domenica 16 settembre 2012

Dopo 100 anni di aiuti Pubblici, la Fiat lascia l'Italia.


Tante le menzogne dette negli ultimi anni ma la verità è che gli Agnelli e Marchionne vogliono chiudere tutte le fabbriche


di: Filippo Ghira  f.ghira@rinascita.eu
La conferma è stata data dallo stesso Sergio Marchionne. L’amministratore delegato svizzero-canadese ha messo le mani avanti per affermare che in conseguenza della crisi in corso e del tracollo del mercato dell’auto, la Fiat si vedrà costretta (sic) a rivedere il suo piano “Fabbrica Italiana” che, secondo quanto millantato dal Lingotto avrebbe dovuto rilanciare la produzione di auto in Italia ed evitare la chiusura di altri stabilimenti in Italia dopo quello di Termini Imerese alla fine del 2011.
In questa fase, recita un comunicato Fiat, è impossibile fare riferimento ad un progetto che era nato due anni e mezzo fa in base al quale si sarebbero dovuti investire fino a 20 miliardi di euro ed arrivare a produrre 1,4 milioni di vetture in Italia. Il piano Fabbrica Italiana, già dall’inizio, era stato giudicato dai pochi e attenti osservatori e da due soli sindacati come la Fiom-Cgil e dai Cobas, come una vera e propria presa in giro.
Mancavano infatti i dettagli che Marchionne e il suo datore di lavoro John Jacob Elkann si erano riservati di illustrare in un futuro che si è progressivamente sempre più spostato avanti nel tempo.
Ad abboccare, ingoiando amo, lenza e canna da pesca, non erano stati soltanto i sindacati “collaborazionisti” del settore metalmeccanico tipo Fim-Cisl e Uilm, Ugl e Fismic, ma anche i partiti politici di centrodestra (PdL e UdC) e in misura minore di centrosinistra (PD) più che pronti a sostenere le ragioni della Fiat che, in nome del Mercato e della necessità di essere messa nelle condizioni di affrontarlo, doveva essere lasciata libera di agire. Così, dopo aver approvato il nuovo modello contrattuale che sanciva il passaggio da un contratto nazionale di lavoro ad uno aziendale basato sugli straordinari e sui premi di produzione, i sindacati collaborazionisti avevano completato l’opera ponendo anche la propria firma ai due accordi per Pomigliano e per Mirafiori. Entrambi rifiutati dalla Fiom-Cgil che in tal modo si era ritrovata esclusa dalle rappresentanze sindacali aziendali. Il nuovo corso della Fiat si era poi caratterizzato dall’uscita da Federmeccanica e dalla disdetta data al contratto nazionale dei metalmeccanici. Il traguardo da raggiungere era e resta quello di arrivare a siglare un contratto dell’auto con l’obiettivo di tagliare ogni possibile mediazione e portare l’azienda a trattare direttamente con quei sindacati disposti ad accettare qualsiasi richiesta di Marchionne pur di poter spingere nell’angolo la Fiom di Maurizio Landini e di rifarsi di decenni di sudditanza.
Un disegno che soltanto adesso si sta materializzando nelle menti già ottenebrate dei sindacati “collaborazionisti” che finalmente sembrano aver compreso quale strategia di lungo periodo Marchionne e gli Agnelli-Elkann stiano perseguendo da quando hanno preso in mano la Fiat.
La strategia, tanto per essere chiari, è quella di chiudere gli stabilimenti italiani ed andare a produrre all’estero dove il costo del lavoro è molto minore che in Italia. La busta paga netta di un operaio italiano è di media sui 1.100-1.200 euro se va bene. Quella di un operaio polacco o brasiliano sui 600 euro e quella di uno serbo sui 200 euro. La tirata fatta da Marchionne sulla bassa produttività degli operai italiani è quindi una balla. Da tempo la Fiat ha smesso di progettare e di produrre nuovi modelli di vettura che non siano quelle del segmento A (cittadine come la 500 e la Panda) e del segmento B (utilitarie come la Punto) sui quali il Lingotto basa la propria forza. Nel segmento C (le famigliari) la Bravo non è mai riuscita a scalfire il predominio della Golf della Volkswagen. E si tratta del segmento che assicura i più alti profitti. Mentre nei primi due i guadagni sono risicati e non assicurano l’autofinanziamento.
La Fiat ha sempre sofferto di essere identificata con i primi due segmenti che le hanno attribuito in passato la nomea di produttrice di auto di non eccelsa qualità. Se a questo poi si aggiunge che pesa il ricordo di due auto bidone come la Duna e la 126 prodotta anni fa in Polonia, il disastro è completo. La stessa integrazione produttiva e societaria con la Chrysler è finalizzata a chiudere a la produzione in Italia. Lo dimostra il fatto che la nuova Panda prodotta a Pomigliano è un adattamento della vecchia e il Suv prodotto a Mirafiori è una versione più recente della Jeep della Chrysler. Dal punto di vista societario, gli Agnelli Elkann vogliono che il loro attuale 30% di Fiat finisca per diluirsi di importanza nel nuovo gruppo on la Chrysler della quale ora il Lingotto detiene la maggioranza e che la Famiglia finisca per avere una quota minoritaria attraverso la più classica delle operazioni di ingegneria finanziaria. Mentre di nuovi modelli Fiat manco si vede l’ombra, la Chrysler è tornata a produrre vetture e a macinare utili come lo stesso Marchionne giorni fa ha trionfalmente annunciato. E questo vale più di tante altre considerazioni sul futuro della Fiat. Gli Agnelli-Elkann non hanno più intenzione di mettere soldi nell’auto. Lo Stato che per 100 anni ha foraggiato la Fiat con finanziamenti a fondo perduto e agevolati, il mercato interno protetto, la svendita dell’Alfa Romeo praticamente regalata, le casse integrazioni a raffica, non ha più la possibilità di sciogliere i cordoni della borsa e lasciare il Lingotto nella sua natura di impresa pubblica di fatto. Quindi addio Italia e tanti saluti agli operai e ai risparmiatori che sono stati così polli di comprare azioni Fiat, consigliati come erano dai giornali “padani” legati al gruppo torinese.
L’aspetto incredibile di questa vicenda è l’atteggiamento complice della politica. La Fiat, aveva detto mesi fa Mario Monti, non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia, e chi la gestisce ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti le localizzazioni più convenienti. Marchionne gli ha fatto eco. Fiat-Chrysler- si è difeso, è oggi una multinazionale e quindi, e come tale, ha il diritto e il dovere di compiere scelte industriali in modo razionale e in piena autonomia.



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