sabato 23 aprile 2016

La teoria della Global Class (quarta parte).

I mezzi di comunicazione, sono, assieme al monopolio della forza (esercito e polizia), gli strumenti principali attraverso cui il potere esercita la propria egemonia su una società, vale a dire i modi attraverso i quali viene espressa la sovranità.

Il meccanismo che ha dato vita al capitalismo finanziario globalizzato odierno, sarebbe stato impensabile senza il sistema di comunicazione mondiale utilizzato oggi.

di Francesco Salistrari



Il controllo dell’informazione e il dominio totalitario del mondo.

L’avvento della modernità capitalistica è stato favorito da una serie imprecisata di fattori concomitanti che, nella loro interazione reciproca, hanno reso possibile un’accelerazione senza precedenti della potenza produttiva mondiale, dando un impulso impressionante all’avanzamento materiale della società nel suo complesso.

La tecnica, la medicina, l’osservazione astronomica, la fisica, la chimica, le scienze in generale, tutte, ebbero uno sviluppo straordinario, contribuendo e allo stesso tempo essendo favorite, dallo sviluppo capitalista del modo di produzione mondiale.

Uno di quei progressi che, grazie al (e favorendo lo) sviluppo capitalista, più di tutti contribuirono al progresso generale della società, fu senza dubbio quello della “comunicazione”. L’invenzione della stampa, dei primi telegrafi, dei primi strumenti di comunicazione radio a distanza, grazie alla scoperta delle onde elettromagnetiche, del magnetismo della terra, dell’elettricità ecc, furono fattori propulsivi del sistema economico mondiale e da questo furono potentemente favoriti in relazione simbiotica.

La comunicazione, è uno degli elementi essenziali del progresso di una civiltà ed è per questo che l’analisi della qualità, dei modi, degli usi e della cultura che si sviluppa intorno alla comunicazione, di un determinato periodo storico, diventa essenziale per comprendere “lo stato dell’arte” di tale civiltà.

Comunicazione significa innanzitutto informazione, circolazione di informazione, quindi di idee, soluzioni, applicazioni, capacità, possibilità. Più un sistema di comunicazione permette la circolazione e la condivisione delle informazioni, più tale sistema può dirsi efficiente e soprattutto evoluto.

E’ per questo motivo che oggi, con il sistema di comunicazioni di cui disponiamo, in cui la velocità dell’interconnessione planetaria e la mole di informazioni a cui si può attingere sono straordinarie, capire i funzionamenti dei cosiddetti “media” diventa cardinale per comprendere a che punto è la nostra civiltà ed eventualmente cominciare a comprendere dove, come e perché intervenire.

Abbiamo analizzato fin qui tutta una serie di cambiamenti che hanno stravolto il mondo moderno rispetto a pochi decenni fa e se guardiamo al mondo di fine anni ’60 e lo paragoniamo a quello di oggi, da un punto di vista politico, economico e sociale, ci rendiamo conto della distanza siderale che separa questi due mondi. In questo cambiamento spaventoso, l’esplosione dell’informatica e della comunicazione in generale, con l’avvento della televisione e dei moderni mezzi di comunicazione di massa, aggiungendo tutto il complesso sistema di comunicazione satellitare (prima militare e poi civile), il mondo non solo è cambiato, ma è stato completamente stravolto.

Non dissimilmente da altri importanti settori che hanno contribuito allo sviluppo generale della società moderna, così anche i mezzi di comunicazione rientrano nell’ambito e nelle logiche dei settori sociali dominanti. Differentemente però da altri settori, lo sviluppo dei mezzi della comunicazione hanno di pari passo contribuito all’affermazione e sono stati utilizzati da settori di classe subalterni che, senza per altro riuscire sempre ad utilizzarli in maniera adeguata, hanno comunque beneficiato dei vantaggi derivanti dalla condivisione delle informazioni necessari alla difesa dei propri interessi specifici.

Questo perché, lo sviluppo della tecnologia, ha comunque assunto carattere di massa e con essa i mezzi di comunicazione in particolare. Ciò, seppur funzionalmente alle logiche del profitto proprie del sistema, ha comunque favorito spazi di autonomia e di influenza mediatica anche per settori subalterni della società, rendendo più semplice l’organizzazione della difesa di quegli interessi.

Attraverso la stampa, ad esempio, in occidente, venne forgiata quella che da quel momento in poi sarebbe stata conosciuta come “l’opinione pubblica”, favorendo la diffusione delle idee rivoluzionarie della borghesia in ascesa. Dall’interno delle logge massoniche, espressione viva della politica borghese del tempo, le idee fuoriuscirono come un fiume in piena che invase ampli strati della società. Ma per poter affluire in maniera efficace, proprio come un fiume in piena, aveva bisogno dei canali giusti e questi canali furono individuati nei “quotidiani”, ma soprattutto nei “pamphlet” e nella stampa politica in generale.

La società borghese si affermò grazie ad una serie di fattori storici ed economici e non solo grazie alla forza delle armi della rivoluzione. Uno dei segreti di quel successo storico, fu proprio la capacità di trascinare il popolo verso i cambiamenti auspicati da quella che in quel momento era la classe sociale più dinamica, favorendo un cambiamento complessivo della cultura generale dell’epoca e garantendo l’ascesa al potere degli interessi incarnati dalla borghesia.

Questo solo per dare un esempio di come la comunicazione sia influente e lo è sempre stata, nel corso della storia e nel condizionare in un modo o nell’altro i processi storici.

Tutta la storia umana, se vogliamo allargare il nostro orizzonte, è storia di comunicazione. Le grandi dinastie del passato, come ad esempio gli Egizi, uno dei più prosperi imperi dell’antichità, capace di sviluppare la propria economia in modi che per i tempi erano assolutamente spettacolari e avanzatissimi, si resse per millenni grazie alla “comunicazione religiosa”. Una vasta e complessa teologia, espressa attraverso una dottrina sofisticata e di grande impatto che, comunicata al popolo suddito e lavoratore (in maggioranza schiavo), permise l’alternarsi al potere di specifiche dinastie.

E’ la storia di tutti gli imperi. Ed è la storia della politica.

Lo sviluppo moderno ha solo sofisticato i mezzi attraverso cui il potere ha comunicato la propria ideologia e il proprio “credo”, determinando un mutamento radicale delle logiche della comunicazione, ma non la sostanza.

I mezzi di comunicazione, sono, assieme al monopolio della forza (esercito e polizia), gli strumenti principali attraverso cui il potere esercita la propria egemonia su una società, vale a dire i modi attraverso i quali viene espressa la sovranità. Non esistono altri sistemi.

I “media”, mediano, dal latino “medium”, fanno da tramite, tra il mondo dell’élites al governo e il popolo suddito. E questo che ci si trovi in un antichissimo impero del passato o che ci si trovi nella più moderna delle società contemporanee.

Un salto di qualità estremo, rispetto all’utilizzo degli strumenti di comunicazione di massa, si ebbe a cavallo degli anni ’20 e ’30 del ‘900, allorquando l’avvento della radio rivoluzionò completamente il modo con cui la comunicazione di massa veniva espressa.

Nell’Europa sconvolta dalle ferite della guerra e dalle conseguenze potentissime della rivoluzione russa, l’invenzione della radio rappresentò un evento fondamentale. Fu attraverso l’uso sapiente e via via più sofisticato ed ingegnoso che i vari regimi di quegli anni in Europa seppero fare della radio, che i destini del mondo furono decisi.

L’adesione popolare al regime fascista in Italia e l’utilizzo sapiente e scientifico da parte del regime nazista in Germania della cosiddetta “propaganda”, furono immensamente favoriti dalla radio e dai mezzi di comunicazione. La manipolazione delle masse, da quel momento in poi divenne una scienza che nei successivi decenni si perfezionò progressivamente ed in maniera impressionante, molto tempo dopo che quei regimi dittatoriali che più di altri erano stati capaci di elevare le capacità e i metodi d’utilizzo degli strumenti di comunicazione di massa, erano ormai seppelliti sotto le ceneri della distruzione della seconda guerra mondiale.

La televisione, rivoluzionò nuovamente il mezzo, ma la logica era ormai acquisita e si era compresa molto bene, sull’esempio nazista, la potenza manipolativa sulla coscienza collettiva degli strumenti di comunicazione moderni. Fu così che il mondo dei media, oltre che per ragioni strettamente economiche, divenne una vera e propria industria.

Il cinema, la televisione, la radio, i giornali, gli spettacoli, la musica, divennero pienamente integrati alle logiche mercatistiche che il potente sviluppo economico della ricostruzione post bellica stava portando.

C’era bisogno di creare “un sogno americano”, un “sogno europeo”, e in misura diversa non nei fini ma nei contenuti ideologici, un “sogno socialista”. Il potere, seppur da logiche apparentemente opposte e distanti, sfruttò alla perfezione la macchina mediatica che si era messa in moto favorendo l’avvento del “consumismo” e creando una visione del mondo e della società, plasmando i valori della modernità, condizionando vasti processi di cambiamento sociale che, come abbiamo visto, hanno tutti insieme portato a determinati sviluppi storico-economici.

Oggi, più che in passato, l’importanza della comunicazione e dei “media” appare spaventosamente estesa. I moderni ritrovati della tecnologia della comunicazione, dai satelliti alla rete internet, ha aperto possibilità di interconnessione inesplorate, allargando a dismisura le capacità di collegamento di ogni angolo del mondo con il resto. Da questo punto di vista il mondo non è mai apparso così unito.

