domenica 2 settembre 2012

La futilità dei viaggi spaziali.


DI GIUSEPPE GORLANI
arianneeditrice.it


Leggo sempre con attenzione gli articoli di Massimo Fini, di cui apprezzo l’intelligenza e l’indipendenza di pensiero. In genere condivido quanto scrive, ma nell’articolo L’ultimo uomo sulla terra” c’è una sfumatura sulla quale dissento: «Sì, è vero, l’abbiamo guardato tutti, in quella magica notte del 20 luglio 1969, l’approdo del primo uomo sulla Luna»; ebbene, non è vero che “tutti” si trovassero davanti alla televisione ad ammirare il patetico evento dell’allunaggio americano. Non so quanti giovani disertarono volutamente lo storico appuntamento, ma quel che posso dire con certezza è che personalmente non lo guardai. 
Nonostante a quei tempi avessi 23 anni, mi era già chiaro come lo strumento televisivo non potesse che veicolare falsi miti e menzogne. La modernità si era ormai pienamente manifestata, anche se non aveva ancora raggiunto gli esiti disastrosi attuali, e chi aveva orecchie per intendere ne poteva percepire il ghigno distruttivo, nichilista ed agnostico, invano occultato dalle numerose maschere del buonismo evolutivo e democratico.
A quei tempi stavo giusto terminando un volumetto di prose poetiche intitolato “Anatema”, che rimase inedito per diversi lustri; nell’ultimo capitolo, il XVI, scrivevo: 
«Giornali, televisioni, città, cartelli, mamme con i loro bambini, bambini con i loro giocattoli, alcune lucertole impiccate per gioco ai bordi dell'autostrada, le storie truccate che si trovano scritte sui libri delle scuole, prigioni dell'intelligenza, e il basso, torbido sguardo dell'uomo che è tanto più feroce quanto più vasto è il suo ignorare: caleidoscopio di crudeltà inimmaginabili entro cui vago trattenendo il respiro, talvolta crollando esasperato dall'insopportabile fermezza di questo sapere, ma sempre a cavallo della lama del sangue che viene sottinteso o taciuto, o addirittura bandito dalla tavola dell'onesto. […] Rinnego totalmente l'occidente, questa parte del mondo in cui regna la fretta e dove gli uomini vivono le proprie vite come carni da macero e dove capelloni, vecchi, studenti, impiegati, ladri, poeti, prostitute e signore, tutti quanti insieme, non sanno far altro che esultare e abbracciarsi perché due stronzi camminano sulla luna.
Rinnego senza esitare «l'Europe aux anciens parapets», quest'insondabile e vecchio animale dove solo con estrema fatica possono, di tanto in tanto, crescere vagabondi straccioni illuminati; patria di centenarie generazioni d'ombra, su di essa io sputo e sopra la sua carcassa di vecchie e ridicole glorie, in attesa di andarmene lontano».

