giovedì 31 marzo 2016

La teoria della Global Class (Classe Possidente Globale).

Classe sociale è la strutturazione gerarchica di uno strato della popolazione in un raggruppamento abbastanza omogeneo, sia da un punto di vista economico (lavoro, casa, vestiario), sia sul versante culturale (livello di istruzione, titolo di studi, cultura generale).


di Francesco Salistrari




Ricomposizione transnazionale di classe.


Il tramonto della borghesia come “classe dominante” (in regime capitalista), è un lungo processo storico, politico ed economico che si è compiuto da qualche decennio, ma che affonda le sue radici negli albori stessi del capitalismo.

Il capitalismo fu sin dall’inizio un “movimento sociale” a grandissimo carattere internazionalista. La formazione di tutta una serie di “borghesie nazionali”, intorno al sorgere politico dello “Stato Nazione”, inteso come “nume tutelare” degli interessi di classe nazionali (imperialismo), fu fin dal principio accompagnata dalla “nascita” di una sorta di “classe borghese transnazionale” che si espresse attraverso varie forme ed organizzazioni, una delle quali può essere rintracciata sicuramente nella cosiddetta “haute finance” di ottocentesca memoria.

Questa classe sociale nascente, benchè suddivisa comunque al suo interno su linee di classe a “base nazionale”, ha sin da subito assunto una chiara fisionomia cosmopolitica, cioè di “politica” (polités) applicata al “mondo” (cosmos). Nella sua visione aperta delle relazioni economiche umane, questa classe sociale, ha infatti espresso i suoi interessi travalicando spontaneamente le diversità culturali e formandosi spontaneamente all’interno di qualsiasi contesto, divenendo interlocutore globale di interessi seppur di matrice “locale”.

Nelle dinamiche storiche intercorse, dalla nascita di questa “classe globale”, le contraddizioni sistemiche e sociali scaturenti dallo sviluppo del capitalismo, fecero di questa classe ciò che Smith fece della “mano invisibile” per il mercato. Cioè vale a dire, all’interno delle contraddizioni nazionali e dello scontro per il controllo delle risorse planetarie, questa classe “sovranazionale”, sovente ha “spostato” i suoi interessi apparentemente in modo funzionale a particolari interessi “nazionali”, ma in realtà ai propri. Gli accordi commerciali, gli investimenti, i finanziamenti, tutta la massa monetaria che questa classe è riuscita a spostare nel mondo nel corso degli ultimi 200 anni, ha in qualche modo sempre contribuito a determinare in maniera fondamentale, gli eventi storici e gli scontri internazionali.

Un metodo capace di gettar luce su questa dinamica, può facilmente essere rintracciato individuando, nei vari tornanti storici, gli spostamenti di capitale mondiale. Cioè, allo stesso modo di come un magistrato che indaghi su un reato, per scoprire i mandanti, gli esecutori e gli eventuali fiancheggiatori, segue la “scia del denaro”, così individuando i flussi finanziari, si individuano un modus operandi e dei “colpevoli”.

Questo per il semplice fatto che l’allocazione delle risorse che questa “classe globale” storicamente ha determinato, è stata capace di spostare gli equilibri politici e sociali di intere aree del pianeta contemporaneamente.

Oggi, con l’avvento del capitalismo globale (finanziarizzato), il peso sociale, economico, politico e militare di questa classe, di fatto, si è enormemente accresciuto, tanto da configurare una nuova sovranità che soppianta, nelle dinamiche del potere, la sovranità dello “Stato nazionale”, un nuovo spazio politico decisionale, capace di indirizzare le scelte di qualsiasi contesto nazionale o regionale.
La capacità di “spostare”, attraverso i mezzi tecnologici moderni, i propri interessi aldilà di qualsiasi confine linguistico, culturale, politico, permette una composizione di classe mai sperimentata in passato. Questo significa che esiste, a partire da un certo momento storico (che cercheremo di individuare in seguito), una nuova dimensione politica.

Ogni classe sociale, storicamente esistita fin qui, ha infatti fondato la propria dimensione politica. Tale dimensione politica, rifletteva la struttura produttiva del tempo e i rapporti sociali ad essa sottesi.
Oggi, la struttura produttiva mondiale (multinazionale) e i nuovi rapporti sociali nati dal crollo della divisione in blocchi del mondo, hanno generato la creazione di una nuova dimensione politica occupata appunto dalla classe globale.