Alcuni autori hanno visto nelle potenzialità della “rete globale” di interconnessione, una grande opportunità per il genere umano di promuovere un colossale avanzamento della coscienza collettiva globale. I nuovi strumenti di comunicazione con cui praticamente tutti, oggi, possono comunicare con chiunque in qualsiasi parte del mondo, potrebbero diventare lo strumento per la nascita di una vera coscienza globale unificata, creatrice di nuovi valori condivisi e di nuove opportunità per la cooperazione umana, divenendo fattore potente di eliminazione delle barriere linguistiche, culturali, nazionali, militari e religiose, quindi delle divisioni politiche che potrebbe indirizzare il mondo vero l’unificazione dell’umanità.

Se solo consideriamo le capacità di calcolo dei computer moderni e a questo affianchiamo l’innervatura della rete di comunicazione globale (Internet), appare evidente come il meccanismo di valorizzazione del valore e l’estrazione di profitto (plusvalore) dalla società, ha assunto dimensioni e connotati mai sperimentati. Il meccanismo che ha dato vita al capitalismo finanziario globalizzato odierno, sarebbe stato impensabile senza il sistema di comunicazione mondiale utilizzato oggi.

I cambiamenti intervenuti nel modo di allocare le risorse (circolazione dei capitali) e nella velocità di interconnessione (mercati finanziari computerizzati) hanno permesso un duplice effetto:

  •          l’espansione dei profitti;

  •          la trasformazione dei connotati del lavoro;


Il pallone aerostatico che ha tenuto su il sistema capitalistico nell’ultimo trentennio, può a ragione essere individuato nella “finanza”, che ha permesso livelli di profittabilità altrimenti irraggiungibili. Ma la finanza moderna è talmente innervata con i sistemi di telecomunicazioni, che appare assolutamente inscindibile (e imprescindibile) da essi, così come gli stessi livelli di profitto.

Dall’altra parte, le modificazioni intervenute nell’ambito della comunicazione, hanno permesso non solo una nuova configurazione della divisione mondiale del lavoro (spazialmente e geograficamente, nei metodi e nelle metodologie del lavoro industriale/produttivo), ma anche la comparsa di figure e tipologie del lavoro tali da trasformare l’intera società nel suo complesso. In altre parole, la società contemporanea diviene “totalmente produttiva” e questo grazie anche al sistema delle comunicazioni che ha favorito (insieme ad altri fattori sistemici) l’insorgenza del cosiddetto “general intellect”, nuovi strumenti e tipologie di lavoro sociale (lavoro intellettuale, creativo, collaborativo) e nuovi modi di interagire delle forze produttive mondiali.

Questo ha determinato un’enorme espansione della produttività sociale complessiva ed una capacità “estrattiva” (sistemica) del valore assolutamente inconcepibile nelle vecchie e superate forme di capitalismo keynesiano/fordista/taylorista.

Ma il sistema di comunicazioni globale, appare decisivo anche da un altro punto di vista.

Attraverso l’interconnessione planetaria non si muovono soltanto denaro, dati, informazioni, ma anche (e in maniera decisiva) idee, modi di pensare, modelli di consumo. In una parola, attraverso la rete di telecomunicazioni (intesa nella sua totalità) viaggia l’ideologia del sistema.

Le multinazionali, infatti, grazie anche ai nuovi strumenti telematici (social media, blogsfera, social network ecc.) hanno potuto raccogliere una tale quantità di dati e informazioni sugli utenti della rete che ciò, non solo ha permesso l’elaborazione di sempre più efficaci tecniche di marketing, ma soprattutto ha consegnato nelle loro mani il potere di indirizzare e di creare, in maniera ininterrotta, i desideri stessi dei consumatori, forgiando i modelli di consumo globali immanentemente.

L’ideologia, che già con la Tv commerciale, aveva volato sulle frequenza elettromagnetiche delle trasmissioni televisive, plasmando il boom degli anni Sessanta e veicolando il consumismo come nuova religione secolare, viaggia oggi sulle velocissime autostrade informatiche, dove il meccanismo di “creazione del desiderio” non ha più un andamento univoco, ma multidirezionale, essendo connaturato dall’interazione sociale che la rete incarna.

Dunque, i cambiamenti operati dalla comunicazione massificata, nel mondo a capitalismo finanziario globalizzato, non solo hanno favorito l’insorgenza di meccanismi nuovi di formazione del desiderio consumistico, ma hanno d’altra parte instaurato nuove forme di sfruttamento del lavoro e della produzione sociale complessiva, altrimenti nemmeno pensabili.

L’integrazione dei mercati, impensabile in assenza dell’interdipendenza della rete telematica, è un processo che ha segnato in maniera profonda gli ultimi 30 anni di storia del mondo, permettendo la strutturazione e l’affermazione di questa forma totalitaria e onnipervasiva di capitalismo il cui apice sociale va rintracciato nei nuovi rapporti di proprietà internazionali sorti nei “marosi” della fine della Guerra Fredda.

La manipolazione globale organizzata e la veicolazione ideologica dei principi e dei valori sistemici, si esprime pertanto oggi attraverso le bocche di fuoco multipolari della rete, della televisione, della stampa, del cinema, della radio, in modo sempre più sofisticato e raggiungendo livelli stupefacenti di efficacia. Ogni “media” viene infatti contemporaneamente funzionalizzato a:

  •         creazione del consenso;

  •          formazione dei desideri consumistici;

  •          omologazione culturale;


La comunicazione politica, espressa attraverso le forme più disparate, dal talk show televisivo all’uso del social network (specialmente Twitter), veicola la stessa omologante visione del mondo, ipostatizzando ed eternizzando il presente, feticizzando l’economia (e le merci), proponendo un orizzonte di senso che, nella finta pluralità delle opinioni, in realtà impone il pensiero unico del mercato come universo naturale imprescindibile ed eterno, in cui la società viene letteralmente dissolta nell’atomistica individualista del consumatore compulsivo. La macchina infernale della pubblicità che, incredibilmente sottile, sofisticata e subliminale, permea la comunicazione collettiva, eternizza lo stile e il modello di consumo imposto dalle multinazionali della produzione globale, manipola attivamente e continuativamente l’orizzonte sociale per la prima volta nella storia in modi così efficaci e funzionali alla riproduzione sistemica. La società dello spettacolo, come qualcuno ha definito la società contemporanea, è la realizzazione del capitalismo assoluto (nel senso di ab solutus, sciolto da vincoli, attraverso il piano liscio dello scorrimento delle merci e della comunicazione) e lo spettacolo, come rapporto sociale mediato da immagini, permette all’ideologia (l’unica rimasta) di impossessarsi delle coscienze, creando de facto, la dittatura totalitaria della forma merce (mercificazione dell’esistente) innestata sul sostrato finanziario del sistema (denaro).

Il mito del denaro, del self made man, della scalata sociale, proprie del primo affermarsi del consumismo come religione della modernità post bellica del mondo occidentale, si declinano oggi in maniere del tutto originali e onnicomprensive, surrettizialmente, determinando una mutazione antropologica complessiva che si esprime attraverso la figura dell’homo consumens, atomizzato, individualista, anticomunitario.

Le culture (multiculturalismo) vengono spazzate via dalla visione monoculturale dell’imperativo mercatistico, della crematistica assolutizzata e dell’economia feticizzata, in cui l’essere umano, merce tra merci, vive la propria esistenza rifuggendo la socialità che non sia quella istituita dal nesso liberoscambista, ricreando perciò stesso una “società senza socialità”, in cui gli stessi problemi sociali collettivi (disoccupazione, sottoccupazione, miseria) vengono percepiti come fallimenti individuali e non già come manifestazioni proprie del sistema delle ineguaglianze promosso dal classismo capitalistico.

In questo meccanismo psicologico di massa, la comunicazione e la cultura in generale, com’è ovvio, giocano il ruolo cruciale che hanno sempre giocato nella storia dell’essere umano. Il sistema di manipolazione globale della coscienza collettiva, funziona a pieno regime e permette la standardizzazione dei modelli di consumo e dei comportamenti collettivi, funzionalmente alla illimitata valorizzazione del valore che trova nella categoria “teologica” della crescita (illimitata, appunto) il suo corollario automatico.

Un altro aspetto su cui influisce la macchina possente della manipolazione mediatica planetaria è il processo che sfocia in ultima battuta nella “feticizzazione dell’economia” che viene percepita collettivamente come sistema naturale di funzionamento della società e non già come momento politico (dunque discrezionale) della distribuzione della ricchezza.

E’ in questo modo che le “crisi economiche”, la disoccupazione, la devastazione ambientale, le crisi sanitarie, descritte nelle giaculatorie del nuovo clero della comunicazione attraverso sempre più l’uso massiccio della neolingua (l’inglese imposto a livello globale come lingua unica), vengono percepiti dalle masse come fenomeni naturali, assimilabili ai terremoti e agli uragani, cioè come eventi imprevedibili e imprescindibili con i quali si è nostro malgrado costretti a fare i conti.

La “naturalizzazione” dei fenomeni economici (che restano tuttavia sempre e comunque determinati da scelte collettive di classe) è la manifestazione evidente di quanto profonda sia la distorsione ideologica veicolata dai “media” controllati dai grandi potentati economici della finanza mondiale.

Il controllo della comunicazione, attraverso il possesso dei grandi quotidiani nazionali (stampa), dei network televisivi internazionali e delle emittenti nazionali e locali (Tv e rete satellitare), nonché il controllo dei colossi del Web, da Google ad Amazon, da Microsoft a Yahoo!, per fare alcuni esempi (Internet), configurano un sistema integrato di comunicazione mondiale di immane potenza mediatica. Se a questo aggiungiamo le grandi case di produzione cinematografica e pubblicitaria, la sottomissione degli atenei e della produzione/ricerca scientifica universitaria, appare chiaro e cristallino come il controllo della cultura generale, la sua espressione, i principi e i valori veicolati e quelli censurati/ostracizzati, configura in assoluto il sistema più totalitario che la storia abbia mai sperimentato. 

