Il “neoliberismo”, lungi dal rappresentare una semplice opzione economica, un semplice modo di intendere i rapporti economici, dunque una teoria puramente economica, è anche e soprattutto una teoria sociale, espressa attraverso una concezione filosofica complessiva della realtà socioeconomica che permea non tanto il livello politico, cioè la struttura di potere dei singoli contesti, ma ne caratterizza soprattutto il livello culturale.
di Francesco Salistrari
L’imporsi a livello globale delle
cosiddette teorie del “neoliberismo”, pur con diverse connotazioni a seconda del contesto regionale, ci porta ad una considerazione generale che difficilmente può essere messa in discussione: il sistema keynesiano di produzione/distribuzione/rapporti di
lavoro, ha praticamente cessato di esistere ovunque nel mondo.
Le nazioni che
ancora oggi praticano le cosiddette “politiche miste”, cioè laddove lo Stato
riveste ancora un ruolo importante, sono delle realtà in cui il blocco sociale
dominante nazionale è un blocco relativamente “giovane”, nel senso che
la sua ascesa al potere nazionale è un fenomeno
abbastanza recente rispetto alle dinamiche generali mondiali.
Questo avviene in forme diverse
in Cina, per la peculiare struttura sociale ed economica, ma avviene in molti
paesi del Sud America, in molti paesi dell’est ex sovietico (in parte anche in
Russia), e in alcuni paesi del Nord Europa non inseriti nei meccanismi monetari
dell’euro.
Questo però non toglie che ampli
settori di queste “borghesie nazionali” siano collegate e integrate
strutturalmente nelle dinamiche di classe della Classe Possidente Globale e
benchè per certi versi rappresentano in parte degli ostacoli al pieno dispiegamento del
dominio di classe globale, generando fattori di crisi, frizioni e contrapposizioni
latenti e palesi, tuttavia la loro “funzione” a livello globale è pienamente
inseribile nel contesto degli interessi globali, di cui la Classe Possidente
Globale è portatrice.
Un esempio di questo, potrebbe
essere rintracciato nella struttura produttiva cinese, dove, sebbene il ruolo
della macchina statale sia preponderante rispetto ad altre realtà, pur
tuttavia, le aziende multinazionali operanti in Cina e collegate con la “classe
burocratica” al potere, fanno parte del più generale apparato produttivo
mondiale di proprietà privata della Classe Possidente Globale.
Investimenti,
rapporti di proprietà, rapporti di lavoro, struttura produttiva, sono
perfettamente integrati al più generale meccanismo dei “mercati” mondiali e
fanno della Cina un paese a struttura capitalistica “neoliberista”, non troppo
dissimile nei funzionamenti macrosistemici a quelli di altre realtà politiche
totalmente diverse.
Ma il “neoliberismo”, lungi dal
rappresentare una semplice opzione economica, un semplice modo di intendere i
rapporti economici, dunque una teoria puramente economica, è anche e
soprattutto una teoria sociale, espressa attraverso una concezione filosofica
complessiva della realtà socioeconomica che permea non tanto il livello
politico, cioè la struttura di potere dei singoli contesti, ma ne caratterizza soprattutto
il livello culturale, esistenziale.
Il corollario sociale del
neoliberismo infatti è ciò che viene conosciuto col nome di “consumismo”, un
fenomeno le cui radici sociali vengono rintracciate fin dai primi anni del
secondo dopoguerra, ma che si è imposto in maniera sistemica, imprescindibile
ai funzionamenti stessi del meccanismo economico, a partire dal tornante
storico cominciato con l’esplosione “sessantottina”, in occidente, e con la
“rivoluzione culturale” e la “stagnazione” in oriente.
Il “consumismo” è un fenomeno, prima che
economico in senso stretto, soprattutto ideologico. Ideologico nel senso che
nasce e si sviluppa sulla scorta di una nuova concezione ideologica del mondo,
dei rapporti sociali e della politica che si strutturano a partire dalla fine
degli anni ’60 in poi. E’ un fenomeno
principalmente ideologico, perché sia in occidente, sia in oriente,
contribuisce alla distruzione delle società “tradizionali”, venute fuori dalla seconda guerra mondiale.
L’omologazione culturale sottesa al fenomeno del consumismo, la sua
totalizzante espressione del reale e dei comportamenti collettivi, il suo
essere espressione di sottesi cambiamenti strutturali di livello sociale ed
economico, ne fanno più precisamente l’epifenomeno dell’instaurazione di un
nuovo ordine economico e politico nuovo, sostanzialmente rivoluzionario.