Questa nuova dimensione politica si esprime, naturalmente, attraverso una nuova dimensione ideologica che permea il contesto culturale globale, colonizzando l’immaginario collettivo di sempre più grandi masse di individui. L’unificazione dell’immaginario collettivo non più su basi nazionali e/o regionali, bensì globali, è probabilmente un fenomeno originale, nella storia del mondo, ma se è possibile oggi, lo è essenzialmente perché è solo da qualche decennio che la classe sociale globale ha instaurato una propria dimensione politica autonoma.

Se infatti in passato, molto più di oggi, la mediazione degli interessi della “classe borghese transnazionale” doveva avvenire per ragioni di forza (rapporti) su canali più strettamente nazionali (quindi gruppi nazionali, espressione di interessi di classe nazionali), quindi delimitando fortemente la propria capacità decisionale e politica, oggi, con la modificazione della funzione dello Stato (storicamente esistita), essa si è spostata da ambiti “nazional pubblici”, ad ambiti “internazionali privati”. All’interno della mediazione internazionale privata, con tutte le sue sfaccettature e le sue contraddizioni, la dimensione decisionale politica, assume sempre più carattere “privatistico”, cioè non determinata da dinamiche pubbliche (democratiche, collettive e/o nazionali) e che impone la propria trasversalità ideologica a tutto l’orizzonte sociale mondiale.

Una delle caratteristiche attraverso cui si può individuare questa classe sociale globale, si esprime attraverso le nuove forme di proprietà che lo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni ha determinato. Analizzando infatti la struttura delle imprese multinazionali, delle banche e della finanza mondiale, i nuovi istituti di proprietà sorti dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, prefigurano l’esistenza di una classe possidente globale.

Possidente nel senso letterale del termine.

Tutto ciò che rientra nella categoria socialmente ampia di “merce”, le appartiene. In un’epoca storica in cui la “mercificazione dell’esistente” è un processo il cui grado di sviluppo conosce oggi vette storicamente mai sperimentate, le “proprietà” di cui dispone la classe possidente globale sono talmente estese da occupare la quasi totalità dell’orizzonte esistenziale moderno.

Osservando le ramificazioni dei titoli di proprietà delle imprese, delle aziende, dei titoli azionari, dei consigli di amministrazione (compresi quelle delle grandi banche di investimento, delle banche centrali e degli istituti finanziari), appare evidente come questa classe possidente globale, controlli (più o meno totalmente):

•             Il denaro;
•             La forza lavoro;
•             Le risorse (energia, acqua, minerali, terra ecc.);

Se questo, per le classi possidenti storicamente esistite, avveniva semplicemente su basi nazionali e/o regionali, oggi avviene su scala globale.

La struttura sociale di questa classe possidente globale, si costruisce su base piramidale, attraversata da settori intermedi.

Questo ampio settore sociale globale, rappresenta la cuspide della piramide sociale mondiale. Immediatamente sotto a questo livello, esiste il livello cosiddetto “statale nazionale”, vale a dire, un livello intermedio di classe, che si esprime attraverso linee di classe nazionali, ma in posizione subordinata. La base della piramide è rappresentata da quella che si potrebbe definire “Società bassa”: l’insieme delle masse “produttrici e consumatrici”.

All’interno della Società Bassa, sussistono, com’è naturale, settori intermedi che fungono da collante sociale verso l’alto.

Il Potere politico e la funzione dello Stato.

Come tutte le classi possidenti della storia, anche la Classe Possidente Globale, detiene il potere politico ed esprime tale potere attraverso proprie Istituzioni. Una di queste istituzioni rimane lo Stato Nazionale, che ha completamente mutato la propria funzione rispetto a ciò che ha storicamente rappresentato sino a questo momento.

Il vasto processo denominato “erosione dello stato nazionale”, è un processo storico, sociale e politico che affonda le sue radici nei mutamenti strutturali avvenuti durante il corso degli anni ’70 del novecento a livello globale.

L’emergere del “neoliberismo” come teoria economica fondante dell’azione Statale, in occidente, ha determinato una lenta ma progressiva erosione delle prerogative dello Stato in quanto istituzione di potere, in quanto cioè a dimensione politica (decisionale). Questa erosione, è avvenuta attraverso tutta una serie di mutamenti sociali, giuridici, finanziari che il processo che si è avviato dagli anni ’70 in avanti, ha portato sempre più i luoghi decisionali politici da una dimensione “nazionale” (imperialistica), ad una sempre più internazionale. La nascita di istituzioni transnazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Banche Centrali sganciate dal controllo pubblico (e dalla proprietà pubblica), la nascita di unificazione commerciale di intere regioni (NAFTA, COMUNITA’ EUROPEA ecc), l’abbandono del sistema monetario nato a Bretton Woods, tutto questo, ha progressivamente ridotto l’ambito di intervento (e la proiezione di potenza) dello Stato Nazione in quanto tale, relegandolo al ruolo comprimario di potere tra i poteri.