L’apparente libertà individuale di scelta (sempre quasi esclusivamente limitata a quella del consumo in base alle proprie possibilità di spesa), l’apparente pluralità delle opinioni (ma che suonano tutte la stessa canzone rideclinata secondo i più svariati arrangiamenti), l’apparente pace armata (contraddistinta da innumerevoli scenari di guerra regionali settorialmente limitati), l’apparente libertà di pensiero (ma che svilisce, umilia e marginalizza ostracizzando il pensiero divergente e antiadattivo), l’apparente caduta delle ideologie (che lascia in piedi un’unica e totalizzante ideologia che si autodefinisce a-ideologica), l’apparente libertà del lavoro (ma che si esprime attraverso forme di sfruttamento e di estrazione del valore semmai più barbare e più pregnanti), l’apparente democrazia (ma che alle varie latitudini del mondo è sostanzialmente scomparsa o non è mai esistita), nel mondo dell’apparente che appare, è attraverso la proprietà e il controllo dei media, della produzione, della governance politica (sovranità) che la cuspide della piramide sociale governa l’intero pianeta e costruisce giorno dopo giorno il dominio totalitario delle coscienze, delle risorse e della vita. Un dominio, denominato da molti autori, e non a torto, biopolitico.

Viviamo il mondo dell’immagine, consensuale e televisivo, flessibile, ma per sua essenza totalitario, oligarchico e antidemocratico. Il mondo della Classe Possidente Globale, della sua ideologia e della sua ricchezza ostentate.



(continua)

venerdì 8 aprile 2016

La teoria della Global Class (terza parte).

Dall’immenso processo di privatizzazioni inaugurato dalla Tatcher e da Reagan, proseguito in tutti gli altri paesi europei con intensità variabile e conclusosi con il ritorno al mercato da parte dei territori ex sovietici, se è rimasto qualche “cadavere storico” sulla strada, questi sono i partiti e le organizzazioni dei lavoratori.

di Francesco Salistrari


La deriva oligarchica e la fine della democrazia rappresentativa: il caso europeo.

L’ideologia sottesa al processo storico sociale in esame, nel postulare la riduzione delle funzioni dello Stato e la ridefinizione dei centri decisionali al di fuori dei confini strettamente nazionali, sottintende un obiettivo di fondo ben preciso: la privatizzazione del mondo.

Laddove lo Stato Sociale, sorto dal “new deal” americano keynesiano-roosveltiano ed in parte già sperimentato nei regimi fascisti in Italia e Spagna e nazista in Germania, presupponeva l’intervento statale in economia come “bilanciatore” delle storture e delle distorsioni del “mercato”, ma soprattutto come fonte di investimenti e di luogo decisionale di spesa, di emissione monetaria e di politica estera, la nouvelle teorie che ha conquistato il mondo nel giro di qualche decennio, al contrario, presuppone un intervento “minimo” dello Stato in modo tale da lasciare alle “libere forze” del mercato la possibilità di fare il loro gioco indipendente.

Questa posizione rappresenta una scelta strategica che consente di eliminare la “politica”, vale a dire quella partitico-statale (democratica), dall’equazione della mediazione sociale ed economica, in modo da liberare un ampio spazio dentro il quale si possono esprimere interessi e una nuova dimensione politica privati, tendendo alla progressiva eliminazione dei controlli e dei limiti imposti dal regime democratico.

Non è un caso che, dall’immenso processo di privatizzazioni inaugurato dalla Tatcher e da Reagan, proseguito in tutti gli altri paesi europei con intensità variabile e conclusosi con il ritorno al mercato da parte dei territori ex sovietici, se è rimasto qualche “cadavere storico” sulla strada, questi sono i partiti e le organizzazioni dei lavoratori.

Dagli anni ’90 in poi, con l’implosione dell’unica ideologia fino ad allora esistente capace di mettere in discussione quella del mercato capitalistico, vale a dire il comunismo, anche i partiti e le varie “partitocrazie” dei regimi democratici occidentali sono letteralmente implosi in sé stessi, diventando col tempo qualcosa di molto diverso da quello che erano stati fino a quel momento. Le Costituzioni antifasciste scritte subito dopo la vittoria sui nazi-fascisti nella seconda guerra mondiale, affidavano ai partiti un ruolo predominante come strumenti di partecipazione democratica. Per certi versi i partiti furono, per un intero periodo storico, il corollario della democrazia rappresentativa postbellica. E la loro funzione, benchè la degenerazione partitocratica fu un segno evidente fin dai primi anni, fu molto importante.
Con l’andare degli anni, la burocratizzazione, lo strutturarsi del sistema delle alleanze oligarchiche, la non trasparenza e la scarsa democraticità interna, fecero dei partiti le appendici del potere, macchine della corruzione e del clientelismo, dell’affarismo e della lottizzazione delle proprietà pubbliche.

Tutti questi problemi, riassunti nella fortunata definizione di “partitocrazia”, rappresentano un fenomeno che benchè nei vari contesti nazionali abbia avuto gradi diversi di intensità non indifferente, tuttavia fu comune a tutte le esperienze partitiche d’Europa.

Con il 1989 e con il poderoso cambiamento della situazione geopolitica internazionale, anche i partiti persero la propria ragion d’essere, diventando un ostacolo e non una variabile utile della funzione del potere. Emblematico il caso italiano di “tangentopoli”, dove una intera classe politica fu azzerata per via giudiziaria e dove divenne evidente come i nuovi partiti che sarebbero sorti di li a poco avrebbero sempre più assomigliato ai “clubs” e ai cartelli elettorali americani.

L’ “americanizzazione” delle formazioni partitiche europee non fu casuale, né tantomeno interessò solo alcuni e non altri, alcuni paesi e non altri. La trasformazione dei partiti in “comitati elettorali”, privati di una vera identità ideologica, di una propria cultura caratterizzante, incapaci dunque di proporre programmi di “alternativa sistemica”, è un fenomeno che interessa la stragrande maggioranza delle formazioni partitiche parlamentari dagli anni ’90 in poi.

Dalle ceneri dei vecchi “partiti ideologici”, nacquero dunque delle forze politiche che si configurarono sempre più come comitati d’affari, raccoglitori di consenso da spendere in una mediazione politica resa ormai orfana degli strumenti fino ad allora utilizzati, in quanto sempre più il centro decisionale si allontanava dallo Stato verso strutture sovranazionali e private.

La mancanza di una vera distinzione sulle questioni fondamentali, l’omologazione in una visione economica pressoché uniforme, l’uniformità pressoché totale nella tipologia delle scelte operate dalle varie alternanze parlamentari, determinarono nei fatti il superamento della dicotomia destra-sinistra che aveva caratterizzato la politica fin dalla rivoluzione francese. Un superamento che, però, nelle ragioni e negli interessi sociali non solo non si è verificato, ma che anzi ha determinato un sempre più marcato scollamento tra la base sociale, la classe politica e le classi dirigenti nazionali prese nel loro insieme.

Non a caso, un altro fenomeno ereditato dalla democrazia americana, aldilà della forma partitica, è stato proprio il grande e crescente astensionismo alle urne elettorali. Un fenomeno che lungi dal rappresentare la semplice “apatizzazione” dell’elettorato generalmente inteso, mostra una complessiva caduta della fiducia non solo nei personaggi e negli apparati di partito, nei politici in quanto tali o nelle classi dirigenti tout court, ma anche e soprattutto la percezione da parte di sempre più larghi strati della popolazione dell’inutilità del voto in quanto espressione di un diritto, in quanto espressione di una volontà di cambiamento e di una generale sfiducia negli stessi istituti della democrazia rappresentativa. L’allontanamento della base sociale dalle organizzazioni politiche, il cosiddetto distacco dei cittadini dalla politica, in realtà riflette una grave crisi democratica che investe la struttura stessa e la natura stessa dello Stato, del Parlamento, del Governo, organi che, per le dinamiche internazionali, hanno visto sempre più ridursi i propri spazi di intervento, le proprie capacità allocative, le proprie prerogative sovrane, determinando da una parte la “radicalizzazione” della corruzione come fenomeno sistemico, predatorio delle sempre più risicate “finanze pubbliche”, dall’altro il “settarismo” dei movimenti extraistituzionali, la frammentazione sociale e l’apatia.

Esattamente ciò che auspicavano e dettavano gli autori di “Crysis of Democracy”.

Il processo di privatizzazione è stato dunque fortemente condizionato da una modificazione profonda degli istituti e delle organizzazioni della politica, creando i presupposti, dal lato sociale, per l’affermazione del “consumismo” come contraltare alla limitazione progressiva degli spazi democratici del sistema occidentale.

Sulla scorta infatti del modello americano (statunitense), grazie alle modifiche strutturali implementate nel corso di tutti gli anni ’80, si è assistito ad un fenomeno di allargamento della massa dei consumi, accompagnato dalla progressiva privatizzazione di sempre più ampi settori dell’economia che hanno liberato le energie del sistema permettendo due fenomeni complementari, sebbene apparentemente distanti: l’espansione dei profitti e la “crisi” democratica.

La costruzione europea, istituzionale ed economica, è esemplificativa e paradigmatica da questo punto di vista e considerando nel suo complesso il processo che ha condotto all’unificazione monetaria ed economica del vecchio continente, appare evidente la sua configurazione come processo di involuzione oligarchica della gestione del potere.

Da un punto di vista strettamente politico e sociale, infatti, la limitazione delle sovranità nazionali, soprattutto in campo economico, l’unificazione dei mercati e la libera circolazione dei fattori produttivi (merci, servizi, persone e capitali), non connatura un modello diverso di partecipazione democratica ed uno sviluppo della società in direzione evolutiva della democrazia, bensì una compressione dei diritti sociali e democratici e la messa in opera di una strutturazione del potere decisionale di stampo oligarchico e tecnocratico.