La modificazione permanente degli
stili di vita, delle abitudini e delle tipologie di consumo, l’instaurazione di
un complesso sistema di “manipolazione mediatica” di questi ultimi, l'abbandono del concetto di "consumo da sussistenza", l’allargamento della
base produttiva mondiale e delle capacità di spesa da parte di sempre più ampi
settori della popolazione mondiale, sono solo alcuni tratti di questo
epifenomeno sociale.
L’ideologia sottesa al consumismo
è quella della “crescista”, cioè della crescita illimitata di produzione e
consumi, sottesa al più generale impianto “neoliberista”, all’interno però di
un quadro generale di modificazione complessiva dei rapporti sociali.
Un contributo particolare e molto
significativo all’instaurazione di questa nuova ideologia come orizzonte di
senso del mondo moderno e contemporaneo, non a caso venne proprio da una delle
organizzazioni mondialiste più famose, e meno conosciute, della storia: la
Commissione Trilaterale.
E’ del 1975 l’uscita di un testo
molto interessante partorito da questo importante cenacolo intellettuale
transnazionale, dal titolo “The Crysis of Democracy” (La crisi della
democrazia), che da un punto di vista estremamente originale e significativo,
analizza i possibili (e auspicabili) sviluppi del sistema “democratico”
occidentale (e de relato globale).
Questo testo appare illuminante
per tante cose. Innanzitutto al suo interno è codificata la nuova ideologia
politica ed economica che si sta imponendo e che la nascita della
“contestazione sociale” della fine degli anni ’60 ha potentemente favorito, non
solo come “reazione”, ma soprattutto come sbocco politico. I punti salienti del
contributo, sono rappresentati da alcuni concetti-chiave espressi in maniera
poco pedante e incredibilmente concreta e lucida.
Tali concetti-chiave, saranno
l’architrave portante delle politiche mondiali di integrazione economica che
partendo da quegli anni e passando attraverso il crollo del blocco sovietico,
disegneranno il mondo così come lo vediamo oggi.
Partendo dal presupposto che il
“socialismo reale” non fa parte dei fattori di crisi della “democrazia”, non
rappresentando più un pericolo di involuzione collettivistica globale, ma
avviandosi ad un rapido tramonto, l’analisi del “libello”, pone alcune
questioni fondamentali, la prima delle quali è senza dubbio quello dell’apatia
delle classi popolari. Il concetto di “apatia” viene usato in maniera
tutt’altro che dispregiativa, anzi elevandolo a concetto stabilizzante della
governance “democratica” e ritenendolo assolutamente necessario all’esercizio
del potere e al funzionamento stesso del sistema politico. In altre parole, la
NON partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, in quote sempre maggiori,
garantisce una più equilibrata gestione del potere, una più corretta
allocazione delle risorse ed una dialettica sociale meno traumatica e più
convergente.
Da questo punto di vista, “The
Crysis of Democracy”, si spinge ancora più in là, introducendo il concetto di
“governabilità” in maniera del tutto nuova rispetto al concetto tradizionalmente
inteso. In questo senso, la “governabilità” viene completamente sganciata dalla
“democraticità sostanziale” del sistema e viene al contrario auspicata una
stabilità democratica sostanzialmente senza democrazia (o con una democrazia
ridotta ai minimi termini).
Particolare interessante, la
prefazione all’edizione italiana del testo è ad opera di Giovanni Agnelli,
magnate della Fiat, probabilmente il più potente e influente imprenditore del
“capitalismo italiano” per più di un quarantennio, nonché espressione migliore
di quella “classe borghese transnazionale” che aspirava all’emancipazione. In
questo senso, le parole di Agnelli, a presentazione del testo di Crozier,
Huntington e Watanuki, sono emblematiche.
Agnelli individua in tre fattori
principali le “minacce” allo stato democratico, suddividendoli in tipologie. La
prima tipologia è di carattere “contestuale”, la seconda di “strutturale”, la terza di carattere “intrinseco”.
Analizziamo brevemente le
posizioni del ricco imprenditore italiano.
Le minacce di tipo “contestuale”
rispecchiano la situazione economica e di politica internazionale, come minacce
militari esterne, penuria di materie prime, inflazione, instabilità monetaria,
le quali per essere disinnescate necessitano della giusta organizzazione
dell’interdipendenza economica e della sicurezza.
