domenica 30 dicembre 2012

Non sorprendetevi se il prossimo anno scoppierà una guerra tra Giappone e Cina.


DI HUGH WHITE
smh.com.au

Cercasi urgentemente diplomazia creativa per trovare una soluzione salva- faccia.

Così in genere iniziano le guerre: con una lenta e inarrestabile escalation di eventi originariamente senza importanza. Perciò non stupitevi troppo se gli Stati Uniti e il Giappone entreranno in guerra con la Cina l’anno prossimo per le “rocce inabitate” che il Giappone chiama le Senkakus e che la Cina chiama le isole Diaoyu. E non pensate che la guerra possa essere breve e contenuta.

Certo, dovremmo tutti sperare che prevalga il buon senso.

Sembra davvero ridicolo pensare che le tre più ricche potenze al mondo- due delle quali dotate di apparati nucleari- vogliano entrare in conflitto per una questione del genere. Ma questo significa confondere lo scoppio della guerra con le sue cause. Lo storico greco Trucidide, spiegò la differenza già 2500 anni fa. Scrisse infatti che la guerra del Peloponneso prese il via da un battibecco tra Atene e uno degli alleati di Sparta, per un problema da niente. Ma che a causare la guerra fu qualcosa di molto più grave: la crescita in ricchezza e potere di Atene e la paura che ciò generò in Sparta.

L’analogia con l’Asia odierna è drammaticamente vicina e per niente rassicurante. Nessuno nel 431 a.C. voleva davvero la guerra, ma quando gli Ateniesi minacciarono uno degli alleati di Sparta per una colonia contesa, gli spartani sentirono di dover intervenire. Ebbero paura che, retrocedendo di fronte al potere in espansione di Atene, avrebbero compromesso la posizione di Sparta nel mondo greco, concedendo dunque la supremazia ad Atene.

La questione di Senkakus è dunque un sintomo delle tensioni la cui causa è altrove: nella crescente sfida alla lunga leadership dell’America in Asia e nella reazione americana. In questi ultimi anni la Cina è diventata sia notevolmente più forte, sia sensibilmente più assertiva. L’America ha contato sul suo alleato strategico in Asia. Adesso, la Cina sta respingendo l’appoggio a Barak Obama nel mirare al Giappone nelle Senkakus.

I giapponesi, dal canto loro, temono che la Cina diventi ancora più dominante e che cresca la sua forza, mentre la loro protezione dipende dall’America. Anche loro però temono di non poter fare affidamento su Washington, se la Cina diventa ancora più forte. La pressione costante della Cina sulle Senkakus colpisce entrambi questi timori.

Il tira e molla per le isole è entrato da mesi in un crescendo. Poco prima delle recenti elezioni in Giappone, la Cina ha sorvolato le isole con un aeroplano di sorveglianza per la prima volta, e dalle elezioni entrambe le parti hanno reiterato un dialogo serrato.

Come finirà? Il rischio è che, senza un chiaro taglio a questo circolo vizioso, l’escalation possa continuare fino ad un punto in cui si spareranno i primi colpi e sarà impossibile fermare la spirale che porta alla guerra. Nessuna delle due parti potrebbe uscirne vincente e ciò potrebbe risultare devastante non solo per loro, ma per tutti noi. Nessuno vuole questo, ma la crisi non si fermerà da sola. Una parte, o entrambe, dovranno fare dei passi indietro per rompere il circolo vizioso di azione e reazione. Sarà difficile, in quanto ogni concessione fatta da una delle parti potrà essere facilmente vista come una cessione, con enormi costi in fatto di politica interna e per le implicazioni a livello internazionale.

Saranno necessarie anche forza e capacità politiche -di cui in giro si vedono poche manifestazioni- specialmente per quanto riguarda Tokyo e Pechino, che hanno entrambe leader nuovi e non collaudati. Ogni parte inoltre spera apparentemente di non dover fare questa prova, perché si aspetta sia l’altra a fare la prima mossa.v Pechino crede che, continuando a fare pressione, Washington persuaderà infine Tokyo a fare delle concessioni per le isole contestate, per poter evitare di essere immischiata in una guerra con la Cina, che sarebbe di sicuro una grande vittoria per quest’ultima. D’altra parte Tokyo spera ardentemente che, messa di fronte al supporto statunitense per il Giappone, la Cina non abbia altra scelta se non quella di ritirarsi.

Anche a Washington molta gente sembra pensare che la Cina si ritirerà. Ritengono che questa abbia bisogno dell’America molto più di quanto l’America abbia bisogno di lei e che Pechino indietreggerà pur di non creare una rottura con gli Stati Uniti, che potrebbe devastare l’economia cinese. 

Sfortunatamente, i cinesi sembrano vedere le cose diversamente. Credono che l’America non rischierà una rottura con la Cina in quanto l’economia americana potrebbe soffrirne parecchio.

Queste convinzioni sbagliate, fatte da entrambe le parti, portano in sé un terribile errore di calcolo; entrambi infatti sottovalutano quanto è in gioco per gli altri. Per il Giappone piegarsi alla pressione cinese significherebbe riconoscergli il diritto a vessarli a suo piacimento e accettare che l’America non li possa aiutare. Per Washington, non aiutare Tokyo potrebbe non soltanto deteriorare l’alleanza col Giappone, ma potrebbe anche rendere palese che l’America non è più la principale potenza dell’Asia e che l’ “alleato” è solo di facciata. Per Pechino, infine, un indietreggiamento potrebbe significare che, anziché testare fino in fondo il suo potere in crescita, la sua scorribanda nelle Senkakus dimostrerebbe semplicemente il mantenimento della supremazia americana. Per tutti loro, dunque, le più grandi questioni di potere e status sono in gioco. Questo è proprio il genere di problemi che hanno portato le grandi potenze alla guerra. 

Quindi, come uscire da questa empasse? Forse la diplomazia creativa può trovare una formula che salvi la faccia e calmi la situazione, lasciando che ognuno possa dire di aver fatto un passo in meno degli altri. Sarebbe magnifico. Però lascerebbe le cause più profonde del problema - il costante aumento del potere della Cina e una via pacifica per contenerlo- irrisolte. Questa rimane la vera sfida.

Hugh White è professore di studi strategici della ANU (Australia's national university, ndt) e socio esterno del Lowy Institute.




Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DANIELE FRAU

Titolo originale: "Una empasse in Asia per una inutile guerra"

venerdì 28 dicembre 2012

L'eccidio dei bambini.


di Francesco Salistrari.

