola e sudare freddo.
Avevo preso l’abitudine a girare con le tasche piene di sassi e un coltellino ben affilato da cui non mi separavo mai.
Anche i miei amici, avevano saputo dei cacciatori di organi. Ben presto le storie di bambini spariti e ritrovati morti e con gli organi espiantati o al meglio storpiati per sempre, si moltiplicarono. Ne parlavano tutti in paese. Ed ognuno aggiungeva particolari terrificanti. Ognuno aveva parlato con qualcuno che aveva visto di persona. Ognuno aveva notizie di prima mano e certe.
Così come sempre va in queste storie, ben presto, i cacciatori di organi non solo avevano fatto la comparsa nel nostro mondo, ma lo dominavano con la paura.
Le mamme ci pensavano due volte a mandare fuori i bambini da soli. Per le strade dopo una certa ora, non c’era più nessuno, come se fosse scattato un coprifuoco tacito e non imposto da alcuna autorità. La gente si difendeva.
Forestieri e persone non conosciute si trattavano con freddezza e venivano visti come minacce un po’ da tutti. Un clima di generale diffidenza aveva pervaso il paese e tutti si guardavano le spalle, soprattutto noi bambini, che per esorcizzare la paura parlavamo tra noi e ci scambiavamo informazioni ogni qualvolta ne avessimo occasione, anche se i nostri genitori ci avessero consigliato di non farlo.
I miei non seppero mai che quella sera, quando Mena raccontò dei cacciatori di organi al fuoco, io ero nascosto in corridoio, ad ascoltare. Ma l’argomento fu affrontato comunque, perchè ormai in paese ne parlavano tutti.
Mia madre e mio padre, preoccupati più che mai, mi lasciavano solo il meno possibile e mi diedero tutte le raccomandazioni immaginabili. Ma per minimizzare la cosa, mi dissero anche di non pensarci, di non stare lì con gli amici a parlarne tutto il giorno, perchè i cacciatori di organi da noi non sarebbero mai arrivati. Era in altri posti che operavano, non da noi. Erano lontanti. Non si sarebbero avvicinati mai.
Quelle rassicurazioni, ripetute un po’ da tutti i genitori ai propri figli, alla fine ottennero l’effetto contrario. Non solo i bambini ne parlavano continuamente (come gli adulti del resto), ma più passavano i giorni e più la minaccia sembrava incombere sul paese.
Da parte mia però dopo il terrore della notte in cui i cacciatori di organi entrarono nella mia vita, la paura era diventata una costante più accettabile. Poterne parlare, sapere cosa fare in caso di, avere sempre qualcuno vicino (perchè ormai nessuno restava solo o quantomeno si limitavano al massimo le occasioni in cui ciò avveniva), mitigarono il terrore di incontrare gli strani furgoni o le auto con l’effige della Caritas sulle fiancate.
Quando quel giorno, dunque, rimasto indietro con la mia bici, sudato e affaticato, mi fermai sul piccolo dosso ad osservare l’incrocio che avrei dovuto imboccare, per raggiungere i miei amici, vidi l’auto rossa ferma nella piazzola, il cuore partì al galoppo automaticamente.
Improvvisamente, l’auto ferma, non era più una semplice auto in sosta, ma era QUELLA auto, con a bordo i cacciatori d’organi.
Il terrore mi paralizzò totalmente.
Il tempo si fermò e cominciai a respirare male.
Purtroppo per me, avevo due sole alternative: imboccare l’incrocio e passare davanti all’auto in sosta o tornare indietro, per la stradina che avevamo percorso poco prima con gli amici e che portava nel bosco. La terza, prendere la strada del paese, non la presi nemmeno in considerazione. La strada era più larga e le prime case erano a diversi km.
Scartai immediatamente anche la seconda opzione. Andare verso il bosco, con il sole che cominciava ad abbassarsi pericolosamente sull’orizzonte, era un completo suicidio. E benchè il panico cominciasse già a mordermi le terga, tuttavia quella opzione non mi avrebbe dato alcuna speranza.
L’unica cosa che avrei potuto fare era prendere l’incrocio a tutta birra e passare come un missile davanti alla macchina assassina, pedalando come un forsennato verso casa mia.
Da lì, avrei preso quel vantaggio che se anche mi avessero inseguito, probabilmente ce l’avrei fatta, perchè mi avrebbero potuto anche raggiungere, ma avrebbero dovuto effettuare il rapimento proprio davanti alle case dei miei vicini.
Se c’era una speranza che me la cavassi, quella era l’unica alternativa.