Sempre più i Parlamenti nazionali sono diventati camere di compensazione delle tensioni sociali senza per questo determinare cambiamenti della linea politica ed economica di fondo dei vari stati, anzi diventando “camere di ratifica” di politiche imposte dall’alto (organi di amministrazione burocratica periferici), affidando di converso grandissimi poteri alla Banca Centrale e alla Commissione.

Il Parlamento europeo, unico organo eletto democraticamente, non ha alcun potere legislativo, né alcun meccanismo di fiducia/sfiducia nei confronti di un “esecutivo” i cui confini sfumano dalla Commissione al Consiglio Europeo e alla Banca Centrale. “Esecutivo”, d’altra parte non eletto e dunque non legittimato democraticamente e anzi sottoposto alla pressione costante delle “lobbyes” private.

Il fenomeno del “lobbysmo strutturale", importato anche questo da suolo statunitense, si è enormemente rafforzato, determinando il totale stravolgimento delle dinamiche decisionali democratiche, scavalcando la “volontà popolare” e determinando un modello oligarchico il cui controllo sociale è a dir poco problematico.

L’esempio di come le élites europee hanno affrontato la crisi del 2007 (partita dagli Stati Uniti), è emblematico.

L’esplosione della crisi dei cosiddetti “debiti sovrani” europei, determinatasi dopo l’esplosione della bolla dei mutui “subprime” e dei “derivati” che ha condotto al fallimento di una delle più grandi banche di investimento del mondo, la Leman’s Borthers, infatti ha creato le condizioni politiche ideali per determinare una trasformazione della struttura sociale ed economica europea difficilmente realizzabile senza tali “strumenti”. Questo perché, venendo meno la capacità decisionale dei vari Parlamenti nazionali e la limitazione del controllo democratico sulle decisioni europee, è stata possibile una “gestione” della crisi che ha praticamente liquidato in maniera definitiva i residui dello “stato sociale” (welfare), la capacità contrattuale dei lavoratori, la modificazione dei meccanismi del mercato del lavoro, la svendita dei patrimoni pubblici, la compressione della capacità di spesa delle finanze statali, l’integrazione economica con gli USA (TTIP).

Tutto questo complesso di conseguenze, conosciute più semplicemente con il nome di “austerity”, è stato possibile grazie alla particolare configurazione della struttura istituzionale europea determinata da trattati come il “Trattato di Lisbona”, il “MES, il “Fiscal Compact” (che inserisce il pareggio di bilancio nei ranghi costituzionali nazionali). Tutti trattati mai discussi democraticamente, ma semplicemente ratificati dai parlamenti nazionali che, nel frattempo, come nei casi italiano e greco, erano stati “commissariati” con la giustificazione politica del cosiddetto “spread”.

Il dato di fondo è che il meccanismo europeo in cui la Banca Centrale indipendente e privata, assurge ad un ruolo di straordinaria influenza politica sulle scelte di tutta l’area, in cui la “moneta unica” diventa dunque strumento di controllo politico dei vari contesti nazionali e in cui le maglie strette delle regole sui “debiti sovrani” (regole assolutamente politiche e non dettate da considerazioni economiche) diventano il cappio al collo con cui si impiccano i diritti sociali e il welfare, configurano un nuovo modello di democrazia che soppianta il modello di "democrazia occidentale rappresentativo". A questo punto bisognerebbe chiedersi: cui prodest?

I maggiori beneficiari di una dinamica decisionale sganciata da controlli, contrappesi e determinazioni democratiche, cioè espressioni vive delle popolazioni generalmente intese, sono sicuramente tutte quelle imprese private, quegli speculatori, finanzieri, operatori di borsa e quel vasto mondo di interessi che si muovono nell’alveo del cosiddetto “mercato”.

E’ un caso se sono stati i “mercati” a decretare, ad esempio, la fine dell’esperienza governativa di Berlusconi in Italia? Lo spread, cioè una misura econometrica di raffronto tra debiti pubblici dell’area euro, può essere superiore ad una determinazione politica democratica? Evidentemente si.

Questo può succedere proprio in virtù di un cambio strutturale di portata generale e che investe non solo l’Europa, ma che a livello globale, apre lo spazio ad una nuova dimensione politica, decisionale, che esula dalle determinazioni democratiche (laddove regimi democratici quantomeno formali sussistono).

L’involuzione oligarchica delle democrazie occidentali, è da inserire dunque all’interno di un cambiamento generale di paradigma come portato ideologico, sociale ed economico. E’ cioè, in altri termini, il risultato conseguente di uno sviluppo determinato che, all’interno delle dinamiche economiche nuove che si sono sviluppate negli ultimi 40 anni, ha portato la “democrazia rappresentativa”  a diventare progressivamente un ostacolo dello sviluppo economico.

Questo per una serie di ragioni che cercheremo di analizzare.

Innanzitutto è ormai evidente come i ritmi e la velocità con cui vengono allocate le risorse (spostamento di capitali), grazie agli accordi commerciali mondiali (sotto il cappello del WTO) e alle moderne tecniche (sistema informatico), non sono più compatibili con i tempi, le contraddizioni, le farraginosità e le inefficienze degli istituti democratici. Questi ultimi, infatti, viaggiano su velocità completamente diverse da quelle dei “mercati” e le decisioni determinate (mediate) dalla volontà popolare quasi sempre vanno a scontrarsi con gli interessi e le decisioni “impersonali” dell’intero processo produttivo-finanziario. Questo è avvertibile non solo da un punto di vista strettamente riguardante i diritti sociali, dove lo scontro con le “logiche di mercato” è più cruento ed evidente, ma anche da altri versanti come la tutela del territorio, la qualità dei prodotti alimentari, l’istruzione.

Il punto della questione è che i meccanismi della “rappresentanza democratica”, che dovrebbero esprimere anche la tutela dell’interesse collettivo, sono rimasti indietro rispetto alle dinamiche economiche degli ultimi decenni. Ciò dimostra come non si è avuta, rispetto all’espansione dei mercati mondiali, nessuna parallela evoluzione delle forme democratiche di difesa dalle storture allocative, distributive e sociali dei “mercati” e dunque gli istituti classici della democrazia rappresentativa, risultano decisamente inadeguati.

Le stesse strutture difensive rappresentate dalle organizzazioni dei lavoratori (leghe, comitati e sindacati), appaiono oggi inadatte rispetto alle spinte sistemiche che si trovano a fronteggiare. Considerando il ruolo ormai integrato svolto dai sindacati ufficiali, lo sviluppo di forme moderne di autodifesa appare fortemente in ritardo. L'associazionismo o il sorgere di comitati territoriali di difesa, seppur per certi versi potrebbero rappresentare i germi delle future forme di lotta, tuttavia allo stato attuale, risultano ancora insufficienti e fortemente frammentati per essere gli strumenti di una resistenza sociale paragonabile al ruolo che nel corso dello sviluppo capitalistico hanno svolto i partiti e le organizzazioni dei lavoratori del passato.

Questo avviene perché il “potere ricattatorio” degli interessi privati nei confronti delle istanze collettive, risulta enormemente aumentato e sproporzionato a proprio vantaggio, disponendo di strumenti potentissimi come quelli dell’emissione del credito, il controllo delle monete, delle borse e ove ciò non bastasse, le organizzazioni lobbystiche, la corruzione, gli eserciti mercenari e i sicari delle mafie. I risultati di questo coacervo di strumenti sono che la classe politica vede ridursi costantemente la propria capacità di influenza anche laddove i meccanismi di selezione delle élites politiche dirigenti non riescano a bloccare istanze popolari e interessi esterni al sistema privatistico dei “mercati” e laddove le forme di resistenza collettiva riescano a rappresentare un argine concreto ed efficace.

Ma la democrazia rappresentativa occidentale, appare oggi un sistema in decadenza anche da un altro punto di vista.

Infatti, se osserviamo le “regole” che determinano la gestione del debito pubblico degli Stati, capiamo immediatamente come l'erosione della sovranità statale determini effetti profondi e ineliminabili. Il debito pubblico, inserito nei meccanismi finanziari generali, cioè sottoposto alle leggi economiche generali (libera circolazione dei capitali), diventa un “ricatto”, un limite e un problema.

Un ricatto, da parte di chi ha interesse affinchè una nazione, un popolo o un’area geografica determinata, implementi determinate politiche favorevoli ai propri interessi. Un limite alla determinazione di proprie autonome politiche. Un problema economico in relazione ai propri programmi sociali, all’erogazione dei servizi e alla tutela del proprio territorio.

Da questo punto di vista le logiche “superiori” del mercato sono determinanti. Superiori nel senso etimologico del termine: “che stanno sopra”.

E nella nuova gerarchia del potere che si è configurata negli ultimi 40 anni di storia, la stratificazione sociale e lo sviluppo economico hanno determinato la riconfigurazione generale delle dinamiche di classe internazionale.


L'insorgenza della Classe Possidente Globale, si presenta dunque come una fase nuova dello sviluppo storico-sociale in cui una specifica classe sociale dominante determina nuove dimensioni e nuove dinamiche dello scontro sociale, originali ricomposizioni, assetti e disequilibri che travalicando i consueti confini nazionali, nell'era della globalizzazione, interessando pertanto il mondo intero.


(continua)

lunedì 4 aprile 2016

La teoria della Global Class (seconda parte).


Il “neoliberismo”, lungi dal rappresentare una semplice opzione economica, un semplice modo di intendere i rapporti economici, dunque una teoria puramente economica, è anche e soprattutto una teoria sociale, espressa attraverso una concezione filosofica complessiva della realtà socioeconomica che permea non tanto il livello politico, cioè la struttura di potere dei singoli contesti, ma ne caratterizza soprattutto il livello culturale.

di Francesco Salistrari



L'ideologia e le istituzioni del “nuovo ordine mondiale”.