Ma che fine abbiamo fatto tutti?
Dove ci siamo rannicchiati?
Dove sono i nostri sguardi incantati?
Non posso, non voglio credere che i bambini che eravamo siano stati cancellati via, come con un colpo di spugna.
Non posso accettare che siamo stati resi orfani di noi stessi.
Ma da cosa?
Cosa, cosa, ci ha disumanizzati a tal punto da non essere più in grado di commuoverci della bellezza del mondo, accontentandoci al massimo di guardarla attraverso immagini scolorite, atone, morte, illusioni che si mascherano da realtà, nei nostri televisori? Cosa ci ha reso insensibili alla maestosità di un albero, a quella degli occhi di un cervo, dei fili d'erba, all'immensità del cielo, alla limpidezza di un fiumiciattolo, alla coda guizzante di un pesce, al ronfare tranquillo di un gatto? Cosa ci ha ridotto a fotocopie ingiallite di noi stessi?
Abbiamo perso i nostri occhi. Accecati dallo scintillio delle illuminazioni delle città, la stessa luce che ci nega la vista di un cielo di notte e cresciamo senza aver mai guardato le stelle, sempre a capo chino, persi in un camminare che non è tale, ma è solo un vagare, è solo un mettere una gamba dietro l'altra, senza un vero scopo.
Abbiamo perso la capacità di farci domande, di ricercare il senso dell'esistenza, rannicchiandoci in un anfratto buio fatto di contabilità e carta straccia.
Abbiamo perso la vista. E i nostri occhi, muti, restano impassibili, vitrei, di fronte a ciò che vediamo. E la loro indifferenza è un coltello che rimesta nelle nostre piaghe, nelle ferite purulente che infliggiamo al mondo, a noi stessi, alla nostra carne, insensibili, in una bolgia di malati di CIPA.
La nostra malattia è grave. Probabilmente irreversibile, perchè incosciente.
Facciamo le nostre cose con noncuranza, senza il benchè minimo sentore di quello che significa, senza comprendere, senza affannarci a cercarne il senso. E perdiamo noi stessi in un pacco di rifiuti.
Siamo fazzoletti usati che svolazzano.
Ed è terrificante scorgere negli occhi delle persone la più completa inconsapevolezza, la freddezza, l'indifferenza, incapaci ormai di provare dolore.
Scortichiamo questo tronco d'albero, stuprandone la corteccia, senza esser capaci di avvertirne lo strazio, senza riuscire a vedere le lacrime dell'albero, senza comprendere che quella corteccia siamo noi stessi.
Dove, dove siamo andati a finire?
Dov'è finita la gioia di guardare un uccello volare? Dov'è finito il nostro disincanto? Dov'è finita quell'attesa meravigliosa che precede un regalo? Dove, quegli occhi scintillanti di vita? Dove, quelle mani desiderose di toccare, di scoprire, si sentire?
Cosa ci è successo?
Perchè ci siamo fatti questo?
Come abbiamo potuto permettere che i bambini che eravamo, venissero massacrati?
Chiudo gli occhi, adesso, e piango...
piango...
come il bambino che ero...
come il bambino che vorrei essere ancora...
piango...
perchè piangere non è aver paura...

Per chi suona la campana della Siria.


DI PEPE ESCOBAR
atimes.com

La maggiore tragedia geopolitica del 2012 è destinata ad essere la maggiore tragedia geopolitica del 2013: lo stupro della Siria.

Come di tanto in tanto vado a rileggere i miei passaggi preferiti di Hemingway, recentemente mi sono riguardato alcuni filmati che ho fatto anni fa nel bazar di Aleppo – il più straordinario tra i bazar del medio oriente. E’ stata come una coltellata nella schiena: ero così affascinato dall’architettura del bazar e dai suoi commercianti. Settimane fa quasi tutto quel bazaar – cuore pulsante di Aleppo da secoli – è stato incendiato e distrutto dai “ribelli” del cosiddetto Esercito Siriano Libero (Free Syrian Army).

Nella tragedia siriana non troviamo un giovane eroe stile Hemingway, nessun Robert Jordan nelle Brigate Internazionali che lottano a fianco dei guerriglieri repubblicani contro i fascisti durante la guerra civile spagnola. Nella guerra civile siriana, le brigate internazionali non sono che mercenari, Salafiti-Jihad, del genere di quelli che decapitano e fanno esplodere macchine. Ed i (pochi) giovani americani presenti sul posto sono per lo più pedine high-tech di un gioco condotto dal rapace club NATOGCC (la NATO ed i suoi fantocci Arabi del GCC - Gulf Cooperation Council). 

La tragedia continua. La macchina della sicurezza militare e politica dello Stato Siriano continuerà imperterrita a fare i suoi blitz senza pensarci due volte e ignorandone i danni collaterali. Dal lato opposto, i “comandanti” dei ribelli scommetteranno su un nuovo Consiglio Militare Supremo che goda dell’appoggio saudita e del Qatar.

I Salafiti e i Salifiti-Jihad del Fronte al-Nusrah – fanatici del settimo secolo, grandi decapitatori e abilissimi dinamitardi, autori della maggior parte delle azioni di lotta – non sono stati invitati. Dopo tutto, il Fronte al-Nusrah è stato etichettato da Washington come “organizzazione terroristica”.

Sentiamo qual è stata la reazione del gran maestro della Fratellanza Musulmana (MB), il vice comandante generale Mohammed Farouk Tayfour, nativo di Hama: secondo lui è stata presa una decisione troppo “affrettata”. E ora sentiamo qual è stata la reazione del nuovo capo dell’opposizione siriana, Ahmed Moaz al-Khatib, ad un convegno degli “Amici della Siria” tenutosi in Marocco: la decisione deve essere “riesaminata”. Virtualmente, tutti i “ribelli” hanno dichiarato il loro sconfinato amore per i duri di al-Nusrah. 

Con quei fanatici di al-Nusrah in giro, che nascondono le loro barbe islamicamente-corrette sotto una prosaica felpa con cappuccio, aspettiamoci ulteriori azioni dei “ribelli” a Damasco – nonostante le due recenti sconfitte (una dello scorso Luglio e l’altra in questo mese) inflitte dalla controffensiva del governo Siriano. Dopo tutto, le generose esercitazioni militari a cura degli Stati Uniti, Regno Unito e Forze Speciali Giordane, prima o poi dovevano dare i loro frutti, per non citare poi le vagonate di armi super letali fornite dai quelle parvenze di “democrazie” del Golfo Persico. A proposito, il Fronte al-Nusrah controlla intere sezioni della devastata Aleppo. 

Il governo dell’odio settario

E poi c’è la nuova e “orwelliana” Coalizione Nazionale delle Forze Siriane Rivoluzionarie e d’Opposizione – una co-produzione Washington-Doha. Ecco a voi il nuovo leader, uguale-identico al vecchio e dimesso leader, quello che fu il Consiglio Nazionale Siriano (SNC). E’ solo retorica; l’unica cosa che conta per la “Coalizione Nazionale” è di continuare a rifornirsi di armamenti letali. E adorano quelli dell’al-Nusrah, anche se Washington non li gradisce.

Il Qatar ha scaricato nella Libia “liberata” tonnellate di armi “come fossero caramelle” (come ha riferito un venditore di armi americano). Solo dopo il contrattacco di Benghazi il Pentagono e il Dipartimento di Stato si sono accorti che rifornire i ribelli Siriani di armi potrebbe – già, non sarebbe male – portare ad ulteriori contrattacchi. Traduzione: che il Qatar continui pure a scaricare tonnellate di armi in Siria. Gli Stati Uniti continueranno a “condurre il gioco da dietro le quinte”.

Attendiamoci ulteriori massacri settari come quello ad Aqrab. Qui troviamo la versione più autoritaria di ciò che può essere successo. Ciò dimostra ancora una volta che quello che i “ribelli” NATOGCC stanno davvero vincendo è la guerra di YouTube. 

Prepariamoci quindi ad ondate ancora più aggressive e violente di propaganda – e sullo sfondo i media occidentali che fanno il tifo per i “guerrieri della libertà”, che fanno quasi vergognare quelli della Jihad degli anni ’80 in Afganistan.

