di Alberto Bagnai.
I
protagonisti sono due: quello maschile è un paese sviluppato, lo
chiameremo “il centro”, con una forte base finanziaria e
industriale; quello femminile è un paese, o un gruppo di paesi,
relativamente arretrato, che chiameremo “periferia”.
Fra
centro e periferia l’attrazione è subitanea e fatale (soprattutto
per la periferia), ma, come in ogni trama che si rispetti, la
diversità di origini pone qualche problema. Dove sarebbe altrimenti
l’interesse della storia? La storia è interessante proprio perché
i protagonisti sono diversi, molto diversi.
Il
centro è un ragazzo moderno, spregiudicato, mentre la periferia è
una ragazza all’antica, risparmiatrice, saggia, e un po’
repressa. Che pensate? No, non sessualmente repressa!
Questo, al centro, non interessa. Non ricordate? Il centro è
virtuoso. Lapida le adultere (dopo esserci andato a letto).
No,
la periferia è, come dicono gli economisti, un po’ repressa
finanziariamente, il che significa, in buona sostanza, che nella
periferia lo Stato mantiene un certo grado di controllo sul circuito
del risparmio e dell’investimento.
Ad
esempio, pensate un po’ che idea bislacca, nella periferia si
considera la politica monetaria come uno strumento a disposizione
dell’azione del governo, da mantenere, sia pure in forma mediata,
sotto il controllo della sovranità democratica dei cittadini. Avete
capito bene: è esattamente quello che gli intellettuali
della nostra sinistra definirebbero “populismo”, che è poi il
termine con il quale certi sinistri intellettuali etichettano
qualsiasi circostanza nella quale il popolo non fa ciò che loro
hanno deciso che faccia. Che ne sa il popolo della moneta?
La
periferia è repressa e populista, e da questo scaturiscono tutta una
serie di vetuste pratiche: la banca centrale non è “indipendente”
(che poi significa indipendente dai lavoratori, ovviamente, non dai
capitalisti), e una serie di istituzioni finanziarie (banche, fondi
pensione) sono sotto il diretto o indiretto controllo dello Stato; il
costo del denaro quindi non è fissato ad arbitrio del mercato, ma è
gestito, indirizzato, dallo Stato; e per realizzare questo obiettivo
i movimenti internazionali di capitali sono sottoposti a controlli,
perché altrimenti i capitali fuggirebbero in cerca di miglior
remunerazione altrove; ma non solo i deflussi, anche gli afflussi di
capitali sono controllati, dalla periferia repressa: l’idea moderna
che le aziende (pubbliche o private) nazionali siano lì per essere
messe in vendita al miglior offerente, questa idea tanto progredita,
nella periferia ancora non è arrivata; e questo vale soprattutto in
ambito finanziario, dove si applica alle banche estere quel principio
che i paesi progrediti applicano solo ai lavoratori esteri: “Io
non sono razzista, basta che ognuno stia a casa sua”; principio che
fa rabbrividire quando è applicato alle persone, e anche
quando non è applicato alle banche;
invece, guarda un po’, la periferia è talmente repressa che
perfino le istituzioni finanziarie nazionali vengono controllate
dallo Stato, che impone loro vincoli di portafoglio, che poi
significa che queste istituzioni sono obbligate ad acquistare una
certa quota di titoli del debito pubblico; e impone anche massimali
sul credito, che significa che le banche non possono prestare troppo,
cioè che i privati non possono indebitarsi troppo; del resto,
nemmeno lo Stato si indebita troppo, e anzi il suo debito in rapporto
al Pil scende, perché i tassi di interesse sono tenuti sotto
controllo, e quindi non è necessario rincorrere, aumentando la
pressione fiscale e diminuendo la spesa per i servizi essenziali,
l’esplosione della spesa per interessi (che poi significa
redistribuire reddito dai contribuenti che contribuiscono ai
detentori dei titoli del debito... che spesso non contribuiscono).
Ecco:
questa è la repressione finanziaria. Non se n’è occupato Sigmund
Freud, maCarmen
Reinhart (fra
gli altri). Qualcuno, più cortese, la chiama “regolamentazione”
dei mercati finanziari.
Vi
sembra un mondo così strano, così vetusto? Be’, avete memoria
corta: fino agli anni ’80 questo mondo è stato il nostro mondo, il
mondo occidentale, ed è ormai chiaro che occorre che torni
nuovamente a esserlo.
Comunque,
quel mondo ora non è più il nostro, e quindi così non va: il
centro, che è un ragazzo evoluto, non può mica presentare ai propri
genitori, i mercati, una ragazza così fuori moda! E allora
il centro “suggerisce” alla periferia qualche riforma, anzi, due
riforme a caso, sempre quelle: l’adozione di un tasso di cambio
fisso e la liberalizzazione, dei mercati finanziari, e anche, a
valle, dei movimenti internazionali di capitale.
Il
centro, che è un po’ un furbetto, ottiene così due vantaggi.