L’imporsi a livello globale delle cosiddette teorie del “neoliberismo”, pur con diverse connotazioni a seconda del contesto regionale, ci porta ad una considerazione generale che difficilmente può essere messa in discussione: il sistema keynesiano di produzione/distribuzione/rapporti di lavoro, ha praticamente cessato di esistere ovunque nel mondo. 

Le nazioni che ancora oggi praticano le cosiddette “politiche miste”, cioè laddove lo Stato riveste ancora un ruolo importante, sono delle realtà in cui il blocco sociale dominante nazionale è un blocco relativamente “giovane”, nel senso che la sua ascesa al potere nazionale è un fenomeno abbastanza recente rispetto alle dinamiche generali mondiali.

Questo avviene in forme diverse in Cina, per la peculiare struttura sociale ed economica, ma avviene in molti paesi del Sud America, in molti paesi dell’est ex sovietico (in parte anche in Russia), e in alcuni paesi del Nord Europa non inseriti nei meccanismi monetari dell’euro.

Questo però non toglie che ampli settori di queste “borghesie nazionali” siano collegate e integrate strutturalmente nelle dinamiche di classe della Classe Possidente Globale e benchè per certi versi rappresentano in parte degli ostacoli al pieno dispiegamento del dominio di classe globale, generando fattori di crisi, frizioni e contrapposizioni latenti e palesi, tuttavia la loro “funzione” a livello globale è pienamente inseribile nel contesto degli interessi globali, di cui la Classe Possidente Globale è portatrice.

Un esempio di questo, potrebbe essere rintracciato nella struttura produttiva cinese, dove, sebbene il ruolo della macchina statale sia preponderante rispetto ad altre realtà, pur tuttavia, le aziende multinazionali operanti in Cina e collegate con la “classe burocratica” al potere, fanno parte del più generale apparato produttivo mondiale di proprietà privata della Classe Possidente Globale.
Investimenti, rapporti di proprietà, rapporti di lavoro, struttura produttiva, sono perfettamente integrati al più generale meccanismo dei “mercati” mondiali e fanno della Cina un paese a struttura capitalistica “neoliberista”, non troppo dissimile nei funzionamenti macrosistemici a quelli di altre realtà politiche totalmente diverse.

Ma il “neoliberismo”, lungi dal rappresentare una semplice opzione economica, un semplice modo di intendere i rapporti economici, dunque una teoria puramente economica, è anche e soprattutto una teoria sociale, espressa attraverso una concezione filosofica complessiva della realtà socioeconomica che permea non tanto il livello politico, cioè la struttura di potere dei singoli contesti, ma ne caratterizza soprattutto il livello culturale, esistenziale.

Il corollario sociale del neoliberismo infatti è ciò che viene conosciuto col nome di “consumismo”, un fenomeno le cui radici sociali vengono rintracciate fin dai primi anni del secondo dopoguerra, ma che si è imposto in maniera sistemica, imprescindibile ai funzionamenti stessi del meccanismo economico, a partire dal tornante storico cominciato con l’esplosione “sessantottina”, in occidente, e con la “rivoluzione culturale” e la “stagnazione” in oriente.

Il “consumismo” è un fenomeno, prima che economico in senso stretto, soprattutto ideologico. Ideologico nel senso che nasce e si sviluppa sulla scorta di una nuova concezione ideologica del mondo, dei rapporti sociali e della politica che si strutturano a partire dalla fine degli anni ’60 in poi.  E’ un fenomeno principalmente ideologico, perché sia in occidente, sia in oriente, contribuisce alla distruzione delle società “tradizionali”, venute fuori dalla seconda guerra mondiale. L’omologazione culturale sottesa al fenomeno del consumismo, la sua totalizzante espressione del reale e dei comportamenti collettivi, il suo essere espressione di sottesi cambiamenti strutturali di livello sociale ed economico, ne fanno più precisamente l’epifenomeno dell’instaurazione di un nuovo ordine economico e politico nuovo, sostanzialmente rivoluzionario.

La modificazione permanente degli stili di vita, delle abitudini e delle tipologie di consumo, l’instaurazione di un complesso sistema di “manipolazione mediatica” di questi ultimi, l'abbandono del concetto di "consumo da sussistenza", l’allargamento della base produttiva mondiale e delle capacità di spesa da parte di sempre più ampi settori della popolazione mondiale, sono solo alcuni tratti di questo epifenomeno sociale.

L’ideologia sottesa al consumismo è quella della “crescista”, cioè della crescita illimitata di produzione e consumi, sottesa al più generale impianto “neoliberista”, all’interno però di un quadro generale di modificazione complessiva dei rapporti sociali.

Un contributo particolare e molto significativo all’instaurazione di questa nuova ideologia come orizzonte di senso del mondo moderno e contemporaneo, non a caso venne proprio da una delle organizzazioni mondialiste più famose, e meno conosciute, della storia: la Commissione Trilaterale.

E’ del 1975 l’uscita di un testo molto interessante partorito da questo importante cenacolo intellettuale transnazionale, dal titolo “The Crysis of Democracy” (La crisi della democrazia), che da un punto di vista estremamente originale e significativo, analizza i possibili (e auspicabili) sviluppi del sistema “democratico” occidentale (e de relato globale).

Questo testo appare illuminante per tante cose. Innanzitutto al suo interno è codificata la nuova ideologia politica ed economica che si sta imponendo e che la nascita della “contestazione sociale” della fine degli anni ’60 ha potentemente favorito, non solo come “reazione”, ma soprattutto come sbocco politico. I punti salienti del contributo, sono rappresentati da alcuni concetti-chiave espressi in maniera poco pedante e incredibilmente concreta e lucida.

Tali concetti-chiave, saranno l’architrave portante delle politiche mondiali di integrazione economica che partendo da quegli anni e passando attraverso il crollo del blocco sovietico, disegneranno il mondo così come lo vediamo oggi.

Partendo dal presupposto che il “socialismo reale” non fa parte dei fattori di crisi della “democrazia”, non rappresentando più un pericolo di involuzione collettivistica globale, ma avviandosi ad un rapido tramonto, l’analisi del “libello”, pone alcune questioni fondamentali, la prima delle quali è senza dubbio quello dell’apatia delle classi popolari. Il concetto di “apatia” viene usato in maniera tutt’altro che dispregiativa, anzi elevandolo a concetto stabilizzante della governance “democratica” e ritenendolo assolutamente necessario all’esercizio del potere e al funzionamento stesso del sistema politico. In altre parole, la NON partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, in quote sempre maggiori, garantisce una più equilibrata gestione del potere, una più corretta allocazione delle risorse ed una dialettica sociale meno traumatica e più convergente.

Da questo punto di vista, “The Crysis of Democracy”, si spinge ancora più in là, introducendo il concetto di “governabilità” in maniera del tutto nuova rispetto al concetto tradizionalmente inteso. In questo senso, la “governabilità” viene completamente sganciata dalla “democraticità sostanziale” del sistema e viene al contrario auspicata una stabilità democratica sostanzialmente senza democrazia (o con una democrazia ridotta ai minimi termini).

Particolare interessante, la prefazione all’edizione italiana del testo è ad opera di Giovanni Agnelli, magnate della Fiat, probabilmente il più potente e influente imprenditore del “capitalismo italiano” per più di un quarantennio, nonché espressione migliore di quella “classe borghese transnazionale” che aspirava all’emancipazione. In questo senso, le parole di Agnelli, a presentazione del testo di Crozier, Huntington e Watanuki, sono emblematiche.

Agnelli individua in tre fattori principali le “minacce” allo stato democratico, suddividendoli in tipologie. La prima tipologia è di carattere “contestuale”, la seconda di “strutturale”, la terza di carattere “intrinseco”.

Analizziamo brevemente le posizioni del ricco imprenditore italiano.

Le minacce di tipo “contestuale” rispecchiano la situazione economica e di politica internazionale, come minacce militari esterne, penuria di materie prime, inflazione, instabilità monetaria, le quali per essere disinnescate necessitano della giusta organizzazione dell’interdipendenza economica e della sicurezza.

Per quanto riguarda le minacce di tipo “strutturale”, Agnelli individua nella cultura “antagonista”, una minaccia rilevante proveniente dagli strati intellettuali della società e dai gruppi ad essi collegati che si contraddistinguono per la loro avversione “ideologica” alla corruzione, al materialismo e all’inefficienza della democrazia, nonché la subordinazione del sistema democratico al capitalismo monopolistico.

Infine, le minacce “intrinseche”, sono quelle più gravi e pericolose. Più democratico è il sistema, più le minacce intrinseche sono gravi, riflettendo il funzionamento stesso della democrazia. In altre parole, per poter funzionare bene e al riparo dai pericoli disgregativi, Agnelli è convinto che il “sistema democratico” debba essere il meno democratico possibile, bilanciandosi sulle altre tendenze di segno opposto.

E’ per questo motivo che la questione della “governabilità”, secondo Agnelli riveste una fondamentale importanza.

Appare davvero interessante come poi i tre autori elaborino le loro “soluzioni”, proponendo una cura per la malattia della democrazia che presuppone, di fatto, meno partecipazione e dunque meno democrazia. Ma aldilà di questo, la questione di organizzare in maniera concreta e razionale l’integrazione delle economie come baluardo alla spinta “dissolutiva” delle correnti cosiddette antagoniste, appare, nelle concezioni di questa élites di intellettuali, professori, manager, imprenditori, capi di stato, ministri, finanzieri ed economisti che si riuniscono intorno alla Trilaterale, come uno dei punti cardini del proprio ragionamento politico. Infatti, l’invito ad accelerare quanto più possibile l’integrazione europea per sottrarre ai vari apparati statali i centri decisionali di politica economica e sociale e spostarli in istituzioni “lontane” da quei popoli all’interno dei quali vive la “contestazione” e si sviluppa sempre più una richiesta generale di maggiori garanzie, maggiori diritti e maggiori libertà, è talmente esplicito che, considerando l’attuale impalcatura europea, i suoi meccanismi, chi detiene le fila delle decisioni politiche ed economiche, come vengono implementate nei vari contesti nazionali e il ruolo ancillare che, a parte qualche sporadico esempio, hanno assunto i vari governi nei confronti della governance europea, le posizioni espresse in “Crysis of Democracy” apparirebbero quasi profetiche, se non fosse che si trattasse di vere e proprie direttive.