Aspettiamoci ulteriori distorsioni della verità, come quando il Vice Ministro degli Esteri Russo Mikhail Bogdanov ha detto: “La lotta s’intensificherà ulteriormente, la Siria perderà decine di migliaia e, forse, centinaia di migliaia di civili…Se un tale prezzo a voi sembra giusto per la destituzione dell’attuale presidente, noi che ci possiamo fare? Noi, ovviamente, lo consideriamo assolutamente inaccettabile.”

Ergo: la Russia sta tentando di tutto per evitare che ciò avvenga. E se i “ribelli” della NATOGCC provano a minacciare di attaccare le ambasciate russa ed ucraina a Damasco, farebbero bene a tagliarsi le barbe e andare a nascondersi dagli Spetnatz (e Forze Speciali Russe, perché con quelli non si scherza.

Aspettiamoci ancora più odio settario, come quando lo Sceicco Sunnita e star di al-Jazeera, Yusuf al-Qaradawi, ha casualmente lanciato una fatwa(sentenza) legittimando l’uccisione di milioni di Siriani, siano essi militari o civili, basta che siano Alawiti o Sciiti.

L’odio settario detterà le regole, con il Qatar in prima linea, seguito dai Sauditi con la loro schiera assortita di islamisti intransigenti. Ordine del giorno: la guerra contro gli Sciiti, contro gli Alawiti, contro i secolaristi, contro i moderati, non solo in Siria ma in tutto il Medio Oriente.

Patriot vs Iskander

La strategia del nuovo Esercito Siriano si reduce ad un’imponente ritirata delle truppe dalle basi sparse nelle campagne periferiche per concentrarle nei grandi centri. Aspettiamoci che la strategia di base del club NATOGCC rimarrà più o meno la stessa: colpire l’esercito siriano il più possibile, demoralizzarlo, mentre si continua a preparare il terreno per un possibile intervento della NATO (la minaccia delle armi chimiche e il martellante paventamento di una “catastrofe umanitaria” fanno parte di un più ampio pacchetto di operazioni psicologiche).

L’esercito Siriano potrà anche avere le armi più potenti; ma di fronte ad uno tsunami di mercenari e di Salafiti-Jihad addestrati ed armati fino ai denti da quelli del NATOGCC, la cosa potrebbe anche protrarsi per anni. Una guerra civile in stile Libano. Questo ci porta alla prossima opzione “migliore” – che, in effetti, è più una conseguenza - la fine dello Stato Siriano dopo il susseguirsi di migliaia, o milioni, di attacchi.

Ciò che è certo è che la “coalizione volontaria” contro la Siria non avrà alcun problema a rivelarsi una volta che il gioco sarà finito. Washington scommette su un regime post-Assad guidato dalla Fratellanza Musulmana. Ecco perchè il Re-Playstation di Giordania sta dando letteralmente di matto; lui sa bene che la Fratellanza prenderà il controllo anche della Giordania e lo caccerà via condannandolo ad un perenne shopping ad Harrods.

Anche quelle parvenze di democrazie – le petrol-monarchie medievali del Golfo Persico - stanno fremendo: temono il successo popolare della Fratellanza come fosse la peste. Il Kurdistan Siriano – ormai quasi pronto per l’autonomia e, infine, la libertà – fa già tremare Ankara. Per non parlare della prospettiva futura di un’ondata di Salafiti-Jihad improvvisamente disoccupati che varcano allegramente il confine Turco-Siriano e iniziano a vagare senza meta.

E poi c’è il complicato rapporto Iran-Turchia. Teheran ha già avvertito Ankara, senza mezzi termini, dell’imminente spiegamento di missili di difesa da parte della NATO.

E’ certamente il capolavoro mediatico di fine 2012. Il portavoce del Pentagono George Little è stato chiarissimo: “ gli Stati Uniti sostengono la Turchia nei suoi sforzi di difesa…(contro la Siria).”

Ecco il motivo dello spiegamento di 400 militari in Turchia per il funzionamento di due batterie missilistiche Patriot, per “difendere” la Turchia da “potenziali minacce che possano provenire dalla Siria”.

Traduzione: tutto questo non ha niente a che vedere con la Turchia, riguarda i militari Russi in Siria. Mosca ha mandato a Damasco non soltanto dei missili terra-terra estremamente efficienti e ipersonici (gli Iskander, praticamente immune ai sistema di difesa missilistici), ma anche i missili di difesa terra-aria multi-bersaglio Pechora-2M, l’incubo per il Pentagono, nel caso venga stabilita una “no-fly zone” in Siria.

Diamo allora il benvenuto al faccia-a-faccia Patriot contro Iskander. E proprio sulla linea del fuoco troviamo il Primo Ministro Turco Recep Tayyip Erdogan – uno sconfinato egocentrico che cova nel suo intimo un profondo complesso d’inferiorità nei confronti degli Europei – abbandonato a se stesso dal grande piano NATO.

Il tallone di Achille della Turchia (Curdi a parte) è il ruolo che essa stessa si è cucita addosso di essere un crocevia energetico tra l’Est e l’Ovest. Il problema è che la le risorse energetiche turche dipendono sia dall’Iran sia dalla Russia; poco saggiamente, il paese si sta scontrando con entrambi nella complicata vicenda siriana. Così tanto squallore, così tanta desolazione.

Come risolvere questa tragedia? Nessuno sembra prestare ascolto al Vice Presidente Siriano Farouk Al-Sharaa. In questa intervista con il libanese Al-Akhbar, egli sottolinea “la minaccia dell’attuale campagna per distruggere la Siria, la sua storia, la sua civiltà, la sua gente…Ogni giorno che passa, la soluzione sembra allontanarsi, militarmente e politicamente. Dobbiamo essere in grado di difendere l’esistenza della Siria”.

Egli non ha “una chiara risposta su quale possa essere la soluzione migliore”, ma ha una mappa:

“Qualsiasi accordo, stabilito in base a negoziati tra capitali arabe, regionali o straniere, non può esistere senza una solida base Siriana. La soluzione deve essere Siriana, ma attraverso un insediamento storico, che includa le sue principali aree geografiche e i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questo accordo deve contenere l’arresto di qualsiasi forma di violenza e la creazione di un governo di unità nazionale con ampi poteri. Questo deve essere accompagnato dalla soluzione di questioni sensibili legate alla vita delle persone e alle loro legittime richieste.”.

Questo non e’ affatto quello che vuole il gruppo NATOGCC – anche se gli USA, il Regno Unito, la Francia, la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita sono tutti concentrati ognuno sulle proprie agende, tra loro assai divergenti. La Guerra della NATOGCC ha già raggiunto un obiettivo – tra l’altro molto simile a quello dell’Iraq nel 2003; ha completamente disgregato il fragile tessuto sociale della Siria.

Capitalismo distruttivo in azione, fase I; il terreno è già pronto per una redditizia “ricostruzione” della Siria, non appena verrà insediato un governo turbo-capitalistico, malleabile e pro-occidente.

Tuttavia, in parallelo, le azioni di contrattacco agiscono in modo misterioso: milioni di Siriani, che inizialmente appoggiavano l’idea di un movimento pro-democrazia – dalle classi manageriali di Damasco ai commercianti di Aleppo – ora usano l’arma del sostegno al governo come difesa contro le raccapriccianti pulizie etnico-religiose promosse dai “ribelli” del tipo al-Nusrah.

