mercoledì 23 aprile 2014

Manifestazione Regionale 10 Maggio Cosenza.



E’ sempre un buon momento per far valere le ragioni collettive contro quelle di pochi speculatori. Dopo diciassette anni di emergenza e regimi commissariali, la problematica del ciclo dei rifiuti è così intimamente legata a questioni ambientali, economiche e sanitarie, che non c’è più bisogno di un momento significativo per rivendicare il diritto di poter vivere in un territorio salubre e gestito con criteri di trasparenza e partecipazione.

La gestione in emergenza dei rifiuti ha avuto, come conseguenze, un indebitamento progressivo degli enti pubblici, l’inquinamento sistematico del territorio, spesso divenuto insalubre e inadatto alle attività umane e animali. Il consolidarsi ed il reiterarsi all’infinito di una situazione problematica alla quale non si trovano, e non si vogliono trovare, altre soluzioni che non siano l’apertura di nuove discariche, l’ampliamento di quelle esistenti (o non meglio identificati centri di stoccaggio), il conferimento all’estero e l’incenerimento, determinando costi sempre crescenti. Costi che diventano addirittura insostenibili in periodo di crisi di sistema come quella che stiamo vivendo, nella quale lo stesso processo di
indebitamento delle pubbliche amministrazioni produce un costante inasprimento delle politiche di austerity. 


La gestione, palesemente clientelare del territorio, viene pagata cara anche in termini di agibilità democratica della popolazione che, sempre in ragione dell’emergenza, si vede volutamente privata della propria capacità di esercitare e far valere il diritto alla salute e all’abitare il proprio territorio.

Un progressivo consumo di suolo riduce non solo gli spazi agricoli ma anche le prospettive economiche future, disincentivando gli investimenti di energie nella terra, con pesanti ripercussioni sui lavoratori del settore agricolo, ittico e turistico, provocando abbandono e spopolamento.


Il debito ambientale che stiamo contraendo, vista la superficialità con la quale vengono rilasciate autorizzazioni e permessi, diventa insopportabile per noi ma soprattutto da chi verrà dopo di noi; in ogni provincia ci sono porzioni di territorio compromesse dagli esiti di conferimenti illegali in discariche – spesso non a norma e ripetutamente sottoposte a sequestro giudiziario – il tutto aggravato da provvedimenti normativi straordinari che consentono di smaltire il rifiuto non trattato, sempre in nome di un’emergenza, ultradecennale e ciclica, che giustifica l’eccezionalità e l’urgenza di tali provvedimenti.
E’ chiaro che le cose così non possono e non devono continuare; bisogna andare nella direzione di un progressivo abbandono del sistema discarica-inceneritore, dell’attuazione della raccolta differenziata spinta porta a porta in ogni comune,un sistema di gestione ispirato quindi alla strategia “Rifiuti Zero”.


Rimettere la gestione in mano ad aziende speciali che attendono al diritto pubblico, sfiduciando una volta per tutte la favola de “il privato conviene”, perché è nello sfacelo che viviamo la migliore prova del fallimento di questo sistema. Nel conto finale devono essere annoverati anche gli interramenti, le discariche abusive e gli affondamenti “anomali”, tra ferriti di zinco, fanghi tossici, scorie radioattive e sostanze cancerogene d’ogni sorta di provenienza ignota, o troppo nota, la terra calabra in particolare e il meridione in generale, si presenta come un territorio bisognoso di urgenti e improcrastinabili bonifiche.


Davanti ad un tale scenario, chiediamo che si restituisca dignità al territorio e a chi lo vive; il rispetto della volontà popolare che ha sancito con il referendum del 2011, la gestione pubblica dei beni comuni e dei servizi a rilevanza collettiva; l’introduzione di forme di trasparenza e partecipazione diretta della popolazione nelle scelte più delicate, la desecretazione di tutti gli atti della “Commissione parlamentare sul ciclo di rifiuti” che riguardano la nostra regione e la formazione di un registro tumori regionale con localizzazione dei rilevamenti su scala comunale.
Non lanciamo appelli alla politica, onde evitare di cadere nel ridicolo. Diciamo invece apertamente che chiunque aspiri ad amministrare i nostri territori, dai sindaci fino al ‘governatore’, deve mettere al primo posto la messa in sicurezza dei siti contaminati, la gestione pubblica dei servizi, la trasparenza e la partecipazione popolare.


Le persone non sono cieche e lo hanno dimostrato in questi ultimi tempi, nei quali l’esasperazione ha fatto si che si formassero comitati spontanei che sono poi riusciti a inceppare il meccanismo di aggressione e speculazione presente fuori dalla porta di casa.
Proprio da queste esperienze nasce l’esigenza di una mobilitazione per ristabilire i principi base di un agire democratico.