La considerazione generale infatti che si può tentare è che quel “cenacolo” di potere che si raggruppa attorno alla Trilaterale e ad altre istituzioni simili, non solo ha le idee molto chiare sugli sviluppi in atto e sulle auspicabili direzioni da seguire, ma soprattutto che, una volta formulate le analisi, esista poi una volontà generale perfettamente capace di realizzare quelle visioni, di renderle operative, di indirizzare lo svolgimento dei fatti salienti e delle decisioni politiche decisive.

L’esempio della Trilaterale è infatti emblematico di come, aldilà dei confini e delle differenze politiche, esista una capacità di analisi e una capacità politica che non rimane sulla carta, espressione volatile e pedantesca, bensì si concretizza nella realtà in modo omogeneo e determinato e tali capacità si esprimono attraverso queste “istituzioni” non ufficiali, dimostrando come un blocco di interessi di livello globale ha la capacità di organizzarsi, di strutturarsi e far valere le proprie pretese.

Non è un caso, infatti, che dopo quel 1975 e l’uscita di “Crysis of Democracy”, le svolte epocali che si determinarono di li a poco, nelle linee di fondo, ricalcavano quella impostazione e quell’ideologia. Da quel momento in poi, non solo il processo di integrazione europea subì una fortissima accelerazione, ma con l’avvento al potere negli Usa e in Inghilterra dell’ex attore hollywoodiano Reagan e della miss lady di ferro Margareth Thatcher, si avviò una nuova stagione politica che sancì l’uscita delle teorie “neoliberiste” dalle aule e dai seminari universitari, per farsi prassi economica e politica nella realtà sociale concreta.

Non a caso, in quegli anni, le teorie dello “stato minimo” alla Robert Nozick e la messa al bando del keynesianesimo come modello economico di riferimento, coincidono con quella storia tutta particolare che molti conoscono come gli “shock petroliferi”. Un evento politico che spinse tutti i recalcitranti, i conservatori e gli scettici nelle braccia del “neoliberismo” che in brevissimo tempo divenne la religione ufficiale della modernità capitalistica.

La brusca sferzata che le crisi energetiche degli anni ’70 diedero a tutto il mondo politico occidentale, favorì in maniera decisiva un cambio radicale dei paradigmi economici e delle politiche economiche dei vari contesti nazionali, sancendo la fine di un’era e l’inizio di una nuova.

Il varo dello SME (padre dell’Euro) in Europa, l’abbandono del sistema monetario di Bretton Woods e l’introduzione del sistema a “moneta fiat” (cioè non agganciata all’oro e con cambi liberi e variabili), il progressivo smantellamento del welfare state come modello di compensazione sociale, l’abbandono dei sistemi di indicizzazione dei salari, le nuove politiche energetiche e industriali, la riorganizzazione del lavoro di fabbrica, lo sganciamento del potere di emissione monetaria da parte delle banche centrali da quello politico, sono tutti aspetti di una strategia univoca, predeterminata, lucida, potente, che si innestò in un momento storico e sociale che, proprio mentre i movimenti sociali subivano un naturale “riflusso” e in alcuni contesti nazionali come l’Italia ciò conduceva lo scontro a radicalizzarsi in “lotta armata”, il potere occidentale marciava in una direzione completamente diversa, ma comunque  nuova, rispetto alle aspirazioni “antagoniste” che preoccupavano così tanto Gianni Agnelli.

Lasciando da parte le varie peculiarità nazionali, è evidente come la capacità di immaginare un futuro diverso, di prevedere sviluppi e situazioni, di indirizzare lo sviluppo sociale e politico in direzioni ben precise, di “giustificare” determinate scelte anziché altre, da parte delle élites del potere globale, furono fattori decisivi. La cementificazione ideologica, l’armonizzarsi delle differenze e dei contrasti, la capacità dialettica tra le varie posizioni e i vari interessi, la prontezza delle soluzioni, la capacità di indirizzare le risorse e le forze laddove servisse quando servisse, la capacità manipolatoria e l’abilità nello sfruttare gli eventi storici e sociali funzionalmente ai propri disegni, furono tutte cose che in quegli anni, le élites globali riuscirono a ottenere e concretizzare in maniera decisiva.

Una Classe Globale, prendeva coscienza di sé e per la prima volta nella storia era diventata potenzialmente capace di indirizzare i destini del globo e di esserne consapevole.

Istituti come la Banca Mondiale, che era stata determinante nella ricostruzione post-bellica, nella decolonizzazione e divenne importante nel trapasso al capitalismo dell’est sovietico; come il Fondo Monetario Internazionale; come l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) fondata nel 1995 proprio mentre l’Europa si determinava attraverso il Trattato di Maastricht e il mondo ex sovietico si avviava all’esperimento “neoliberista”; divennero strumenti essenziali nelle mani di quella che, nei tornanti storici degli anni ’60 e ’70, si era scoperta una vera e propria classe sociale internazionale, portatrice di interessi condivisi e che esisteva un nemico comune da combattere a tutti i costi: non più il comunismo che, come ideologia si avviava al tramonto definitivo, ma la democrazia in quanto tale.


Fu proprio a partire da quel fatidico decennio degli anni ’70 che, laddove esisteva, la democrazia fu messa in discussione e subì una profonda e costante involuzione, mentre laddove non esisteva, veniva persa definitivamente la possibilità di essere instaurata. Non solo venne completamente bloccata la possibilità di un’evoluzione spontanea da forme democratiche di stampo “classico”, vale a dire borghese parlamentare di tipo liberale, a forme più avanzate di governance politica, ma venne altresì compromessa la possibilità di un’evoluzione democratica di quei contesti regionali nei quali la democrazia parlamentare non aveva mai attecchito, configurando una mappatura della cartina geopolitica mondiale in cui, oggi, la democrazia (laddove esista) appare ormai solo l'orpello formale di governance autoritarie.


(continua)

giovedì 31 marzo 2016

La teoria della Global Class (Classe Possidente Globale).

Classe sociale è la strutturazione gerarchica di uno strato della popolazione in un raggruppamento abbastanza omogeneo, sia da un punto di vista economico (lavoro, casa, vestiario), sia sul versante culturale (livello di istruzione, titolo di studi, cultura generale).


di Francesco Salistrari




Ricomposizione transnazionale di classe.


Il tramonto della borghesia come “classe dominante” (in regime capitalista), è un lungo processo storico, politico ed economico che si è compiuto da qualche decennio, ma che affonda le sue radici negli albori stessi del capitalismo.

Il capitalismo fu sin dall’inizio un “movimento sociale” a grandissimo carattere internazionalista. La formazione di tutta una serie di “borghesie nazionali”, intorno al sorgere politico dello “Stato Nazione”, inteso come “nume tutelare” degli interessi di classe nazionali (imperialismo), fu fin dal principio accompagnata dalla “nascita” di una sorta di “classe borghese transnazionale” che si espresse attraverso varie forme ed organizzazioni, una delle quali può essere rintracciata sicuramente nella cosiddetta “haute finance” di ottocentesca memoria.

Questa classe sociale nascente, benchè suddivisa comunque al suo interno su linee di classe a “base nazionale”, ha sin da subito assunto una chiara fisionomia cosmopolitica, cioè di “politica” (polités) applicata al “mondo” (cosmos). Nella sua visione aperta delle relazioni economiche umane, questa classe sociale, ha infatti espresso i suoi interessi travalicando spontaneamente le diversità culturali e formandosi spontaneamente all’interno di qualsiasi contesto, divenendo interlocutore globale di interessi seppur di matrice “locale”.

Nelle dinamiche storiche intercorse, dalla nascita di questa “classe globale”, le contraddizioni sistemiche e sociali scaturenti dallo sviluppo del capitalismo, fecero di questa classe ciò che Smith fece della “mano invisibile” per il mercato. Cioè vale a dire, all’interno delle contraddizioni nazionali e dello scontro per il controllo delle risorse planetarie, questa classe “sovranazionale”, sovente ha “spostato” i suoi interessi apparentemente in modo funzionale a particolari interessi “nazionali”, ma in realtà ai propri. Gli accordi commerciali, gli investimenti, i finanziamenti, tutta la massa monetaria che questa classe è riuscita a spostare nel mondo nel corso degli ultimi 200 anni, ha in qualche modo sempre contribuito a determinare in maniera fondamentale, gli eventi storici e gli scontri internazionali.

Un metodo capace di gettar luce su questa dinamica, può facilmente essere rintracciato individuando, nei vari tornanti storici, gli spostamenti di capitale mondiale. Cioè, allo stesso modo di come un magistrato che indaghi su un reato, per scoprire i mandanti, gli esecutori e gli eventuali fiancheggiatori, segue la “scia del denaro”, così individuando i flussi finanziari, si individuano un modus operandi e dei “colpevoli”.

Questo per il semplice fatto che l’allocazione delle risorse che questa “classe globale” storicamente ha determinato, è stata capace di spostare gli equilibri politici e sociali di intere aree del pianeta contemporaneamente.