Stretti tra NATOGCC da una parte e Iran-Russia dall’altra, i Siriani non sanno dove andare. La NATOGCC non si fermerà davanti a niente pur di riuscire a creare qui una qualche dubbia entità del tipo emirato pro-USA o una cosiddetta “democrazia” guidata dalla Fratellanza Musulmana. Non e’ difficile capire per chi sta suonando la campana in Siria: non suona per te, come in John Donne, ma per la desolazione, la morte e la distruzione. 



Pepe Escobar è autore di Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007) e di Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge. Il suo ultimo libro Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009). Lo so può raggiungere a: pepeasia@yahoo.com



Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

giovedì 27 dicembre 2012

Il Fiscal Cliff è un diversivo. (Lo Tsnumai dei derivati e la bolla del dollaro)


DI PAUL CRAIG ROBERTS
globalresearch.ca

Il “fiscal cliff” è un'altra bufala per distogliere l'attenzione di politici, dei media e del pubblico più attento, sempre che ce ne sia, da problemi piccoli e grandi.

Il fiscal cliff è un taglio automatico alla spesa ed un incremento delle tasse, con il fine di ridurre il deficit di una cifra insignificante nei prossimi 10 anni, se il Congresso non prenderà direttamente l'iniziativa di tagliare la spesa ed aumentare le tasse. In altre parole, il fiscal cliff ci sarà comunque.

Guardando il problema dal punto vista dell' economia tradizionale il fiscal cliff consiste in una doppia dose di austerità in un' economia già vacillante ed in recessione. Da John Maynard Keynes in poi molti sono gli economisti che hanno capito che l' austerità non è la risposta a recessioni e depressioni.



In ogni caso, il fiscal cliff è poca roba se comparato allo tsunami dei derivati, o alla bolla del mercato azionario o a quella del dollaro. Il fiscal cliff richiede tagli da parte del governo federale di 1,3 trilioni di dollari in 10 anni. Il Guardian riporta che questo significa che il deficit federale deve essere ridotto di 109 miliardi di dollari ogni anno cioè del 3% del budget annuo. Più semplicemente basta dividere 1300 miliardi per 10 e otteniamo i 130 miliardi di dollari di saving richiesti ogni anno. Ma si potrebbe ottenere tranquillamente lo stesso risultato se Washington si prendesse tre mesi di ferie l'anno dalle sue guerre.
Lo tsunami dei derivati e la bolla delle obbligazioni e del dollaro invece hanno un peso diverso.
Lo scorso 5 giugno, su “Collapse At Hand”, feci notare che secondo il rapporto del quarto trimestre dell’ Office of the Comptroller of Currency del 2011, circa il 95% dei 230 trilioni di dollari di esposizione sui derivati degli Stati Uniti erano detenuti da quattro istituti finanziari statunitensi: JP Morgan Chase Bank, Bank of America, Citibank e Goldman Sachs.
Prima della deregolamentazione finanziaria, in pratica l' abolizione del Glass-Steagal Act e la non-regolamentazione dei derivati – un risultato ottenuto dalla collaborazione tra l'amministrazione Clinton con il Partito Repubblicano – Bank of America e Citibank erano le banche commerciali che prendevano i versamenti dei depositanti e facevano prestiti al mondo degli affari e ai consumatori poi, con i fondi residui, compravano i titoli del Tesoro .
Con l' abolizione del Glass-Steagall queste oneste banche commerciali hanno cominciato a giocare come in un casinò, come la Goldmann Sachs che, pur essendo una banca di investimenti, si è messa a scommettere non solo i suoi soldi, ma anche quelli dei depositanti facendo scommesse senza avere i soldi, sui tassi d' interesse, sul mercato dei cambi, sui mutui, sulle materie prime e sulle azioni.
Questo giochetto in breve tempo non solo ha superato di molte volte il PIL degli Stati Uniti, ma addirittura il PIL mondiale. Infatti le scommesse della sola JP Morgan Chase Bank sono pari al valore di tutto il PIL mondiale.
Stando al rapporto del primo quadrimestre del 2012 del Comptroller of the Currency, l'esposizione delle banche statunitensi sui derivati è diminuita, a 227 trilioni di dollari, in modo insignificante rispetto al trimestre precedente. E l'esposizione delle 4 banche statunitensi ammonta quasi al totale dell’esposizione e supera di molte volte il loro asseto il loro capitale di rischio.
Lo tsunami dei derivati è il risultato della manipolazione di un gruppo di ufficiali pubblici pazzi e corrotti che hanno deregolato il sistema finanziario statunitense. Oggi soloquattro banche americane hanno una esposizione sui derivati pari a 3,3 volte il PIL mondialez. Quando ero un funzionario del Tesoro USA , una circostanza come questa era considerata fantascienza.
Se tutto andrà bene, gran parte delle esposizioni sui derivati in qualche modo si compenseranno tra loro, così che l'esposizione netta, che rimarrà comunque sempre superiore al PIL di molti paesi, non è dell'ordine di centinaia di miliardi di dollari. Comunque, la situazione sta preoccupando molto la Federal Reserve che dopo aver annunciato un terzo QE, che consiste nello stampare soldi per comprare titoli – sia del Tesoro degli Stati Uniti che dei derivati-a-fregatura delle banche – ha appena annunciato che raddoppierà i suoi acquisti del QE3.
In altre parole, l' intera politica economica degli Stati Uniti è basata sul salvataggio di quattro banche troppo grandi per fallire. Le banche sono troppo grandi per fallire solo perchè la deregolamentazione ha permesso una concentrazione finanziaria, come se l' Anti-Trust Act non fosse esistito.
Lo scopo del QE è quello di mantenere alti i prezzi dei debiti, che supportano le scommesse delle banche. La Federal Reserve dichiara che lo scopo di questa massiccia monetizzazione del debito è quello di aiutare l' economia facendo scendere i tassi di interesse ed facendo aumentare la vendita delle case. Ma la politica della Fed sta facendo male all'economia perché sta togliendo ai risparmiatori, e sopratutto ai pensionati, il reddito dei loro interessi sui risparmi, forzandoli a prosciugare il loro castelletto di risparmi. Infatti i tassi reali di interesse pagati sui certificati di deposito, sui fondi di investimento e sui titoli sono inferiori al tasso d' inflazione.
Inoltre, i soldi che la Fed sta creando nel tentativo di salvare le quattro banche sta facendo innervosire i possessori di dollari, sia in patria che all’estero. Se gli investitori abbandoneranno il dollaro ed il suo cambio crollasse, anche il prezzo degli strumenti finanziari che gli acquisti della Fed stanno sostenendo crollerebbe ed il tasso di interessi aumenterebbe. L' unico modo che ha la Fed per sostenere il dollaro è quello di aumentare il tasso di interesse. In quel caso, i detentori di titoli verrebbero spazzati via, e l'indebitamento per interessi del debito del governo esploderebbe.
Con una catastrofe come quella che seguirebbe al collasso della borsa e della bolla immobiliare, la residua ricchezza della popolazione verrebbe spazzata via. 
Ma gli investitori stanno già abbandonando le azioni per “salvare” il Tesoro. È per questo che la Fed può mantenere i prezzi dei titoli così alti mentre il tasso di interesse reale è negativo.