Per quanto riguarda le minacce di
tipo “strutturale”, Agnelli individua nella cultura “antagonista”, una minaccia
rilevante proveniente dagli strati intellettuali della società e dai gruppi ad
essi collegati che si contraddistinguono per la loro avversione “ideologica”
alla corruzione, al materialismo e all’inefficienza della democrazia, nonché la
subordinazione del sistema democratico al capitalismo monopolistico.
Infine, le minacce “intrinseche”,
sono quelle più gravi e pericolose. Più democratico è il sistema, più le minacce
intrinseche sono gravi, riflettendo il funzionamento stesso della democrazia.
In altre parole, per poter funzionare bene e al riparo dai pericoli
disgregativi, Agnelli è convinto che il “sistema democratico” debba essere il
meno democratico possibile, bilanciandosi sulle altre tendenze di segno
opposto.
E’ per questo motivo che la
questione della “governabilità”, secondo Agnelli riveste una fondamentale
importanza.
Appare davvero interessante come
poi i tre autori elaborino le loro “soluzioni”, proponendo una cura per la
malattia della democrazia che presuppone, di fatto, meno partecipazione e
dunque meno democrazia. Ma aldilà di questo, la questione di organizzare in
maniera concreta e razionale l’integrazione delle economie come baluardo alla
spinta “dissolutiva” delle correnti cosiddette antagoniste, appare, nelle
concezioni di questa élites di intellettuali, professori, manager,
imprenditori, capi di stato, ministri, finanzieri ed economisti che si
riuniscono intorno alla Trilaterale, come uno dei punti cardini del proprio
ragionamento politico. Infatti, l’invito ad accelerare quanto più possibile
l’integrazione europea per sottrarre ai vari apparati statali i centri
decisionali di politica economica e sociale e spostarli in istituzioni
“lontane” da quei popoli all’interno dei quali vive la “contestazione” e si
sviluppa sempre più una richiesta generale di maggiori garanzie, maggiori
diritti e maggiori libertà, è talmente esplicito che, considerando l’attuale
impalcatura europea, i suoi meccanismi, chi detiene le fila delle decisioni
politiche ed economiche, come vengono implementate nei vari contesti nazionali
e il ruolo ancillare che, a parte qualche sporadico esempio, hanno assunto i
vari governi nei confronti della governance europea, le posizioni espresse in
“Crysis of Democracy” apparirebbero quasi profetiche, se non fosse che si
trattasse di vere e proprie direttive.
La considerazione generale
infatti che si può tentare è che quel “cenacolo” di potere che si raggruppa
attorno alla Trilaterale e ad altre istituzioni simili, non solo ha le idee
molto chiare sugli sviluppi in atto e sulle auspicabili direzioni da seguire,
ma soprattutto che, una volta formulate le analisi, esista poi una volontà
generale perfettamente capace di realizzare quelle visioni, di renderle
operative, di indirizzare lo svolgimento dei fatti salienti e delle decisioni
politiche decisive.
L’esempio della Trilaterale è
infatti emblematico di come, aldilà dei confini e delle differenze politiche,
esista una capacità di analisi e una capacità politica che non rimane sulla
carta, espressione volatile e pedantesca, bensì si concretizza nella realtà in
modo omogeneo e determinato e tali capacità si esprimono
attraverso queste “istituzioni” non ufficiali, dimostrando come un blocco di
interessi di livello globale ha la capacità di organizzarsi, di strutturarsi e
far valere le proprie pretese.
Non è un caso, infatti, che dopo
quel 1975 e l’uscita di “Crysis of Democracy”, le svolte epocali che si
determinarono di li a poco, nelle linee di fondo, ricalcavano quella
impostazione e quell’ideologia. Da quel momento in poi, non solo il processo di
integrazione europea subì una fortissima accelerazione, ma con l’avvento al
potere negli Usa e in Inghilterra dell’ex attore hollywoodiano Reagan e della
miss lady di ferro Margareth Thatcher, si avviò una nuova stagione politica che
sancì l’uscita delle teorie “neoliberiste” dalle aule e dai seminari
universitari, per farsi prassi economica e politica nella realtà sociale
concreta.