In qualche modo, è avvenuta progressivamente una “divisione internazionale dei poteri”, in cui quello statale, non è che un livello politico-amministrativo non più “fondante”, bensì intermedio.

Questo processo, con la caduta del muro di Berlino e della società “collettivistico-burocratica” dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, ha subito un’accelerazione prepotente e sebbene qualcuno intravedesse al contrario l’emergere degli Stati Uniti come unica superpotenza statale globale, capace cioè di determinare su linee di interesse di classe a base nazionale, nel medio periodo, ha contribuito ad una pesante limitazione della proiezione di potenza dello Stato Americano (USA). Sebbene, grazie al suo apparato militare, alle relazioni internazionali, evolutesi a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti mantengano una potente egemonia politica, culturale, economica, pur tuttavia, gli interessi transnazionali della frazione americana (statunitense) della Classe Possidente Globale, spesso sono in contrasto con i particolari interessi nazionali espressi attraverso la dimensione politica statale.

Dunque, se da una parte, gli USA, in quanto entità Statale (Nazione), mantengono un ruolo di primo piano, all’interno delle dinamiche internazionali e di scontro intercapitalistico, pur tuttavia, tale ruolo diventa ancillare e funzionale non già ad interessi prettamente statunitensi, bensì trasversali e transnazionali.

In realtà, le varie componenti del potere politico statale, espresso regionalmente e/o nazionalmente, rappresentano più che altro frazioni intermedie di una piramide che si estende anche al di sopra di esse.

Non sono più le forze nazionali, bensì quelle transazionali che determinano l’andamento della geopolitica moderna.

Le guerre, i conflitti, le situazioni di crisi sociale, militare ed economica, sono tutte espressione di fratture interne su linee di classe nazionale che vengono utilizzate, ai fini degli interessi della Classe Possidente Globale, a seconda delle circostanze, delle convenienze, delle alleanze sociali e politiche.
E’ chiaro che all’interno dei vari contesti nazionali, esistano spazi culturali ed ideologici autonomi, che non necessariamente esprimono interessi globali, ma che al contrario fanno da contraltare alle spinte disgregative insite nel meccanismo di distruzione delle entità statali tradizionali.

Laddove esistono governi che si oppongono al dominio incontrastato dei “mercati” (cioè della Classe Possidente Globale), esistono forze sociali capaci ancora di opporre resistenza organizzata e mediazione politica. Laddove questi governi hanno rappresentato un ostacolo troppo ingombrante agli interessi dei “mercati”, sono stati spazzati via dalle guerre che abbiamo vissuto negli ultimi 70 anni.

Le guerre del futuro, la geopolitica del futuro cioè, si giocheranno pertanto sull’eliminazione (o sul tentativo di eliminare) progressivamente tutti quegli ostacoli che restano all’instaurazione definitiva della “dittatura dei mercati”, vale a dire al pieno e totale dispiegamento del potere della Classe Possidente Globale.

La svolta del '68.

Il vasto processo sociale e politico, passato alla storia come il “movimento del ‘68”, ha rappresentato una svolta epocale di portata straordinaria le cui conseguenze e le cui implicazioni non sono state del tutto comprese o indagate. Ferma restando l’immensa produzione intellettuale (analitica, politica, sociologica, psicologica, filosofica) intorno alle cause, agli sviluppi e agli sbocchi del “movimento del ‘68”, l’analisi della quale è indispensabile per comprendere una così particolare congiuntura storica, pur tuttavia il grande portato del “movimento del ‘68” assume, nei confronti dell’individuazione della moderna sovranità politica globale, importanza determinante.

Infatti, l’anno 1968, sebbene anno-simbolo, rappresenta una particolare convergenza di fattori che hanno fatto esplodere le contraddizioni insite nel sistema sociale (e internazionale) scaturito dalla seconda guerra mondiale e ne hanno dato uno sbocco sociale, economico e politico del tutto nuovo.
Un immenso intellettuale come Pierpaolo Pasolini, in modo profetico, nei suoi scritti e in generale nella sua produzione artistica, fu uno dei pochi capaci di cogliere i tratti salienti del “movimento del ‘68”, individuandone significati, processi, sbocchi, conseguenze di lungo periodo.

In effetti, il movimento del ’68, aldilà delle sue manifestazioni politiche e delle sue contraddizioni, sprigionò energie sociali nuove, capaci di modificare lo stato esistente delle cose. Tali energie, lungi dall’essere rappresentate, come Pasolini ben comprese, da un generale riorientamento culturale della società del tempo, in realtà furono capaci di provocare lo sconquasso della “società borghese” minando le fondamenta stesse del “dominio borghese della società”.