Passarono minuti infiniti. Minuti nei quali pensai anche che se non fossi partito immediatamente al galoppo, i cacciatori avrebbero avuto tempo e modo di piazzarsi per strada a bloccarmi prima che prendessi la strada di casa, o che avrebbero addirittura azzardato la manovra di venirmi a prendere sul dosso, il che mi avrebbe solo fatto cadere dalla padella alla brace, perchè sarei stato costretto  a scappare per la stradina che portava nel bosco e sarei stato spacciato.
Mi mossi dapprima lentamente, per arrivare al limite del dosso e guardai l’auto ferma. Il riflesso del sole sul parabrezza, svelò l’interno dell’abitacolo. Nonostante fossi concentrato sul manubrio della bici, più pesante che mai, intravidi due sagome nelle ombre dell’abitacolo.
Due uomini probabilmente.
Due cacciatori.
Così, feci un respiro profondo e mi dissi “ce la puoi fare!” e cominciai a pedalare a più non posso.
Pedalai.
Pedalai come non mi capitò mai più in vita mia.
Pedalai per salvarmela la vita.
Sfrecciai nell’incrocio senza pensarci. Proprio mentre attraversavo la carreggiata asfaltata alla fine della discesa, un pensiero, veloce più della mia corsa, mi attraversò la mente.
Non avevo guardato se stesse arrivando qualcuno sulla strada.
Per me sarebbe stata la fine.
In quella frazione infinitesimale di tempo, capii che ero in trappola. Da una parte due cacciatori assetati di sague, pronti a saltarmi addosso e uccidermi, torturandomi. Dall’altra, un’auto in corsa che mi avrebbe triturato le ossa come un batticarne.
In quel preciso istante provai la vicinanza della morte.
La vidi. Ne sentii l’odore. Quel tanfo di putrefazione dolciastro. Un olezzo che poi, imparai nel corso della vita, ci accompagna sempre.
Camminiamo con la morte ogni giorno.
Ci guarda da profondi recessi. Ci spia, aspettando. Paziente e silenziosa. Con quella scia marcescente, ad aleggiare d’intorno. Ed è proprio quando ricambiamo lo sguardo che è finita.
Quel giorno ricambiai lo sguardo. O almeno voglio crederlo.
E per un secondo morii.
Perchè guardai nei suoi occhi infossati e non vi trovai nulla.
Era tutto finito e improvvisamente la paura era svanita.
Niente aveva più importanza. Dovunque sarei andato, ammesso che la morte mi avrebbe portato da qualche parte, niente avrebbe avuto più senso. Tutto ciò di cui mi preoccupavo, sarebbe stato spazzato via con le mie spoglie.
Così terminai il folle attraversamento con stampato sul viso il sorriso isterico del folle.
Cosa darei per rivedermi.
Mi vedrei con la faccia distorta dallo sforzo, i capelli scomposti dal vento, incurvato sul manubrio e le gambe tremanti a stantuffare forsennate sui pedali, il rumore quasi assordante della catena, lo sguardo strabuzzato dalla fatica contornato da quel terrificante sorriso folle.
Arrivai sulla strada talmente forte che la mia parabola fu troppo lunga rispetto alla carreggiata e arrivai a sfiorare col pedale il paraurti dell’auto ferma nella piazzola. Passai come un proiettile e sentii solo di sfuggita le imprecazioni di chi era sul sedile del guidatore.
Poi feci ciò che non avrei dovuto mai fare: guardai dietro, verso l’auto.
Volevo solo assicurarmi che non mi seguissero, visto che ero riuscito a passare loro davanti, senza che avessero cercato di fermarmi. Volevo assicurarmi di essere salvo, quando ormai ero convinto che sarei morto, quel giorno.
Ebbi la visione fugace del profilo rosso dell’auto e del finestrino abbassato. Vidi un braccio che gesticolava nella mia direzione.
In tutto questo, mi ero completamente scordato di rallentare quel minimo da ritrovare l’assetto adeguato alla bici, per adeguarlo alla leggera curva della strada.
Mi ritrovai troppo lungo e finii fuori dalla carreggiata.
Mentre voltavo la testa per guardare di nuovo davanti, vidi che ero ormai con la ruota fuori dalla sede stradale, nell’erba.
La bici perse aderenza e la mia corsa finì in rovina.
Vidi solo la polvere che si alzò dal terriccio.
Sentii un dolore lancinante ad una spalla,alle braccia e allo stomaco, probabilmente colpito dal manubrio e conclusi la mia folle corsa.
Il sudore mi scendeva negli occhi.
Ero accartocciato a terra, dolorante, sotto shock e con una gamba ancora incastrata nella bici, di cui vedevo solo una ruota capovolta, girare nel vuoto.
Non passò molto. Almeno non credo.
Non mi mossi, per paura di sentire un dolore lancinante e scoprire di essermi fatto male sul serio.
Non riuscivo ancora a capire l’entità dei danni. Così stetti lì, a terra, dimentico di tutto.