Il “lontano” mi si sarebbe rivelato di lì a poco nella forma dell’attracco, propiziato da alcuni viaggi in India, ai moli felici della metafisica upanishadica e della atemporale sapienza shivaita.
Mentre la televisione trasmetteva l’allunaggio, stavo passando davanti al bar di Giavotto, in piazza De Ferraris, a Genova, e mi colpì l’entusiasmo pressoché unanime di contestatori e contestati, di anticonformisti e conformisti. Alcuni anni prima, non so quale imbecille, dopo aver elencato dal piccolo schermo le “eccelse” mete a cui scienza e tecnologia ci avrebbero permesso di accedere entro tempi brevi, concluse osservando: «Ora si tratta di stabilire se l’uomo dovrà accettare di rimanere un piccolo uomo in un grande universo, o se sceglierà di essere un grande uomo in un piccolo universo». Quale bestialità! Qualunque persona, dotata di un minimo di capacità filosofica, può benissimo comprendere come la conoscenza universale non possa essere racchiusa entro le categorie quantitative del “grande” o “piccolo”; ridurre la conoscenza entro tali angusti confini equivale alla pretesa di svuotare l’oceano con un ditale, rinnegando l’unica vera Conoscenza, per la quale solo l’Assoluto conosce l’Assoluto. Non si tratta quindi di “diventare” questo o quello, bensì di svelare l’Essere che si È.
Basta la semplice logica per far cadere la prosopopea acefala dello scientismo moderno. Ma siamo nell’Era Oscura: al toro del Dharma è rimasta una sola zampa sana e l’intelligenza degli uomini si è ridotta di tre quarti; le facoltà intellettuali si sono talmente atrofizzate da indurre i più a scambiare il peggiore tra gli inferni come un paradiso e la decadenza estrema come progresso ed evoluzione.
L’uomo fisico è costituito di aria, acqua, terra, fuoco ed etere ed è vincolato alla Terra che lo nutre col suo cibo. Per tale uomo la Terra rappresenta lo “stato dell’Essere” imprescindibile, al quale appartiene. Violentare una simile realtà significa produrre una tecnologia tanto sofisticata quanto effimera, dagli effetti collaterali devastanti per la vita sul pianeta. Eppure, proprio nei giorni scorsi, Charles Bolden, esponente della Nasa, non si è peritato di mandarci da Marte il seguente messaggio, registrato sulla Terra: «Curiosity porterà vantaggi anche sulla Terra e ispirerà una nuova generazione di scienziati ed esploratori per preparare la strada a una missione umana su Marte in un futuro non troppo lontano».
Ma quali vantaggi ci potrà mai portare l’esplorazione spaziale perpetrata con mezzi tecnologici? Ne trarremo qualche beneficio al momento della morte? E, mentre siamo vivi, essa ci darà maggiori agi, concordia, serenità, equilibrio, bellezza? Dopo tanta Storia alle spalle, l’uomo occidentale non ha ancora realizzato che i traguardi proposti dal sapere quantitativo sono vuoti, dei puri nulla? Assai più saggio e intelligente è l’uomo che, riguardo al contingente, pratica la norma del trovare una misura in tutte le cose (Est modus in rebus) e, riguardo all’Ineffabile, dedica le proprie migliori energie al perseguimento del significato essenziale. L’uomo antico possedeva codesta sapienza discriminativa in misura assai maggiore rispetto a quello moderno; da ciò non si deve tuttavia dedurre che sia auspicabile aggrapparsi all’“antico”, né tantomeno protendersi verso il “nuovo”, bensì focalizzarsi sul Permanente: quel Dao (vuoto, dal punto di vista mentale) che riempie tutte le cose, trascendendole, o, per dirla con Platone, quel Sommo Bene senza la consapevolezza del quale l’esistenza umana precipita nel non senso.
Tra l’altro, quale rappresentante della specie umana la nostra “civiltà” pretende di mandare sulla Luna o su Marte? Per quanto mi riguarda, non ho dubbi sul fatto che si tratti del più ottenebrato tra gli ottenebrati, un uomo, cioè, che, pur privo di intelligenza ontologica e di orientamento sapienziale, si erge a mensura dell’universo e ad exemplum per tutti. 
Da quanto detto si ricava che tutti i discorsi apologetici – che in questi giorni affollano i media – sulle più recenti conquiste spaziali sono stupidaggini, fumo negli occhi, il cui fine è quello di distogliere gli stolti dalle vere questioni essenziali: ecologiche, politiche e metapolitiche. Per contro, la sapienza esoterica insegna che l’ánthropos può oltrepassare l’atmosfera terrestre e viaggiare nell’Universo solo sub specie interioritatis, utilizzando veicoli diversi da quello fisico. Tornando all’articolo di Fini, leggiamo ancora: «Si, è vero, lo abbiamo seguito tutti quell'evento (un vero “evento”, non un concerto di Zucchero) con trepidazione e quell'eterna illusione che accompagna sempre l’uomo, indispensabile a nascondergli la tra-gicità dell'esistenza. Una prima incrinatura, quasi uno stridore, si avvertì quando Neil Armstrong, messo piede sulla Luna, pronunciò la famosa frase: "Questo è un piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l'umanità”. Ma come, tu sei sulla Luna, vedi la Terra da lì e le stelle e l'Universo come nessun uomo le ha mai viste, devi essere preda di un'emozione violentissima, e te ne esci con una simile stronzata?».
A quanto pare lo sguardo del giovane Fini non era poi tanto annebbiato dall’entusiasmo collettivo se sapeva cogliere nell’evento una nota illusoria e, soprattutto, in perfetta consonanza con la citazione di “Anatema”, l’estrema stupidità e falsità della frase dell’astronauta.


Fonte: www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43886

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