di Francesco Salistrari.
Intorno.
Tutto intorno.
Ascolto notizie
stanche. Simili a vecchi che si trascinano.
Sembra di rivivere ogni
giorno la patetica ramanzina di un vecchio, su gambe malferme,
Alhzeimer imperante, tristi presagi, ancor più tristi trascorsi.
Giro, leggo, ascolto.
E non cambia mai
niente. Sempre la stessa musica. Odiosa, minacciosa, angosciosa. Come
una cappa di nubi scure pronte a sputare pioggia sporca sui nostri
visi smagriti.
E parole, parole che
rintronano, che si ripetono, che perdon di senso a ripeterle sempre.
Economia, economia,
economia, economia, economia.
Crisi, crisi, crisi,
crisi, crisi, crisi.
Moneta, moneta, moneta,
moneta, moneta.
Pezzi di sclerosi cerebrali trasformate in realtà. In verità. Religione secolare di un secolo
già visto.
Cambiano i nomi, i
posti, i paesaggi, ma gli occhi, quelli son sempre gli stessi.
Vitrei, sconvolti, sviliti, spremuti. E sono a milioni. A milioni di
milioni. Occhi a cui è stata tolta la capacità di guardare, di
scoprire, di sorprendersi.
Di splendere.
Ed è un genocidio
continuo. Completo. Senza soluzione di sosta. Senza pudore. Sotto
altri occhi. Vigili e impietriti, privi di colore, se non quelli di
un buio che si camuffa da luce.
Guardo intorno. Tutto
intorno. E vedo. “Cose dell'altro mondo”, direbbe qualcuno.
Purtroppo cose di questo mondo e di questo soltanto. Quello che
abbiamo voluto. Quello che contribuiamo a tenere in piedi.
Il sistema.
Un'altra parola
ricorrente.
Sistema, sistema,
sistema, sistema.
Sistematico.
Sistemico.
Parole vuote di
umanità. Ricolme di follia.
Non c'è afflato. Non
c'è anima. Non c'è nulla di quello che dovremmo essere.
Ecco un altro concetto.
“Il dover essere”. Eppure non esiste dovere. Se si perpetua
questo crimine immondo senza battere ciglio. Un crimine contro ogni
cosa, di cui perdiamo l'essenza, di cui non riconosciamo che il nome.
Contenitore vuoto.
Un nome è una forma.
E' una scatola dove riporre pezzi di anima, nel frattempo raccolti ad
osservare e ad amare le cose a cui pretendiamo di dare quel nome.
Senza di ciò, non resta altro che la disumanità di ergersi a
immagine e somiglianza di un Dio che se anche esistesse ci
guarderebbe schifato. Non abbiamo imparato. Non abbiamo voluto farlo,
dagli errori, dagli orrori, dai delitti di cui ci siamo macchiati,
dalla carne che abbiamo mangiato mai sazi, dalla bramosia di
possedere mai paga, di recintare, serrare, dividere, emarginare,
distinguere.
“Quell'uomo si
distingue sicuramente per...”
Si distingue per una
beata minchia.
Quell'uomo se non
avesse incontrato altre persone, splendide, uniche, miracolose, o
minacciose, cattive, puerili, folli, bestiali, non sarebbe nessuno.
Nessuno. Si distinguerebbe solo per la sua piattezza robotica.
Qualsiasi essere umano è SOLO gli altri esseri umani che ha
incontrato nel proprio cammino, nel bene e nel male. Dovunque esso
vada, è fatto di frammenti di loro, che si porta appresso, attaccati
addosso come pezzi di pelle che non cadono più. Cicatrici di
invisibili impianti, fusioni, condivisioni riuscite. Qualsiasi essere
umano ha negli occhi ciò che ha visto, nelle orecchie ciò che ha
sentito, nella bocca ciò che ha detto e sentito pronunciare, nel
cuore ciò che ha provato e fatto provare e riprovato a sua volta.
Non esiste un essere umano bastante a sé stesso. Non può esistere.
Se esisterebbe, la donna non avrebbe funzione. E forse è per questo
che è ancora da tanti, troppi, disumanizzata, inschiavita,
picchiata, umiliata, denigrata, calunniata, ingiuriata, offesa,
svilita.
Alienazione.
Un altro concetto.
Bravissimi a creare
concetti. Ad appiccicare etichette. Mai a saperli leggere quando ci
viene richiesto.
Giriamo la testa di
lato ad una mano che cerca comprensione, conforto, coraggio con tanta
di quella disinvoltura da sembrare normale. E ci infastidiscono i
morti di fame per strada, gli zingari inquieti, gli stranieri venuti
chissà da dove e per cosa, come fossero insetti, mosche moleste
nella nostra stanza, chiusa, personale, nel nostro mondo individuale
che non sa, non vede, non vuole vedere l'immane bellezza che esiste
negli occhi di un uomo, chiunque esso sia.
L'immane bellezza di
quella luce che risplende da sé, come un sole dinnanzi al sole, sole
essa stessa. Quella luce, unica, capace di rischiarare il buio di
un'esistenza a cui, ahimè, dopo millenni, migliaia e milioni di
anni, non abbiamo dato ancora un perchè, una ragione, un senso, uno
scopo, un valore.
Si è ucciso in nome di
qualsiasi cosa, su questa Terra, purgatorio di anime inquiete e
incapaci di riconoscersi a vicenda. Si è ucciso in nome del bene,
per giunta. Del giusto. Della verità. Perfino di Dio.
Ancora contenitori
vuoti che non significano un cazzo.
Negarsi la vista di
quella luce, splendida, meravigliosa, miracolosa che alberga negli
occhi di un uomo, in quelli di una mamma che accudisce il suo
bambino, in quelli di un genio che vede, solo attraverso quella luce
misteriosa, l'esistenza dello spazio e del tempo, ne intuisce la
forma, ne ama i colori, ne ascolta le parole silenti; negarsi tutto
questo, significa rinnegare sé stessi, ciò che siamo, ciò che
dovremmo essere.
Invece siamo ricolmi
di... vorrei.
Vorrei essere. Vorrei
questo. Vorrei quello...quell'altro... e ancora.. e ancora... e
ancora... (per quanto?).
Un vorrei immerso fin dalla notte dei tempi in mezzo a questa umanità, inferocita contro sé
stessa.
Pronta sempre a farsi
la guerra per un assurdo, inesplicabile, inconcepibile, eterno,
vorrei.
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