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MATERIALI: locandina – testo volantino

domenica 13 aprile 2014

Manifestare la violenza

Non basta più gridare la volontà di cambiamento, bisogna rivoluzionare gli strumenti di lotta.

di Francesco Salistrari



Ancora scontri con la Polizia. Ieri a Roma. Di nuovo guerriglia tra manifestanti e poliziotti, di nuovo l’eterna guerra tra poveri voluta e cercata dai tanti che hanno interesse solo a che le proteste finiscano in massacro, che le idee vengano cancellate dal dibattito, che quello che resti, di una manifestazione, siano solo gli schizzi di sangue ed il disgusto.

Basta!

Il mondo è cambiato. E’ cambiato tutto. La sacrosanta protesta di un popolo contro le ingiustizie, i soprusi, i diritti negati, la protervia e la corruzione del potere, non può non cambiare con esso. Pena l’annientamento, l’annichilimento, la sconfitta, l’oblio.

Gli anni Settanta sono finiti. Non si può più continuare ad usare gli strumenti e i metodi di lotta di un’epoca passata, seppellita sotto un cumulo di cambiamenti che hanno stravolto rapporti di forza e condizioni sociali, abito mentale ad un intero corpo sociale, che hanno mutato le stesse risposte del potere.

Il corteo, la manifestazione, la sfilata di protesta, intese classicamente, non servono più a nulla. Per ragioni pratiche, prettamente pratiche, ma anche teoriche, ideologiche.

Per prima cosa è indubitabile che “contarsi” in mezzo ad una strada, prestabilita dalle autorizzazioni prefettizie, è solo un modo per incanalarsi nei percorsi di un macello a cielo aperto. E’ indubitabile altresì che ormai, mancando potenti organizzazioni sociali capaci di un servizio d’ordine degno di questo nome, infiltrazioni e provocazioni diventino talmente semplici che ogni volta, in ogni manifestazione, si assiste alla stessa scena: gruppo ristretto di scalmanati che scatenano la violenza, attesa da parte delle forze dell’ordine e poi carica indiscriminata, mentre nel frattempo gli iniziatori della violenza si sono già dileguati.

Ma un’altra ragione pratica, forse ancora più importante, che boccia la metodologia del corteo di protesta è che, nei fatti, è perfettamente inutile rispetto agli obiettivi delle proteste, a meno di numeri oceanici capaci di spostare i rapporti di forza in campo, e nessuna manifestazione oggi nel nostro paese sarebbe capace di farlo.

Viviamo in un’epoca di fascismo latente, subdolo, in cui non esiste possibilità democratica di cambiare le cose con gli strumenti classici delle epoche passate.

Non esiste la possibilità concreta di incidere realmente sulle dinamiche decisionali, che si estrinsecano lontano dai luoghi sociali e dalle stesse istituzioni rappresentative. E’ per questo motivo che le sacrosante proteste e l’energia che le genera vanno incanalate in altre direzioni, attraverso altri metodi, nuovi e realmente rivoluzionari.


In secondo luogo, la manifestazione di protesta ha perso la sua capacità incisiva anche da un punto di vista ideologico. In un’epoca di apatia e omologazione come quella in cui viviamo, non è più possibile pensare che la solita, piccola, avanguardia politica sia capace di accendere le coscienze e spingere le persone alla consapevolezza e di conseguenza alla lotta. Non basta più. Del resto le immagini, super pubblicizzate, degli scontri, il messaggio subliminale dell’inutilità della protesta, sono dei potentissimi strumenti anestetizzanti e controfunzionali alla necessità partecipativa di pur ampie fette di popolazione.

E’ pertanto venuto il momento di cambiare. Perché non basta più gridare la volontà di cambiamento. Un cambiamento che va attuato anche rispetto agli stessi strumenti di lotta. Per spezzare una catena altrimenti indistruttibile.

Già a partire dalle stesse formazioni politiche che, da pompieri, tengono le persone ferme, immobili, incoscienti, mistificando la realtà a proprio uso e consumo e difendendo interessi precisi, è necessario cambiare il tiro delle proposte e di conseguenza della protesta, facendolo in maniera trasversale, così da colpire al cuore la cappa che i partiti politici impongono alla società.