La paventata minaccia del fiscal cliff è nulla se comparata con il rischio che incombe con i derivati, con la minaccia sulla tenuta del dollaro e con quella di un mercato azionario che dipende dall’impegno della Fed a salvare le quattro banche americane.
Ancora una volta, i media e il loro maestro, il governo degli Stati Uniti, nascondono il problema vero dietro un problema fasullo.
Il fiscal cliff per i Repubblicani è diventato l'unico modo di salvare la nazione dalla bancarotta, distruggendo così la rete di aiuti sociali messa in piedi negli anni '30 e migliorata dalla “Great Society” di Lyndon Johnson a metà degli anni '60.
Ora che non c'è lavoro, che i redditi delle famiglie sono stagnanti se non addirittura in declino da decenni, ed ora che i redditi e la ricchezza sono concentrati in poche mani è il momento, dicono i Repubblicani, di distruggere la rete di aiuti sociali: in questo modo si eviterà di cadere sotto il fiscal cliff.
Nella storia umana, questo modo di governare ha prodotto rivolte e rivoluzioni, e questo è quello di cui gli Stati Uniti hanno disperatamente bisogno.
Forse, dopo tutto, i nostri stupidi e corrotti politici ci stanno facendo un favore. 






Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di REIO

Agrobusiness: il nostro veleno nel piatto.


DI MANULE ALFIERI
ecoportal.net

Marie-Monique Robin: “Se c’è volontà politica, in quattro anni mettiamo fine all’attuale modello agroalimentare”.
Da Parigi, la giornalista investigativa critica duramente l’agrobusiness e propone una soluzione alla crisi che ha colpito l’agricoltura mondiale: la realizzazione dell’agroecologia su grande scala.

Una nuova inchiesta della giornalista francese Marie-Monique Robin è appena stata pubblicata. Si tratta del libro “Notre poison quotidien” (in italiano “Il veleno nel piatto” edito da Feltrinelli, N.d.T.), un lavoro che, al pari di “Il mondo secondo Monsanto”, è stato realizzato sia come libro sia come documentario cinematografico. L’autrice offre un’analisi estremamente dettagliata delle responsabilità dell’industria chimica nell’epidemia delle malattie croniche. “Parlo dell’incredibile aumento di tumori, malattie neurodegenerative, disturbi della riproduzione, diabete e obesità che si registrano nei paesi “sviluppati”, al punto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di ‘epidemia’”, spiega la Robin.



- A cosa si riferisce quando parla del “nostro veleno quotidiano”? 

- Ai prodotti chimici che troviamo ogni giorno nel cibo, che siano sottoforma di pesticidi, additivi alimentari o plastiche utilizzate per gli alimenti. Queste molecole chimiche sono presenti in dosi molto basse. Quello che dimostro nella mia ricerca, e che nessuno ha negato finora, è che queste dosi molto basse di residui, che si suppone non abbiano alcun effetto, hanno invece effetti nocivi per la salute umana. - L’uso di questi prodotti presenti nei cibi è autorizzato?

- Certamente. La valutazione dei prodotti chimici praticata dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, o dalla FDA negli Stati Uniti, si basa sul principio di Paracelso secondo il quale è la quantità che rende un veleno tale. La cosiddetta “Dose Giornaliera Ammissibile” (DGA) si basa su questo. Ciò che dimostro è che questo principio non è valido per molte molecole, che non serve a niente.

- Perché?

- Perché questa specie di Bibbia è basata sul nulla. Non c’è nessuno studio serio alla base. Tutti credevano che con la DGA saremmo stati al sicuro, ma nessuno si è mai chiesto da dove venisse. Questo è il fulcro della mia ricerca. La DGA è stata fabbricata a tavolino da cinque persone negli anni ’60. Lo fecero in buona fede, perché si stavano chiedendo cosa potevano fare per moderare l’effetto delle molecole chimiche, che sappiamo essere altamente tossiche. Ma non hanno mai proposto di proibire l’uso di questi veleni presenti nel nostro cibo. Pensavano che in nome del “progresso” o dello “sviluppo” avremmo dovuto correre questi rischi, non poteva essere altrimenti.

- Queste norme sono avallate da organismi statali?

- Sì. Si nascondono dietro un regolamento statale, che sembra essere molto indipendente, molto serio e molto scientifico, con molti dati e molte cifre, con tonnellate di scartoffie, ma quando ti metti a studiarlo ti rendi conto che è stato realizzato affinché le autorità pubbliche potessero dire: “Stiamo bene, siamo nella norma”. Ma se è una norma seria, che realmente serve a proteggere la gente, allora perché la cambiano continuamente? La adeguano agli interessi delle industrie, più che alla salute della popolazione.

- Perché, secondo lei, non c’è stata nessuna risposta alla sua ricerca da parte dell’industria chimica?

- Perché sono dati e perché loro lo sanno. La ricerca ha suscitato scalpore appena è uscita. I produttori chimici hanno detto: “La Robin esagera un po’”. Ma niente di più. Sicuramente colgono sempre l’occasione per dire che questo lavoro è un po’ esagerato, oppure le grandi imprese pagano gente che cerca di screditarmi sul mio blog. 

- Nel suo lavoro lei sostiene che la “Rivoluzione Verde” degli anni ’60 prometteva di alimentare tutto il mondo, ma che in realtà non è mai stata neanche vicina a riuscirci. Perché?

- Nel mio prossimo documentario, che uscirà tra un mese (magari arrivasse in Argentina!) -si intitola “Il raccolto del futuro”-, rispondo proprio a questa domanda. Il discorso è sempre lo stesso: “Se proibiamo gli agrotossici, non possiamo alimentare il mondo, moriremo di fame”. Questa argomentazione è molto interessante, ma falsa. La famosa “Rivoluzione Verde” ha portato a un impoverimento delle risorse naturali e a una contaminazione generalizzata dell’ambiente, a causa dell’uso massivo di prodotti chimici. Ho viaggiato per un anno in undici paesi. La conclusione che ho tratto è che se oggi c’è un miliardo di persone che non mangia o che ha problemi di fame è a causa degli agrotossici. Non solo per gli agrotossici in sé, ma per tutto il sistema di mercato legato a questo business.

- Come influisce sul mercato?

- Questo aspetto ha a che fare con una catena che si estende a livello mondiale. In Argentina ci sono 18 milioni di ettari coltivati con soia transgenica, fumigati con agrotossici, che stanno distruggendo allevatori e piccoli produttori che realmente danno da mangiare alle popolazioni locali. Qui in Francia stiamo sterminando il 3% della popolazione degli agricoltori e le grandi fattorie. Tutto è collegato, perché quelli che vendono gli agrotossici sono gli stessi che controllano il mercato dei semi, come Cargill e Monsanto. Queste multinazionali stanno seminando la fame nel mondo.

- Come si fa a uscire da questo sistema?

- Attraverso l’agroecologia, l’agricoltura organica, basata in piccole unità autonome a livello energetico, in cui si utilizzano le risorse naturali e la varietà di piante, perché la monocoltivazione è una catastrofe per l’ambiente.

- Ma l’agroecologia si può realizzare anche su grandi estensioni o su scala nazionale?