Non a caso, in quegli anni, le
teorie dello “stato minimo” alla Robert Nozick e la messa al bando del keynesianesimo
come modello economico di riferimento, coincidono con quella storia tutta
particolare che molti conoscono come gli “shock petroliferi”. Un evento
politico che spinse tutti i recalcitranti, i conservatori e gli scettici nelle
braccia del “neoliberismo” che in brevissimo tempo divenne la religione
ufficiale della modernità capitalistica.
La brusca sferzata che le crisi
energetiche degli anni ’70 diedero a tutto il mondo politico occidentale,
favorì in maniera decisiva un cambio radicale dei paradigmi economici e delle
politiche economiche dei vari contesti nazionali, sancendo la fine di un’era e
l’inizio di una nuova.
Il varo dello SME (padre
dell’Euro) in Europa, l’abbandono del sistema monetario di Bretton Woods e
l’introduzione del sistema a “moneta fiat” (cioè non agganciata all’oro e con
cambi liberi e variabili), il progressivo smantellamento del welfare state come
modello di compensazione sociale, l’abbandono dei sistemi di indicizzazione dei
salari, le nuove politiche energetiche e industriali, la riorganizzazione del
lavoro di fabbrica, lo sganciamento del potere di emissione monetaria da parte
delle banche centrali da quello politico, sono tutti aspetti di una strategia
univoca, predeterminata, lucida, potente, che si innestò in un momento storico
e sociale che, proprio mentre i movimenti sociali subivano un naturale
“riflusso” e in alcuni contesti nazionali come l’Italia ciò conduceva lo
scontro a radicalizzarsi in “lotta armata”, il potere occidentale marciava in
una direzione completamente diversa, ma comunque nuova, rispetto alle aspirazioni “antagoniste”
che preoccupavano così tanto Gianni Agnelli.
Lasciando da parte le varie
peculiarità nazionali, è evidente come la capacità di immaginare un futuro
diverso, di prevedere sviluppi e situazioni, di indirizzare lo sviluppo sociale
e politico in direzioni ben precise, di “giustificare” determinate scelte
anziché altre, da parte delle élites del potere globale, furono fattori
decisivi. La cementificazione ideologica, l’armonizzarsi delle differenze e dei
contrasti, la capacità dialettica tra le varie posizioni e i vari interessi, la
prontezza delle soluzioni, la capacità di indirizzare le risorse e le forze
laddove servisse quando servisse, la capacità manipolatoria e l’abilità nello
sfruttare gli eventi storici e sociali funzionalmente ai propri disegni, furono
tutte cose che in quegli anni, le élites globali riuscirono a ottenere e
concretizzare in maniera decisiva.
Una Classe Globale, prendeva
coscienza di sé e per la prima volta nella storia era diventata potenzialmente
capace di indirizzare i destini del globo e di esserne consapevole.
Istituti come la Banca Mondiale,
che era stata determinante nella ricostruzione post-bellica, nella
decolonizzazione e divenne importante nel trapasso al capitalismo dell’est
sovietico; come il Fondo Monetario Internazionale; come l’Organizzazione
Mondiale del Commercio (WTO) fondata nel 1995 proprio mentre l’Europa si
determinava attraverso il Trattato di Maastricht e il mondo ex sovietico si
avviava all’esperimento “neoliberista”; divennero strumenti essenziali nelle
mani di quella che, nei tornanti storici degli anni ’60 e ’70, si era scoperta
una vera e propria classe sociale internazionale, portatrice di interessi
condivisi e che esisteva un nemico comune da combattere a tutti i costi: non
più il comunismo che, come ideologia si avviava al tramonto definitivo, ma
la democrazia in quanto tale.
Fu proprio a partire da quel
fatidico decennio degli anni ’70 che, laddove esisteva, la democrazia fu messa
in discussione e subì una profonda e costante involuzione, mentre laddove non
esisteva, veniva persa definitivamente la possibilità di essere instaurata. Non
solo venne completamente bloccata la possibilità di un’evoluzione spontanea da
forme democratiche di stampo “classico”, vale a dire borghese parlamentare di
tipo liberale, a forme più avanzate di governance politica, ma venne
altresì compromessa la possibilità di un’evoluzione democratica di quei
contesti regionali nei quali la democrazia parlamentare non aveva mai
attecchito, configurando una mappatura della cartina geopolitica mondiale in
cui, oggi, la democrazia (laddove esista) appare ormai solo l'orpello formale di governance autoritarie.
(continua)
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