Il movimento del ’68, in larga parte, benchè caratterizzato da una polarizzazione ideologica di classe (operaia) e intellettuale (studentesca), fu preminentemente un fenomeno “antiborghese” e solo in maniera marginale “anticapitalista”. Pur in presenza di una forte componente antisistemica, espressa nelle forme organizzative dei movimenti extraparlamentari di matrice marxista, marxiana, veteromarxiana, leninista, maoista o troschista, pacifica o armata, tale componente non fu mai veramente egemonica, né da un punto di vista politico, né ideologico. Il contraltare, rappresentato dal “riformismo istituzionale” incarnato dai partiti, dai movimenti e dai sindacati della “sinistra ufficiale”, rifletteva essenzialmente la struttura sociale esistente e i rapporti sociali internazionali, molto più di quanto gli stessi rappresentanti di queste tendenze credessero o volessero far credere. Da questo punto di vista, il “conservatorismo” di sinistra, espresso da queste formazioni sociali, fu ciò che rese impossibile uno sbocco realmente anticapitalista del vasto movimento cominciato nel 1968.
La messa in discussione della “famiglia”, della “morale”, del “potere” e delle istituzioni in generale, non fu una messa in discussione generale del sistema nel suo complesso, bensì una messa in discussione del “modello borghese” di queste istituzioni, senza per ciò stesso comportare il radicale rifiuto del sistema economico nel suo complesso.

In altri termini, grazie a tutta una serie di situazioni e alla composizione dei rapporti di forza in campo, il movimento del ’68, distruggendo la “società borghese”, con essa, contrariamente alla dottrina marxista allora imperante, non distrusse il sistema capitalista, ma contribuì ad una sua evoluzione sociale, politica ed economica di ampia portata del tutto nuova ed originale.

Molto curiosamente, ma non certo casualmente, proprio mentre in occidente si avviava la “grande stagione della contestazione”, nella parte ad oriente del mondo, vale a dire quella caratterizzata da un sistema statalizzato della gestione economica e del potere, cominciava un processo lento e graduale di sgretolamento del sistema che avrebbe condotto decenni più tardi al ritorno al capitalismo. Sebbene nel mondo sovietico di fine anni sessanta, il “benessere” avesse raggiunto vette mai sperimentate in passato e sebbene sia la tecnica, lo sviluppo scientifico e produttivo, avesse caratteristiche simili a quelle occidentali (da un punto di vista del grado di sviluppo delle forze produttive complessivamente intese), tuttavia, l’impalcatura politica rappresentata dalla ferrea presa burocratica sulla società, divenne un ostacolo prepotente allo sviluppo del sistema.

Questo fatto, determinato da fattori sociali e da fattori strettamente economici, provocò una lenta ma inesorabile messa in discussione generale della struttura economica sovietica. Messa in discussione che si espresse, per quanto riguarda le componenti popolari, in un sempre crescente malcontento e nel rifiuto ideologico del comunismo, mentre per quanto riguarda i vertici sociali, attraverso un sempre più marcato anelito di trasformazione dei rapporti di proprietà e di quelli sociali in direzione di una restaurazione capitalistica.

Le contraddizioni sociali e la lotta tra settori sociali sovietici, ad un certo momento divennero così evidenti attraverso la messa in discussione del fondamento del potere del Partito Comunista (nelle sue varie declinazioni nazionali), per infine produrre al proprio interno quelle forze capaci di generare il cambiamento che si verificò poi alla fine degli anni ’80. Tali contraddizioni, fortemente condizionate dalla situazione internazionale e dai rapporti di forza sociali internazionali, nonché alimentate dalla base popolare del sistema sovietico che anelava un cambiamento, permisero la dissoluzione del sistema sovietico in modo talmente repentino che agli occhi degli osservatori occidentali, tutto il fenomeno per lungo tempo restò un mistero.

La reintroduzione del capitalismo, in una società come quella sovietica, fu un processo politico ed economico di inaudita violenza, capace di lasciare cicatrici e problemi sociali non ancora rimarginati. La dissoluzione sociale sfociata in predazione sistematica delle risorse pubbliche da parte di una “classe borghese nascente”, in realtà figlia diretta della “casta burocratica” al potere tramite i vari Partiti Comunisti nazionali, determinò il più grande e colossale “furto” di proprietà pubbliche che la storia abbia mai registrato, provocando un riallineamento di classe violento e criminale i cui effetti non sono ancora del tutto dispiegati.