- Certamente, senza nessun problema. L’unico ostacolo è la mancanza di volontà politica. In Europa stiamo combattendo questa battaglia. L’anno prossimo avremo un cambiamento nella famosa politica agricola dell’Unione Europea. Stiamo chiedendo che i sussidi che si danno qui agli agricoltori, o alle grandi imprese, quelle che più inquinano l’ambiente, siano stanziati per gli agricoltori che vogliono passare all’agroecologia. In solo quattro anni si può cambiare rotta. È solo una questione di volontà politica e, volendo, si può mettere fine a questo modello agroalimentare criminale globale. Bisogna sottrarre l’agricoltura alle grinfie del commercio. Il cibo non è un prodotto qualsiasi: nessuno può vivere senza. Nessuno può vivere senza contadini. Ogni paese dovrebbe proteggere i propri contadini. Sentiamo sempre dire che i prodotti dell’industria chimica sono più economici di quelli biologici, ma non è vero, perché l’industria chimica genera una gran quantità di spese indirette. 

- La proibizione degli agrochimici sarebbe un modo per risparmiare denaro o, al contrario, una perdita economica?

- L’Unione Europea ha realizzato uno studio secondo il quale se proibissimo gli agrotossici, solo tenendo in considerazioni i soldi spesi per il cancro dei contadini e degli altri, potremmo risparmiare 27 miliardi di euro l’anno. E parliamo solo del cancro.

- Nel suo libro, lei sostiene che il cancro è una malattia “nuova”, propria della civilizzazione. Com’è possibile?

- Volevo saperlo, perché si dice sempre che il cancro è relazionato ai prodotti chimici. Bene, volevo verificare se prima esistesse il cancro o meno. Ho studiato molti libri, moltissime relazioni di gente che ha viaggiato durante il XIX secolo in cui si afferma che il cancro era quasi inesistente. I tumori fecero la loro comparsa con la civiltà industriale. È un fatto. Ed è interessante vedere come sono andati aumentando. È interessante anche vedere come si organizza l’industria per affermare il contrario.

- Con il passare degli anni, la popolazione ha preso coscienza che molte sostanze di uso quotidiano - come la sigaretta o il sale - sono dannose per la salute. Pensa che possa succedere la stessa cosa con gli agrochimici?

- È molto diverso, perché questi prodotti si trovano ovunque e non lo sappiamo. Una persona che fuma conosce i rischi ed è una decisione personale. Negli alimenti, invece, uno non sa quanti prodotti chimici sta ingerendo. Molte donne non sanno, per esempio, che una delle cause principali del tumore al seno, sebbene non l’unica, sono i deodoranti. Per questo dico alle donne di non utilizzare nessun deodorante, perché contengono perturbatori endocrini che vanno direttamente al seno. La popolazione non lo sa. Inoltre, si stanno utilizzando prodotti che non sono stati prima analizzati. Dobbiamo riappropriarci del contenuto della nostra alimentazione quotidiana, riprendere le redini di ciò che mangiamo, affinché la smettano di infliggerci piccole dosi di diversi veleni senza alcun beneficio.

Fonte: http://www.ecoportal.net/Temas_Especiales/Suelos/Agronegocio_El_veneno_nuestro_de_cada_dia

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da SILVIA SOCCIO

mercoledì 26 dicembre 2012

Antica Città.



Città arroccata.
Protetta da mura possenti.
Città splendida.
E un mare di carta.
E barche con vele nere,
come pece,
come occhi scuri.
Alberi spogli.
Rigogliosi, dietro le mura.
Antica Città.
Colonna dell'Ovest.
Forse mai nemmeno pensata.
Antica Città.
Aprire le sue porte,
vuol dire varcare
la soglia del tempo
e dimenticare
il giorno andato.
Antica Città.
Possente.
Come l'anima viandante
che ad essa va,
inconsapevole come un respiro.


(Francesco Salistrari)


lunedì 24 dicembre 2012

Cioccolata Bianca.




Ossa rotolanti
nel disgelo
di questa notte d'agosto
in un calmo, quasi cortese,
amplesso screziato.
E stelle, stelle, stelle
da mangiare
come cioccolata bianca
da prendere con avide mani...
e fiumi di vento
che trascinano
emozioni
laddove muore il giorno.
Non esiste differenza
tra una lacrima andata
e un bacio scaduto.


(Francesco Salistrari)

domenica 23 dicembre 2012

La nuova tassa sui rifiuti.


di Italo Romano

La Tares, così si chiama la nuova imposta sui rifiuti, sostituirà la vecchia Tarsu, ovvero la tassa sui rifiuti solidi urbani. Il debutto della Tares avverrà ad Aprile 2013, dopo le elezioni politiche nazionali, in modo da non influenzare la deficienza di voto. Meglio stare tranquilli, dopo la batosta dell’Imu, anche quella sullo smaltimento dei rifiuti sarebbe stata troppo, forse.
Anche la Tares prende come base imponibile la superficie degli immobili, un’unità di misura convenzionale per stabilire le “quantità e qualità medie ordinarie” di rifiuti prodotti. Il calcolo verrà fatto sull’80% della superficie catastale ma non da subito: non essendo ancora un dato disponibile per i comuni, all’inizio l’applicazione della Tares si baserà sulle superfici dichiarate ai fini Tarsu o Tia, in attesa che l’Agenzia del territorio trasferisca i dati catastali alle amministrazioni comunali.
La Tares sarà più alta rispetto alla Tarsu.
Ma il maggior peso della Tares non è dovuto a questo, bensì ad altri due fattori:
si tratta di una “tariffa” e non di una tassa, cioè di un prelievo che copre per intero un costo dell’amministrazione e non solo di un contributo parziale com’è ad esempio l’attuale Tarsu (ma non la Tia, che è già una tariffa);
• copre anche altri costi oltre allo smaltimento dei rifiuti.

“Tares” sta infatti per “tributo comunale sui rifiuti e sui servizi” e finanzia due tipi di spese comunali:
la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di privativa dai comuni;
• i cosiddetti “servizi indivisibili” (illuminazione pubblica, manutenzione strade ecc.) attualmente non compresi nella Tarsu né nella Tia.

La Tares si pagherà in 4 rate: gennaio (ma nel 2013 la prima rata slitta), aprile, luglio e dicembre. Le prime rate saranno ancora commisurate agli import di Tarsu o Tia nel 2012 ma entro dicembre i comuni decideranno i conguagli.
E’ assurdo come nell’epoca del vanaglorioso progresso, produciamo immensi quantitativi di rifiuti, snaturando con efficacia e distaccandoci sempre più dalla nostra vera natura.
Ci propongono la merda e ce la fanno pagare due volte: quando la compriamo e quando la buttiamo.
Sono dei geni. Siamo degli idioti. Una civiltà senza senso.



Mario Monti (Weimar Reloaded).


DI MAURIZIO BLONDET
rischiocalcolato.it

Lo scorso 14 dicembre il nostro ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, è volato a Washington ad incontrare il suo pari grado, Tim Geithner, e «investitori» finanziari non meglio identificati. Ad essi, secondo Il Corriere, Grilli ha spiegato il piano del governo Monti per ridurre un poco il debito pubblico, che Monti ha continuato a far salire rispetto al PIL, inarrestabile. Il calo del PIL (e non le tasse, secondo Grilli) ha fatto sì che esso si divaricasse dal debito: quello scende e, per forza, questo sale. La soluzione è aumentare il PIL «nominale», cioè quello reale più l’inflazione (che è al 2%, secondo loro), per far convergere le due entità.

Come fare? Tranquilli, ha detto Grilli ai finanzieri esteri: «Il continuo aumento della disoccupazione spinge chi cerca un posto ad accettare compensi sempre minori pur di lavorare, ridando così un po’ di competitività di prezzo alle imprese»Le imprese italiane potranno dunque «ridurre i costi… del lavoro»  (Il Tesoro e la via anti-debito).