Oggi, con l’avvento del capitalismo globale (finanziarizzato), il peso sociale, economico, politico e militare di questa classe, di fatto, si è enormemente accresciuto, tanto da configurare una nuova sovranità che soppianta, nelle dinamiche del potere, la sovranità dello “Stato nazionale”, un nuovo spazio politico decisionale, capace di indirizzare le scelte di qualsiasi contesto nazionale o regionale.
La capacità di “spostare”, attraverso i mezzi tecnologici moderni, i propri interessi aldilà di qualsiasi confine linguistico, culturale, politico, permette una composizione di classe mai sperimentata in passato. Questo significa che esiste, a partire da un certo momento storico (che cercheremo di individuare in seguito), una nuova dimensione politica.

Ogni classe sociale, storicamente esistita fin qui, ha infatti fondato la propria dimensione politica. Tale dimensione politica, rifletteva la struttura produttiva del tempo e i rapporti sociali ad essa sottesi.
Oggi, la struttura produttiva mondiale (multinazionale) e i nuovi rapporti sociali nati dal crollo della divisione in blocchi del mondo, hanno generato la creazione di una nuova dimensione politica occupata appunto dalla classe globale.

Questa nuova dimensione politica si esprime, naturalmente, attraverso una nuova dimensione ideologica che permea il contesto culturale globale, colonizzando l’immaginario collettivo di sempre più grandi masse di individui. L’unificazione dell’immaginario collettivo non più su basi nazionali e/o regionali, bensì globali, è probabilmente un fenomeno originale, nella storia del mondo, ma se è possibile oggi, lo è essenzialmente perché è solo da qualche decennio che la classe sociale globale ha instaurato una propria dimensione politica autonoma.

Se infatti in passato, molto più di oggi, la mediazione degli interessi della “classe borghese transnazionale” doveva avvenire per ragioni di forza (rapporti) su canali più strettamente nazionali (quindi gruppi nazionali, espressione di interessi di classe nazionali), quindi delimitando fortemente la propria capacità decisionale e politica, oggi, con la modificazione della funzione dello Stato (storicamente esistita), essa si è spostata da ambiti “nazional pubblici”, ad ambiti “internazionali privati”. All’interno della mediazione internazionale privata, con tutte le sue sfaccettature e le sue contraddizioni, la dimensione decisionale politica, assume sempre più carattere “privatistico”, cioè non determinata da dinamiche pubbliche (democratiche, collettive e/o nazionali) e che impone la propria trasversalità ideologica a tutto l’orizzonte sociale mondiale.

Una delle caratteristiche attraverso cui si può individuare questa classe sociale globale, si esprime attraverso le nuove forme di proprietà che lo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni ha determinato. Analizzando infatti la struttura delle imprese multinazionali, delle banche e della finanza mondiale, i nuovi istituti di proprietà sorti dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, prefigurano l’esistenza di una classe possidente globale.

Possidente nel senso letterale del termine.

Tutto ciò che rientra nella categoria socialmente ampia di “merce”, le appartiene. In un’epoca storica in cui la “mercificazione dell’esistente” è un processo il cui grado di sviluppo conosce oggi vette storicamente mai sperimentate, le “proprietà” di cui dispone la classe possidente globale sono talmente estese da occupare la quasi totalità dell’orizzonte esistenziale moderno.

Osservando le ramificazioni dei titoli di proprietà delle imprese, delle aziende, dei titoli azionari, dei consigli di amministrazione (compresi quelle delle grandi banche di investimento, delle banche centrali e degli istituti finanziari), appare evidente come questa classe possidente globale, controlli (più o meno totalmente):

•             Il denaro;
•             La forza lavoro;
•             Le risorse (energia, acqua, minerali, terra ecc.);

Se questo, per le classi possidenti storicamente esistite, avveniva semplicemente su basi nazionali e/o regionali, oggi avviene su scala globale.

La struttura sociale di questa classe possidente globale, si costruisce su base piramidale, attraversata da settori intermedi.

Questo ampio settore sociale globale, rappresenta la cuspide della piramide sociale mondiale. Immediatamente sotto a questo livello, esiste il livello cosiddetto “statale nazionale”, vale a dire, un livello intermedio di classe, che si esprime attraverso linee di classe nazionali, ma in posizione subordinata. La base della piramide è rappresentata da quella che si potrebbe definire “Società bassa”: l’insieme delle masse “produttrici e consumatrici”.

All’interno della Società Bassa, sussistono, com’è naturale, settori intermedi che fungono da collante sociale verso l’alto.

Il Potere politico e la funzione dello Stato.

Come tutte le classi possidenti della storia, anche la Classe Possidente Globale, detiene il potere politico ed esprime tale potere attraverso proprie Istituzioni. Una di queste istituzioni rimane lo Stato Nazionale, che ha completamente mutato la propria funzione rispetto a ciò che ha storicamente rappresentato sino a questo momento.

Il vasto processo denominato “erosione dello stato nazionale”, è un processo storico, sociale e politico che affonda le sue radici nei mutamenti strutturali avvenuti durante il corso degli anni ’70 del novecento a livello globale.

L’emergere del “neoliberismo” come teoria economica fondante dell’azione Statale, in occidente, ha determinato una lenta ma progressiva erosione delle prerogative dello Stato in quanto istituzione di potere, in quanto cioè a dimensione politica (decisionale). Questa erosione, è avvenuta attraverso tutta una serie di mutamenti sociali, giuridici, finanziari che il processo che si è avviato dagli anni ’70 in avanti, ha portato sempre più i luoghi decisionali politici da una dimensione “nazionale” (imperialistica), ad una sempre più internazionale. La nascita di istituzioni transnazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Banche Centrali sganciate dal controllo pubblico (e dalla proprietà pubblica), la nascita di unificazione commerciale di intere regioni (NAFTA, COMUNITA’ EUROPEA ecc), l’abbandono del sistema monetario nato a Bretton Woods, tutto questo, ha progressivamente ridotto l’ambito di intervento (e la proiezione di potenza) dello Stato Nazione in quanto tale, relegandolo al ruolo comprimario di potere tra i poteri.

In qualche modo, è avvenuta progressivamente una “divisione internazionale dei poteri”, in cui quello statale, non è che un livello politico-amministrativo non più “fondante”, bensì intermedio.

Questo processo, con la caduta del muro di Berlino e della società “collettivistico-burocratica” dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, ha subito un’accelerazione prepotente e sebbene qualcuno intravedesse al contrario l’emergere degli Stati Uniti come unica superpotenza statale globale, capace cioè di determinare su linee di interesse di classe a base nazionale, nel medio periodo, ha contribuito ad una pesante limitazione della proiezione di potenza dello Stato Americano (USA). Sebbene, grazie al suo apparato militare, alle relazioni internazionali, evolutesi a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti mantengano una potente egemonia politica, culturale, economica, pur tuttavia, gli interessi transnazionali della frazione americana (statunitense) della Classe Possidente Globale, spesso sono in contrasto con i particolari interessi nazionali espressi attraverso la dimensione politica statale.

Dunque, se da una parte, gli USA, in quanto entità Statale (Nazione), mantengono un ruolo di primo piano, all’interno delle dinamiche internazionali e di scontro intercapitalistico, pur tuttavia, tale ruolo diventa ancillare e funzionale non già ad interessi prettamente statunitensi, bensì trasversali e transnazionali.

In realtà, le varie componenti del potere politico statale, espresso regionalmente e/o nazionalmente, rappresentano più che altro frazioni intermedie di una piramide che si estende anche al di sopra di esse.

Non sono più le forze nazionali, bensì quelle transazionali che determinano l’andamento della geopolitica moderna.

Le guerre, i conflitti, le situazioni di crisi sociale, militare ed economica, sono tutte espressione di fratture interne su linee di classe nazionale che vengono utilizzate, ai fini degli interessi della Classe Possidente Globale, a seconda delle circostanze, delle convenienze, delle alleanze sociali e politiche.
E’ chiaro che all’interno dei vari contesti nazionali, esistano spazi culturali ed ideologici autonomi, che non necessariamente esprimono interessi globali, ma che al contrario fanno da contraltare alle spinte disgregative insite nel meccanismo di distruzione delle entità statali tradizionali.

Laddove esistono governi che si oppongono al dominio incontrastato dei “mercati” (cioè della Classe Possidente Globale), esistono forze sociali capaci ancora di opporre resistenza organizzata e mediazione politica. Laddove questi governi hanno rappresentato un ostacolo troppo ingombrante agli interessi dei “mercati”, sono stati spazzati via dalle guerre che abbiamo vissuto negli ultimi 70 anni.

Le guerre del futuro, la geopolitica del futuro cioè, si giocheranno pertanto sull’eliminazione (o sul tentativo di eliminare) progressivamente tutti quegli ostacoli che restano all’instaurazione definitiva della “dittatura dei mercati”, vale a dire al pieno e totale dispiegamento del potere della Classe Possidente Globale.

La svolta del '68.

Il vasto processo sociale e politico, passato alla storia come il “movimento del ‘68”, ha rappresentato una svolta epocale di portata straordinaria le cui conseguenze e le cui implicazioni non sono state del tutto comprese o indagate. Ferma restando l’immensa produzione intellettuale (analitica, politica, sociologica, psicologica, filosofica) intorno alle cause, agli sviluppi e agli sbocchi del “movimento del ‘68”, l’analisi della quale è indispensabile per comprendere una così particolare congiuntura storica, pur tuttavia il grande portato del “movimento del ‘68” assume, nei confronti dell’individuazione della moderna sovranità politica globale, importanza determinante.