Poi la realtà di quel giorno così strano, mi rimpiombò addosso con tutto il suo orrore e intravidi con la coda dell’occhio una sagoma che si avvicinava a me.
Improvvisamente, mi resi conto che cadendo, avevo dato ai cacciatori la migliore occasione per rapirmi.
Dalla padella alla brace.
Mi mossi di scatto e una scudisciata di dolore partì dalla spalla, inondandomi il resto del braccio e del petto.
Un verso strozzato mi uscì dalla bocca. Come un grido spezzato da un pugno.
In realtà avrei voluto gridare. Gridare fino a strapparmi le corde vocali. Gridare come non avevo mai gridato in vita mia.
Ma non mi uscì altro.
Ero paralizzato.
I cacciatori incombevano su di me e per me era davvero finita.
Cosa mi avrebbero fatto realmente? Una cosa era ascoltare i raccapriccianti racconti di quello che facevano ai bambini. Un’altra era viverli di persona.
Avevo sentito racconti che parlavano di operazioni effettuate in luoghi squallidi, in vecchie stamberghe piene di sporcizia, con ferri operatori arrugginiti, con ganci e catene. Avevo sentito di bambini portati alla morte dal dolore, operati senza anestesia, con un panno in bocca per soffocare le urla e niente di più.
Ma ora, ora che ero io che stavo per finire in mano a quella gente, come sarebbe stato realmente? Dove mi avrebbero ucciso? Cosa sarebbe stata l’ultima cosa che avrei visto?
Era davvero la fine? Mi avrebbero ucciso o solo mutilato? Poi la speranza, quel tarlo sempre vivo, che uccide la gente più dei killer della malavita: e se fosse tutto falso? Se non ci fosse stata nessuna organizzazione di cacciatori di organi? Se tutti quei racconti non fossero altro che una leggenda metropolitana? Ed anche se a quel tempo non sapevo nemmeno che esistessero le leggende metropolitane, ma ne intuivo la realtà, nella speranza di salvarmi, per un attimo ebbi un moto di reazione.
Mi cercai di alzare e guardare in faccia la realtà. Non volevo morire rannicchiato. Se fosse stato tutto vero, non volevo che mi prendessero così.
Avrei lottato. Ferito o meno.
E se niente di tutto quello che negli ultimi mesi mi aveva più terrorizzato fosse esistito, non avrei fatto la figura del fifone.
Non feci a tempo ad alzarmi che una mano, grande, forte, neboruta, callosa, mi afferrò per la spalla, quella buona, ma l’altra, quella che aveva preso il colpo e che cominciava a pulsare come un dente marcio, protestò di dolore lo stesso. Il dolore si irradiò ovunque e per un attimo mi si annebbiò la vista.
Non vidi così il viso che calava su di me, minaccioso, scuro.
Cercai di mettere a fuoco il mio carnefice. Ormai di nuovo certo che fosse davvero un cacciatore.
Ed era venuto a prendermi.
Passò una vita intera. Immagini, sensazioni, pensieri, tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento, tutti i miei affetti, tutto ciò che di più caro avevo al mondo, schizzò via, risucchiato, in un attimo. Inghottito dal risucchio di un buco nero.
“Ehy, stai bene?”
Dapprima non capii cosa stessi ascoltando.
Era una voce gentile.
Vidi la fiancata dell’auto rossa, parcheggiata ancora nella piazzola di sosta, lo sportello aperto, il sedile sfiancato.
Non c’era alcuna effige della caritas.
Dopo un secolo alzai gli occhi sul quel viso e vidi un’espressione preoccupata, due occhi azzurri profondi, benevoli, le sopracciglia aggrottate, delicate, nere come la pece.
Poi arrivò l’altra persona.
“Dobbiamo portarlo in ospedale Pa’?”
Una voce femminile. Dolcissima. Premurosa. Da mamma.
Guardai la signora che veniva verso di me.
Aveva i capelli raccolti in uno chignon dietro la nuca, leggermente brizzolati. Il vestito umile, della signora di paese, con quelle gonne di lana sotto al ginocchio, le scarpe basse.
E capii che non erano venuti per uccidermi.
Se c’era qualcuno che aveva provato a farlo, quel giorno, ero  io.
Nessun cacciatore di organi mi rapì, per lasciarmi morire tra atroci tormenti. Nessuno prese i miei organi per venderli al mercato nero.
Nessuno lo aveva mai fatto.
Dopo molti anni, la leggenda venne smascherata.
Non c’era mai stato niente di vero.
Solo la fervida immaginazione di un popolo di genitori, spaventati dalla TV e dalla violenza di un mondo che non era mai arrivato da noi. Eppure così vero.

Francesco Salistrari,2019.








16 commenti:

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