Dunque, mentre più o meno nello stesso periodo in occidente, assistiamo da una parte ad un colossale movimento di messa in discussione delle basi tradizionali del dominio borghese della società, ed in particolare dello “stato nazione”, un movimento che dall’alto si esplica attraverso la radicalizzazione delle nuove teorie economiche riconducibili al “neoliberismo” che mettono in discussione il ruolo dello Stato nell’economia, dunque i rapporti sociali sorti dalla seconda guerra mondiale fino a quel momento, dall’altro, in oriente, assistiamo ad un movimento che pur da presupposti del tutto diversi e con forme e contenuti dissimili, pur tuttavia mette in crisi e in discussione anch’esso lo Stato (non solo come proprietario dei mezzi produttivi), con sbocchi del tutto simili (se non perfettamente corrispondenti) a quelli del “neoliberismo” occidentale.

In effetti, analizzando metodologie, tempi e strumenti utilizzati nella reintroduzione del capitalismo nei paesi dell’est ex sovietico, ci accorgiamo immediatamente di come la nascente classe possidente (al sorgere dei nuovi rapporti sociali), sia legata a doppia mandata, non solo per filiazione ideologica, bensì strutturale, alla classe possidente occidentale, che nel frattempo stava guidando la trasformazione del capitalismo occidentale in senso “neoliberista”.

Tutto questo vasto fenomeno, sarebbe più corretto dire processo, conosciuto come “internazionalizzazione dei mercati”, in realtà è rappresentato più che da un semplice allargamento sommatorio di mercati (rimasti separati fino all’esistenza del blocco sovietico), da una vasta composizione di classe su scala globale che mette in discussione le definizioni territoriali, nazionali e sociali fino ad allora esistite.

Gli strumenti attraverso i quali, questo processo si è realizzato, sono di natura ideologica, sociale, politica ed economica.

L’avvio economico di questo processo, che in occidente coincide con l’esplosione delle cosiddette crisi energetiche (shock pretroliferi) degli anni ’70, in oriente si manifesta attraverso quella che è passata alla storia come l’epoca della “stagnazione” sovietica. In entrambi i casi, le crisi ad essi sottese, sono di natura intrinsecamente sociali, prima che economiche.

La distruzione della “società borghese” e della “società socialista”, sono due fenomeni strettamente connessi e strettamente correlati, che investono un cambiamento generale del paradigma economico globale e che genera un riassetto complessivo degli equilibri politici ed economici mondiali, il risultato del quale è sotto gli occhi di tutti noi, oggi.

La cosiddetta “finanziarizzazione” del capitalismo, significa tutto e non significa niente. Questo perché, aldilà delle categorie strettamente economiche, il vasto processo di mutamento sociale intercorso negli ultimi 40 anni, è significativamente connaturato all’emergere e all’affermarsi di una nuova dimensione politica sovranazionale, classista, che fa dell’attuale panorama sociale ed economico un vero e proprio “mondo nuovo”.

La globalizzazione dei mercati, in realtà è l’affermazione di una nuova classe sociale possidente, contraddistinta, come qualsiasi altra classe sociale storicamente esistita, da proprie istituzioni, da una propria ideologia, da specifici rapporti di proprietà, da specifici rapporti di lavoro.

La divisione mondiale del lavoro oggi, si esprime attraverso non solo nuove forme contrattuali (e di sfruttamento), ma anche attraverso una nuova stratificazione sociale globale, una nuova capacità allocativa, e attraverso la capacità di spostare e diversificare gli apparati produttivi per cui, le entità sociali che possiedono i titoli di proprietà (strettamente intesi) dell’apparato produttivo mondiale, essendo portatrici sempre più di interessi “privatistici” erosivi degli ambiti di intervento pubblico (statale e collettivo) e che abbracciano l’intero agone economico trasversalmente, vanno a strutturare un sistema economico-produttivo capace di allocare le risorse in maniera indipendente dal potere politico classicamente inteso.

Quello che viene oggi presentato come il distacco dell’economia dalla politica, o dell’autonomizzazione delle categorie economiche da quelle della politica, o ancora, della supremazia dell’ordo aeconomicus sull’ ambito politico, in realtà è l’emersione di un “nuovo ordine politico” espressione di un interesse di classe globale trasversale, sovranazionale e transnazionale, che determina una profonda mutazione genetica dei rapporti di forza sociali internazionali.

Il mondo della globalizzazione economica è, dunque, il mondo della Classe Possidente Globale. Vale a dire di quel soggetto storico, espressione di un blocco sociale mondiale determinato, che detiene il Potere e lo esercita attraverso forme e metodologie, istituzioni e prassi sociali, nuove e rivoluzionarie.


(continua) 

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