Infatti, l’anno 1968, sebbene anno-simbolo, rappresenta una particolare convergenza di fattori che hanno fatto esplodere le contraddizioni insite nel sistema sociale (e internazionale) scaturito dalla seconda guerra mondiale e ne hanno dato uno sbocco sociale, economico e politico del tutto nuovo.
Un immenso intellettuale come Pierpaolo Pasolini, in modo profetico, nei suoi scritti e in generale nella sua produzione artistica, fu uno dei pochi capaci di cogliere i tratti salienti del “movimento del ‘68”, individuandone significati, processi, sbocchi, conseguenze di lungo periodo.

In effetti, il movimento del ’68, aldilà delle sue manifestazioni politiche e delle sue contraddizioni, sprigionò energie sociali nuove, capaci di modificare lo stato esistente delle cose. Tali energie, lungi dall’essere rappresentate, come Pasolini ben comprese, da un generale riorientamento culturale della società del tempo, in realtà furono capaci di provocare lo sconquasso della “società borghese” minando le fondamenta stesse del “dominio borghese della società”.

Il movimento del ’68, in larga parte, benchè caratterizzato da una polarizzazione ideologica di classe (operaia) e intellettuale (studentesca), fu preminentemente un fenomeno “antiborghese” e solo in maniera marginale “anticapitalista”. Pur in presenza di una forte componente antisistemica, espressa nelle forme organizzative dei movimenti extraparlamentari di matrice marxista, marxiana, veteromarxiana, leninista, maoista o troschista, pacifica o armata, tale componente non fu mai veramente egemonica, né da un punto di vista politico, né ideologico. Il contraltare, rappresentato dal “riformismo istituzionale” incarnato dai partiti, dai movimenti e dai sindacati della “sinistra ufficiale”, rifletteva essenzialmente la struttura sociale esistente e i rapporti sociali internazionali, molto più di quanto gli stessi rappresentanti di queste tendenze credessero o volessero far credere. Da questo punto di vista, il “conservatorismo” di sinistra, espresso da queste formazioni sociali, fu ciò che rese impossibile uno sbocco realmente anticapitalista del vasto movimento cominciato nel 1968.
La messa in discussione della “famiglia”, della “morale”, del “potere” e delle istituzioni in generale, non fu una messa in discussione generale del sistema nel suo complesso, bensì una messa in discussione del “modello borghese” di queste istituzioni, senza per ciò stesso comportare il radicale rifiuto del sistema economico nel suo complesso.

In altri termini, grazie a tutta una serie di situazioni e alla composizione dei rapporti di forza in campo, il movimento del ’68, distruggendo la “società borghese”, con essa, contrariamente alla dottrina marxista allora imperante, non distrusse il sistema capitalista, ma contribuì ad una sua evoluzione sociale, politica ed economica di ampia portata del tutto nuova ed originale.

Molto curiosamente, ma non certo casualmente, proprio mentre in occidente si avviava la “grande stagione della contestazione”, nella parte ad oriente del mondo, vale a dire quella caratterizzata da un sistema statalizzato della gestione economica e del potere, cominciava un processo lento e graduale di sgretolamento del sistema che avrebbe condotto decenni più tardi al ritorno al capitalismo. Sebbene nel mondo sovietico di fine anni sessanta, il “benessere” avesse raggiunto vette mai sperimentate in passato e sebbene sia la tecnica, lo sviluppo scientifico e produttivo, avesse caratteristiche simili a quelle occidentali (da un punto di vista del grado di sviluppo delle forze produttive complessivamente intese), tuttavia, l’impalcatura politica rappresentata dalla ferrea presa burocratica sulla società, divenne un ostacolo prepotente allo sviluppo del sistema.

Questo fatto, determinato da fattori sociali e da fattori strettamente economici, provocò una lenta ma inesorabile messa in discussione generale della struttura economica sovietica. Messa in discussione che si espresse, per quanto riguarda le componenti popolari, in un sempre crescente malcontento e nel rifiuto ideologico del comunismo, mentre per quanto riguarda i vertici sociali, attraverso un sempre più marcato anelito di trasformazione dei rapporti di proprietà e di quelli sociali in direzione di una restaurazione capitalistica.

Le contraddizioni sociali e la lotta tra settori sociali sovietici, ad un certo momento divennero così evidenti attraverso la messa in discussione del fondamento del potere del Partito Comunista (nelle sue varie declinazioni nazionali), per infine produrre al proprio interno quelle forze capaci di generare il cambiamento che si verificò poi alla fine degli anni ’80. Tali contraddizioni, fortemente condizionate dalla situazione internazionale e dai rapporti di forza sociali internazionali, nonché alimentate dalla base popolare del sistema sovietico che anelava un cambiamento, permisero la dissoluzione del sistema sovietico in modo talmente repentino che agli occhi degli osservatori occidentali, tutto il fenomeno per lungo tempo restò un mistero.

La reintroduzione del capitalismo, in una società come quella sovietica, fu un processo politico ed economico di inaudita violenza, capace di lasciare cicatrici e problemi sociali non ancora rimarginati. La dissoluzione sociale sfociata in predazione sistematica delle risorse pubbliche da parte di una “classe borghese nascente”, in realtà figlia diretta della “casta burocratica” al potere tramite i vari Partiti Comunisti nazionali, determinò il più grande e colossale “furto” di proprietà pubbliche che la storia abbia mai registrato, provocando un riallineamento di classe violento e criminale i cui effetti non sono ancora del tutto dispiegati.

Dunque, mentre più o meno nello stesso periodo in occidente, assistiamo da una parte ad un colossale movimento di messa in discussione delle basi tradizionali del dominio borghese della società, ed in particolare dello “stato nazione”, un movimento che dall’alto si esplica attraverso la radicalizzazione delle nuove teorie economiche riconducibili al “neoliberismo” che mettono in discussione il ruolo dello Stato nell’economia, dunque i rapporti sociali sorti dalla seconda guerra mondiale fino a quel momento, dall’altro, in oriente, assistiamo ad un movimento che pur da presupposti del tutto diversi e con forme e contenuti dissimili, pur tuttavia mette in crisi e in discussione anch’esso lo Stato (non solo come proprietario dei mezzi produttivi), con sbocchi del tutto simili (se non perfettamente corrispondenti) a quelli del “neoliberismo” occidentale.

In effetti, analizzando metodologie, tempi e strumenti utilizzati nella reintroduzione del capitalismo nei paesi dell’est ex sovietico, ci accorgiamo immediatamente di come la nascente classe possidente (al sorgere dei nuovi rapporti sociali), sia legata a doppia mandata, non solo per filiazione ideologica, bensì strutturale, alla classe possidente occidentale, che nel frattempo stava guidando la trasformazione del capitalismo occidentale in senso “neoliberista”.

Tutto questo vasto fenomeno, sarebbe più corretto dire processo, conosciuto come “internazionalizzazione dei mercati”, in realtà è rappresentato più che da un semplice allargamento sommatorio di mercati (rimasti separati fino all’esistenza del blocco sovietico), da una vasta composizione di classe su scala globale che mette in discussione le definizioni territoriali, nazionali e sociali fino ad allora esistite.

Gli strumenti attraverso i quali, questo processo si è realizzato, sono di natura ideologica, sociale, politica ed economica.

L’avvio economico di questo processo, che in occidente coincide con l’esplosione delle cosiddette crisi energetiche (shock pretroliferi) degli anni ’70, in oriente si manifesta attraverso quella che è passata alla storia come l’epoca della “stagnazione” sovietica. In entrambi i casi, le crisi ad essi sottese, sono di natura intrinsecamente sociali, prima che economiche.

La distruzione della “società borghese” e della “società socialista”, sono due fenomeni strettamente connessi e strettamente correlati, che investono un cambiamento generale del paradigma economico globale e che genera un riassetto complessivo degli equilibri politici ed economici mondiali, il risultato del quale è sotto gli occhi di tutti noi, oggi.

La cosiddetta “finanziarizzazione” del capitalismo, significa tutto e non significa niente. Questo perché, aldilà delle categorie strettamente economiche, il vasto processo di mutamento sociale intercorso negli ultimi 40 anni, è significativamente connaturato all’emergere e all’affermarsi di una nuova dimensione politica sovranazionale, classista, che fa dell’attuale panorama sociale ed economico un vero e proprio “mondo nuovo”.

La globalizzazione dei mercati, in realtà è l’affermazione di una nuova classe sociale possidente, contraddistinta, come qualsiasi altra classe sociale storicamente esistita, da proprie istituzioni, da una propria ideologia, da specifici rapporti di proprietà, da specifici rapporti di lavoro.

La divisione mondiale del lavoro oggi, si esprime attraverso non solo nuove forme contrattuali (e di sfruttamento), ma anche attraverso una nuova stratificazione sociale globale, una nuova capacità allocativa, e attraverso la capacità di spostare e diversificare gli apparati produttivi per cui, le entità sociali che possiedono i titoli di proprietà (strettamente intesi) dell’apparato produttivo mondiale, essendo portatrici sempre più di interessi “privatistici” erosivi degli ambiti di intervento pubblico (statale e collettivo) e che abbracciano l’intero agone economico trasversalmente, vanno a strutturare un sistema economico-produttivo capace di allocare le risorse in maniera indipendente dal potere politico classicamente inteso.

Quello che viene oggi presentato come il distacco dell’economia dalla politica, o dell’autonomizzazione delle categorie economiche da quelle della politica, o ancora, della supremazia dell’ordo aeconomicus sull’ ambito politico, in realtà è l’emersione di un “nuovo ordine politico” espressione di un interesse di classe globale trasversale, sovranazionale e transnazionale, che determina una profonda mutazione genetica dei rapporti di forza sociali internazionali.

Il mondo della globalizzazione economica è, dunque, il mondo della Classe Possidente Globale. Vale a dire di quel soggetto storico, espressione di un blocco sociale mondiale determinato, che detiene il Potere e lo esercita attraverso forme e metodologie, istituzioni e prassi sociali, nuove e rivoluzionarie.


(continua) 

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