Nel nostro paese è chiaro, chiarissimo, come la vera nuova Democrazia Cristiana, il PD, insieme agli altri partiti, proponendo una versione uniforme e indistinguibile di un mondo possibile, una visione omologata e omologante, figlia e difenditrice degli interessi che governano il mondo e l’Italia, tiene a bada, ferma e immobile una grandissima fetta di popolo che, al contrario, avrebbe tutto l’interesse a ribellarsi. Tutto un popolo che avrebbe la possibilità non solo di reclamare qualche diritto negato, qualche aumento salariale, qualche avanzamento sociale, ma che pretenderebbe il ripristino della democrazia, ormai sospesa, illusoria e mistificatoria. Che chiederebbe a gran voce un modo diverso non solo di intendere la politica, ma gli stessi rapporti sociali.

E’ a quel popolo che bisogna rivolgersi. E non lo si può fare più, con la “chiamata alle armi” della manifestazione. Non solo perché, come detto, narcotizzato dalla politica partitica, ma anche perché la forma a cui la manifestazione si richiama non è più appetibile, in quanto percepita come fallimentare, inutile e dannosa.

Bisogna dunque ricercare nuove forme di coinvolgimento sociale, trasversali, nuove forme di protesta, nuovi strumenti capaci di rendere realmente incisive le rivendicazioni. E questo può farsi solo attivandosi in maniera radicalmente diversa, nelle pieghe della società, attraverso azioni concrete di penetrazione, di messa in discussione dei cardini su cui poggia il sistema.

Forme di disobbedienza civile, fiscale. Forme di boicottaggio. Proposizione di nuovi modi di intendere, nella pratica quotidiana, il consumo (di suolo e di prodotti). Proposizione di nuovi strumenti di solidarietà sociale che mettano a nudo le crepe di quello che resta dello Stato Sociale distrutto dalla politica neoliberista.

Bisogna darsi obiettivi e ricercare forme radicali di messa in discussione delle certezze e delle stesse basi su cui poggia il consenso sociale ai partiti politici reazionari che governano il paese, mettendone a nudo, nella pratica quotidiana, le contraddizioni e le magagne.

Quello che deve emergere è una concezione nuova non solo di fare politica, ma una prospettiva. Le manganellate e gli arresti per strada non propongono alcuna prospettiva. Se non quella della sconfitta e della ritirata sociale.

Dalle pieghe della protesta deve germogliare prepotente un modo nuovo di intendere il mondo, i rapporti sociali e la stessa produzione. 





Foto di Sebastiao Salgado ®, Scontri fra minatori e autorità in Serra Palada, Brasile, 1986

venerdì 11 aprile 2014

L'ingiustizia di chiamarsi Cristo.


di Francesco Salistrari.

Una manciata di polvere, di terriccio portato dal vento e un filo di luce.

Quello che getta un’ombra su questa umanità stanca e le sue contraddizioni. L’ombra millenaria di un corpo martoriato, umiliato, seviziato dall’indifferenza e dall’oblio. Ucciso una e mille volte. 
Crocifisso inutilmente.

Quel sangue scuro che ha bagnato la terra, a poco è servito. Quelle parole usate come spada, spuntate e arrugginite, ora, giacciono a terra, tra quella polvere, insieme ai responsabili.

Hanno edificato imperi in suo nome e massacrato popoli sotto i suoi vessilli. Hanno edificato bugie e oppressione sotto la sua croce, eppure lui, è stato sempre lì. Il suo corpo martoriato, amputato, seviziato, sotto lo scampolo di un sole ipocrita. Eppure lui è rimasto per millenni, sepolto, sotto coltri di bugie, calpestato da eserciti di malaffare che hanno lucrato sul suo oblio. Eppure lui è stato sempre lì, sotto i nostri occhi, senza possibilità di indicarci quella via che già aveva tracciato, ma che nessuno ha seguito.

“Non sono venuto a portare pace, ma una spada”. (Mt. 10,34b) e tutti coloro che quella spada, dopo di lui, l’hanno sfoderata, sono svaniti nel sangue, seppelliti sotto le macerie della storia. Di una storia che qualcuno ha voluto raccontare, senza conoscere alcunchè dell’uomo che si era ribellato al potere e perciò punito.

Un uomo potente, un uomo, nel senso vero della parola. E potenti le sue gesta, il suo esempio, le sue parole, capaci di riecheggiare comunque prepotenti nei millenni, tra stoffe vellutate e ori. Un uomo potente che si schierò al fianco dei deboli e promise loro il cielo.

Ma… “Non osare, o potente, schierarti al fianco di chi potere non ne ha” (Sant’Agostino).

Il suo sacrificio non ha salvato l’umanità, ma l’ha dannata. Nei secoli dei secoli.

Condannata da sé stessa a percorrere la strada della perdizione. A sconvolgere il senso dell’esistenza. A fraintendere totalmente qual era il compito assegnatole in questo mondo.

Quel corpo martoriato, roso dal tempo, non è Cristo, ma siamo tutti noi.