Ecco dunque il progetto di «rilancio» e «crescita» di Monti (e di Bersani poi, per cui Monti è «un punto di non ritorno»): nessuna liberazione delle imprese dallo strangolamento della burocrazia pletorica inadempiente, nessun taglio ai «costi della politica»; niente blocco degli statali e dei loro stipendi, già il 15% superiori a quelli privati; niente fiscalità che non sia persecutrice di chi produce, nessun taglio agli statali di lusso con stipendi miliardari. Quello che vuol ridurre, il governo, sono i salari privati, ossia di quelli che producono, non dei parassiti. Mettendo in competizione gli occupati con i disoccupati, costretti ad «accettare compensi sempre minori».
A parte l’odiosità morale, è il caso di avvertire che proprio questa «soluzione» fu quella che stroncò definitivamente l’economia della repubblica di Weimar (1919-1933), e fece sì che i tedeschi votassero il NSDAP e la facessero finita col liberismo. Non fu infatti l’iper-inflazione, come alcuni credono, a provocare il rigetto della democrazia; l’inflazione tedesca, benché atroce per la classe media, era già finita nel 1923, e l’istituzione pluralista durò ancora 10 anni. A provocare il tracollo fu invece la deflazione, unita alla recessione, provocata da programmi di «austerità» rigorosi secondo l’ortodossia liberista, e infine il taglio dei salari privati ordinato per decreto dal cancelliere Heinrich Bruening. 
I punti di contatto fra la repubblica italiana d’oggi, e fra Monti e Bruening, sono così numerosi da inquietare. Andiamo per ordine:
Fu la prima globalizzazione (1919-1929): vigeva il Gold Standard, il che significa: negli scambi internazionali si usava una moneta comune globale: l’oro, e le monete in quanto erano agganciate all’oro con cambio fisso. Una volta domata l’inflazione, la Germania – sconfitta nella Prima Guerra Mondiale – riagganciò il marco all’oro, e conobbe una rapida ripresa. 
Crescita drogata da grandi prestiti USA: la Germania era stata condannata a pagare colossali «riparazioni» a Francia e Gran Bretagna perché bollata dalla «comunità internazionale» (la conosciamo bene anche oggi) come colpevole della Grande Guerra. Tutti gli anni avrebbe dovuto versare 2,5 miliardi di marchi oro fino al 1929 (piano Dawes), poi 37 versamenti di 2,05 miliardi di Reichsmark, poi altri di 1,65 miliardi di marchi fino al… 1988 (piano Young). Berlino non ce l’avrebbe mai fatta, se il governo americano (appunto Dawes e Young, banchieri-politici USA) non avesse fornito altrettanto enormi crediti.
Tanta generosità non era disinteressata, e fruttava grassi profitti. Gli USA avendo venduto forniture belliche gigantesche agli Alleati durante la guerra europea, erano divenuti i grandi creditori del mondo, e Fort Knox traboccava di oro affluito dai Paesi debitori (che erano poi gli alleati; ma gli affari sono affari). Il Gold Standard obbligava a moltiplicare di altrettanto i dollari: un mare di liquidità in eccesso stava per abbattersi sull’economia USA, che già subiva la recessione inevitabile una volta finita la super-produzione bellica. La Federal Reserve e i banchieri USA impedirono tale effetto abbassando artificialmente i tassi – la stessa cosa fatta da Greenspan negli anni ’90, e da Bernanke poi – ed incitando all’esportazione di dollari: come nella storia dei petrodollari degli anni ’70, esportarono così la loro inflazione all’estero.
Assoluta libertà di circolazione dei capitali: questa fu la decisione decretata da Washington e da Londra, potenze vincitrici. I capitali americani, poco remunerati in patria, affluirono in Germania. Nel 1925, il tasso di sconto della Federal Reserve era del 3%; in Germania, era sul 10%. Negli anni seguenti, la remunerazione del capitale investito in USA fu sul 4%, in Germania spuntava l’8%. Il doppio.
Pura finanza speculativa, perché basata su un circolo vizioso finanziario: i capitalisti USA si facevano prestare dalla FED al 4%; con questa liquidità indebitavano i tedeschi all’8%, e con questi prestiti i tedeschi pagavano le riparazioni a francesi e inglesi. Come «garanzia» per i generosi prestiti, furono ipotecate la Reichsbank (la Banca Centrale), le Reichsbahn (le ferrovie nazionali), i diritti di dogane e l’imposta sui consumi.
Ma una parte delle riparazioni doveva essere pagata in merci e beni: e dunque parte dei prestiti USA andarono anche a finanziare l’industria tedesca.
La repubblica di Weimar piaceva all’alta finanza USA come uno Stato «business friendly»: le dava le due garanzie che il liberalismo capitalista desidera in un Paese per investire, il «mercato» e la «democrazia». E inoltre, i salari tedeschi erano bassi – milioni di soldati smobilitati cercavano un lavoro a qualunque prezzo – e i bassi salari stimolano sempre gli investimenti industriali: come abbiamo visto fino ad oggi in Cina.
Bolle finanziarie: il risultato di tanto denaro a disposizione provocò oltre ad un surriscaldamento industriale, gigantesche «bolle». Rapidamente, i terreni e i fabbricati rincararono del 700% a Berlino, e del 400% ad Amburgo. I giornali seguaci del liberismo (perché pagati dai capitalisti) lanciarono una campagna per «liberalizzare gli affitti». Gli affitti erano stati bloccati durante la guerra; ma ormai era «ingiusto», dicevano i media, visto che gli immobili si erano tanto apprezzati, che essi rimanessero fermi. Una legge sbloccò gli affitti, che crebbero immediatamente del 125%. A pagarli erano soprattutto gli operai, appena urbanizzati, risucchiati nelle metropoli dall’industria assetata di manodopera. Berlino passò da 2 a 6 milioni di abitanti, e gli alloggi non bastavano mai. I padroni immobiliari erano quelli che guadagnavano.
Anche a spese delle industrie, che pagavano di più affitti e mutui e fidi per i fabbricati industriali. «L’economia era sempre più dipendente dal capitale estero; il peso degli interessi continuava a crescere (…) I crediti esteri erano per lo più a breve, ma erano piazzati in investimenti a lungo termine, sicchè la minima crisi economica presso i creditori avrebbe avuto conseguenze gravissime per la repubblica» (così lo storico Horst Moeller).
Allora la crisi fu quella del 1929, che da un giorno all’altro lasciò l’economia germanica a secco di capitali americani. Oggi è stata la crisi dei sub-prime in USA, che ha destabilizzato il sistema bancario globale, rivelandone l’insolvenza.
Ma intanto, tra il 1925 e il ’29, l’economia cresceva trionfalmente. Erano Die Goldener Zwanziger, i dorati anni ’20 immortalati dalle vignette di Grosz, coi ricconi grassi in cilindro, sigaro e frac che palpano puttanelle (figlie della classe media rovinata) nei cabaret. Gli industriali tedeschi rispondevano al peso crescente degli interessi passivi e dei costi da «bolla» sui fabbricati, creando un apparato industriale ad alta intensità di capitale, in modo da risparmiare sui salari. 
«Le industrie smantellavano le vecchie fabbriche e le rimpiazzavano coi più nuovi macchinari. La Germania stava diventando il Paese industriale più avanzato del mondo, più degli stessi Stati Uniti (…) l’intero sistema ferroviario fu rinnovato…». Così Bruno Heilig, giornalista ebreo dell’epoca, che scampò nel 1938 a Londra  (Bruno Heilig, “Why the German Republic Fell”).