(foto: Antonietta Bonanno ®)

domenica 6 aprile 2014

Vestito d'Arlecchino.

di Francesco Salistrari

Il passo incerto del viandante ramingo che mi accompagna da sempre, è tutto ciò che ho.

E trovo il senso del mio vivere in questo vagare, quasi senza meta, ma con una destinazione precisa. Che conosco, che ho sempre conosciuto e che nessuno mi ha insegnato.

Ovunque vada, qualunque cosa tocchi, qualunque odore avverta, me li porto addosso. Cuciti come tessere di mille colori in un vestito d’arlecchino di stoffa pregiata, che mi regala una sembianza, una storia da raccontare ad ogni piè sospinto, un granello da condividere al vento, un canto da intonare.

Camminare in questo mondo appare spietato, quasi crudele. Non c’è pace, non c’è comprensione, non esiste lingua condivisa. E così, tutto sembra condannarti, piegarti, illuderti, umiliarti. E queste gambe, non sorreggono il peso dei giorni, delle tempeste, del freddo e della miseria.

Incedere diventa difficile, sovrumano. Eserciti di imbecilli assassini, son lì a ricordarti ogni istante quanto vano possa essere credere in qualcosa di bello. Ed anche un fiore, muore appassito senza un perché.

Eppure le mie spalle sono forti, quasi possenti, dinnanzi allo spettacolo tremendo che mi offre questo tempo. Forti, delle carezze ricevute. Forti, dei sorrisi regalati. Possenti per il tempo che mi è stato concesso di vivere con voi.

Ogni sguardo, ogni espressione, ogni mano gentile, ogni profumo, ogni sapore c’ho incontrato, me li porto addosso e ne custodisco la ricchezza come scrigno miracoloso. Perché non esiste valore alcuno al mondo, se non quello incalcolabile, inestimabile, rappresentato dalle persone che si è incontrato sul proprio ciglio di strada.

Siete tutti voi che fate di me ciò che sono.

Qualunque cosa voi mi abbiate donato. Qualunque cosa mi riserberete.

Ode a voi, miei compagni di viaggio, amici di frontiera, fuggiaschi inconsapevoli, anime belle, dolci fratelli e sorelle che ho amato ed amo.

Un giorno, forse non lontano, forse ancora d’avvenire, chiederemo conto, insieme, del male fatto a Madre Terra da tutti coloro che del proprio vestito d’arlecchino hanno fatto scempio e stracci.

Un giorno, forse non lontano, chissà, vestiremo il mondo della luce sincera che ci ha fatto innamorare.

sabato 5 aprile 2014

Anime di plastica.

di Francesco Salistrari.


Simili a sentieri inespressi.

Forse non c’è posto per noi, in questa vita, in questo mondo di plastica. Dove anche le gocce d’acqua hanno natura industriale.

Siamo complici, certo. Fin dalla nascita. Generazione di mezzo, di un tempo di mezzo. Un ponte che si apre su un futuro dove non c’è posto. Non c’è spazio per le idee. Le idee esistono già, preconfezionate, industriali anch’esse, simili a congegni meccanici con l’autodistruzione incorporata. Replicate. Replicanti. Adatte ad un mondo di replicanti.

E’ come una cappa di piombo sulle coscienze. Pesante. Inquinante. Tossica. Che schiaccia le menti e le costringe a pensare nell’unico modo accettabile: in prima persona.

E sfugge un sorriso a considerare cosa possa essere una persona. Un niente galleggiante, un pozzo di intenzioni inespresse e inesprimibili, un accumulo di emozioni incondivisibili, atone, impalpabili come vento.

Senza toccarsi non si può esistere. Non esiste senso per una pelle che non si può accarezzare, non esiste senso per due labbra che non si possono baciare.

Il cibo di cui si nutre l’anima, è intorno a noi. Sono quegli occhi che ci guardano e ci chiedono un perché. Sono il sorriso di un bambino che gioca. Sono la bellezza di quella natura dalla quale proveniamo.

Siamo acqua. Non plastica.

Ma restiamo esposti nelle vetrine, manichini, ben vestiti ed eleganti, belli, perfetti, con gli occhi senza vita. Riflessi di un riflesso di una grandezza perduta. Disgregata da un odio prepotente, viscerale, virale, epidemico.

L’umanità è malata di sé stessa. Di quell’immagine che essa stessa si è attribuita, unilateralmente, senza il coraggio di chieder permesso a Dio, pur fingendo di pregarlo ogni giorno.

Il lato oscuro della Luna è il nostro mondo. Quello che ci siamo scelti. Illuminato dalla nostra elettricità.

Non ci resta che pagare le bollette.


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