Non mi dilungherò sulle «privatizzazioni» scandalose e truffaldine che allora prosperarono. Mi limito a citare il nuovo porto sulla Sprea, che il municipio di Berlino rammodernò spendendo milioni di marchi, attrezzandolo di gru e magazzini (era il porto che serviva il rifornimento della capitale) e che poi fu ceduto a due privati – con l’argomento che la mano pubblica non poteva gestirlo «con efficienza e profitto» . Il consorzio privato, Schenker & Busch, pagò 396 mila marchi – unico pagamento per 50 anni di affitto (il solo prezzo d’affitto del nudo terreno del porto sarebbe stato di 1 milione di marchi l’anno) e per giunta si fece dare dal comune un prestito di 5 milioni di marchi come capitale operativo. L’alto funzionario pubblico responsabile del progetto, e che aveva poi consigliato la privatizzazione, lasciò l’impiego pubblico e fu assunto da Schenker & Busch con uno stipendio principesco. Intanto «i lavoratori berlinesi, già aggravati dal rincaro delle pigioni, pagavano un tributo a quei privati per ogni pezzo di pane che mangiavano» (Heilig).
La crescita a credito cominciava a perdere colpi. Gli interessi sui debiti degli industriali crescevano, crescevano i costi degli affitti e dei macchinari. Ma per qualche anno «ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori» (Heilig). È significativo che anche durante il boom dei Venti Dorati, i disoccupati restarono tanti, si mantennero sui 2 milioni. Tanto meglio, per gli industriali: manodopera a basso costo. E coi «risparmi» sui salari, comprarono macchinari ancora più efficienti onde aumentare la produttività. Così gli aveva insegnato il liberismo anglosassone. E i tedeschi sono allievi-modello.
L’altra faccia della produttività. Accadde quello che sempre accade quando si retribuisce troppo il capitale (i banchieri, essenzialmente) e poco il lavoro: le merci, prodotte in quantità sempre maggiore, non trovano acquirenti, perché i consumatori (che sono i lavoratori) hanno perso potere d’acquisto. 
Gli imprenditori corsero ai ripari applicando i dettami del liberismo americano appena appreso. Nel 1931, ridussero la quantità di merci prodotte, sperando con ciò di sostenerne i prezzi. Ma così facendo «interessi, tasse, ammortamenti ed affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni beneIl costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti, fino a divorarli» (Bruno Heilig).
Quali misure vennero prese? Altri licenziamenti in massa. Ovviamente, «per ogni lavoratore licenziato era un consumatore che scompariva», ha scritto Heilig, sicché i datori di lavoro «ne ebbero ben poco sollievo».
Già. A far colare a picco le imprese erano i «costi non comprimibili», non già il costo del lavoro; ma questo era il solo ritenuto «comprimibile» – e fu compresso senza pietà. Furono i costi incomprimibili, nel corso del 1931, a rendere insolventi sempre più imprese. Gli interessi sui debiti diventarono impagabili, e non furono più pagati. Con l’insolvenza dei debitori-imprenditori, cominciarono a fallire le banche.
Il cancelliere Heinrich Bruening, salito al potere nell’ottobre ‘31, spese miliardi di marchi (dei contribuenti) per «salvare le banche», applicando da allievo modello i dettami del liberismo anglosassone. Come oggi, quando sono le banche a crollare per i loro investimenti sbagliati, il «mercato» viene sospeso, e invece di lasciarle fallire, si invoca la mano visibile dello Stato, l’intervento pubblico a loro favore.
Non bastò, ovviamente. Allora Bruening, che ormai gestiva l’economia a forza di decreti d’autorità, lanciò una politica di austerità e rigore, tagli di bilancio, deflazione deliberata. Il cancelliere «ascoltava i funesti consigli del dottor Sprague, l’emissario della Bank of England. Il quale naturalmente voleva la continuazione della politica di deflazione ad ogni costo; deliberata permantenere il valore dei fantastici investimenti della City in Germania» (Robert Boothby: Recollections of a Rebel, 1978).
Anche oggi, il rigore e la deflazione decretati da Mario Monti sono nel solo interesse dei grandi creditori internazionali, che vogliono mantenere il «valore dei loro investimenti». Proprio di questo il nostro (loro) Grilli è andato a rassicurare gli investitori americani che creerà «crescita» tagliando i i salari.
Nel 1931, Bruening fece lo stesso:
per decreto, ordinò una riduzione generale dei salari del 15%.
Nella sua teoria, riteneva che riducendo il potere d’acquisto del lavoratori, si sarebbe prodotta di conseguenza una riduzione dei prezzi. Il «prezzo umano», la messa alla fame dei lavoratori e delle loro famiglie, non gli sembrò indegno d’esser pagato.
La massa salariale prima del 1929, ossia nel boom liberista, ammontava a 42,4 miliardi di marchi. Durante il cancellierato Bruening scese a 32 miliardi (il Terzo Reich la fece risalire, nel 1937, a 48,5 miliardi).
Ovviamente, il drastico taglio dei salari non funzionò come sperava Bruening, anzi accelerò il tracollo. Come abbiamo visto, i prezzi delle merci erano determinati da fattori ben diversi che dalle paghe: dai costi incomprimibili, dal servizio del debito, dagli indebitamenti per comprare suoli sopravvalutati dalla bolla. Bruening avrebbe dovuto agire su quelli. Non lo fece.
I disoccupati salirono a 7 milioni: un terzo della forza-lavoro nazionale; a cui si dovettero aggiungere «i «disoccupati parziali», part time e precari, altri milioni non censiti.
«L’apparenza di prosperità economica degli anni Venti si rivelava ingannevole. Quando la crisi americana del 1929 e la poca fiducia nella stabilità economica e politica di Weimar spinsero (gli stranieri) a ritirare i crediti, l’economia tedesca collassò… La generazione giovanile si vide privata di possibilità professionali, economiche e sociali; era sradicata e si sentiva derubata dell’avvenire». (Moeller). «La classe media (era) spazzata via: questa la situazione ad un anno dall’apice dalla prosperità» (Heilig).
In quell’anno, il numero dei deputati nazisti al Reichstag passò da 8 a 107. Avevano votato per loro 13,4 milioni di tedeschi; il 60% erano persone che prima non avevano votato, astenendosi. Nel gennaio 1933, divenne cancelliere Adolf Hitler. E cominciò la ripresa, usando ricette contrarie a quelle del liberismo (1).
Oggi, i poteri forti – che hanno la memoria lunga – hanno agito d’anticipo, di fatto favorendo un colpo di Stato dall’alto in Italia, svuotando di senso le votazioni; hanno accelerato la creazione della giunta oligarchica a livello europeo, in modo – mentre cadono a picco tutti i dati dell’economia reale – da prevenire una deriva «populista» della volontà popolare, che scalzi il loro potere come avvenne «allora».



1) Bruening se ne andò in USA, dove fu accolto a braccia aperte dall’Università di Harvard. Vi restò come docente di politica liberista fino al 1951.


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