Vantaggio numero uno: in periferia la liberalizzazione dei mercati
finanziari necessariamente fa salire i tassi d’interesse. Pensate:
lo Stato non può più contare su una serie di acquirenti
istituzionali per i suoi titoli (non la Banca centrale, che diventa
“indipendente”; non le banche e i fondi pensione, che piano piano
passano in mano al settore privato), e quindi per finanziarsi deve
offrire tassi d’interesse più alti.
Ma
anche i tassi del settore privato vengono liberalizzati, e quindi
tendenzialmente crescono. Pensate: in periferia di capitali in
effetti bisogno ce n’è, visto che, come abbiamo detto, la sua base
industriale è arretrata, il che necessariamente comporta che i tassi
d’interesse tendano ad essere alti. Ma prima, quando la periferia
era repressa, lo Stato in qualche modo controllava il costo del
denaro, mantenendolo entro limiti da lui stabiliti. Certo, in questo
modo il denaro costava relativamente poco, ma se l’economia si
surriscaldava, perché gli imprenditori ne prendevano troppo in
prestito, lo Stato interveniva, magari con strumenti di tipo
quantitativo, come il massimale sugli impieghi: se, per un dato costo
del denaro, il settore privato si stava indebitando troppo,
finanziando in debito la propria domanda di beni, semplicemente lo
Stato proibiva alle banche di prestare oltre un certo limite. Ma
ora i controlli quantitativi vengono aboliti: che brutta cosa, sa di
economia pianificata, mica siamo bolscevichi! Il mercato sa cosa
fare, lasciamo che domanda e offerta siano guidate dal prezzo,
liberalizziamo i tassi! Quindi, se si vuole evitare che
venga erogato troppo credito necessariamente bisogna lasciare che il
tasso di interesse cresca. Certo: in questo modo gli imprenditori
locali ci pensano due volte a indebitarsi a tassi più alti (legge
della domanda e dell’offerta: costa di più, compro di meno).
Ma...
forse avete dimenticato un dettaglio. Eh già! Abbiamo liberalizzato
anche i movimenti internazionali di capitali. E allora cosa succede?
Succede che i creditori del centro, le grandi banche del sistema
maturo, attirati dai tassi più alti, esportano i capitali in
periferia. Capitali ne hanno, e come! Il centro ha un’industria che
guadagna bene, e gli industriali non son soliti tenere i soldi sotto
il materasso, sapete? Quindi le banche del centro i soldi ce li
hanno, e li spostano in periferia, dove lo Stato e i privati pagano
interessi più alti che nel centro, maturo, sazio e repleto di
capitali.
Come
fanno? In mille modi: aprono filiali delle loro banche nella
periferia (ora si può); aprono finanziarie che gestiscono il
risparmio o erogano credito al consumo (ora si può); magari
integrano queste finanziarie nelle catene di distribuzione
(supermercati, concessionarie) che nel frattempo si sono acquistate
(ora si può); e poi possono sempre intervenire nei mercati
borsistici e acquistare pacchetti di controllo di aziende nazionali
(ora si può); e se qualche azienda nazionale che fa bei
soldi fosse, malauguratamente, pubblica, non c’è problema: si
comprano due o tre giornali (ora si può) e un po’ di ministri
(questo si è sempre potuto), e si comincia a diffondere ventiquattro
ore su ventiquattro l’idea che lo Stato è inefficiente e fonte di
ogni male, e che quindi bisogna privatizzare le aziende pubbliche,
partendo da quelle che funzionano, e il gioco è fatto.
Illustri
economisti, dalle colonne di prestigiosi quotidiani, annuiranno
compiaciuti.
Ma
perché siamo partiti dalla fissazione del cambio? Ma è semplice!
Perché i capitalisti del centro desiderano (legittimamente) lucrare
lo spread, la differenza, fra i tassi d’interesse, senza patire
rischio di cambio, cioè senza correre il rischio che la periferia
svaluti, come sarebbe in fondo naturale per un paese che diventa
importatore netto di capitali e quindi di merci. In fondo non c’è
nulla di male: giochi innocenti, purché si sappia smettere al
momento debito (cioè: al momento giusto, ma non so perché mi è
venuta la parola “debito”).
E
poi, pensateci un momento. Se anche i tassi d’interesse fossero
uguali al centro e alla periferia, fissando il cambio, un
effetto comunque lo si ottiene. Sapete quale? Ve lo dico subito:
aumenta lo spread. “Come?”
direte voi “Ma adottando un cambio credibile non si abbassano forse
gli spread, com’è successo in Europa, dove i greci e gli spagnoli
hanno potuto beneficiare di tassi tedeschi?” Aspettate un attimo:
al vostro ragionamento manca un pezzo.
Se
si effettua un investimento in un’altra valuta, nel rendimento
complessivo bisogna anche considerare la rivalutazione o svalutazione
attesa di questa valuta. Esempio pratico: prima dell’euro, il
tedesco che prestava allo spagnolo doveva guardare non solo ai tassi
d’interesse (più alti in Spagna), ma anche a cosa avrebbe fatto il
cambio. Ti serve a poco guadagnare un punto di interesse in più
prestando a Carlos anziché a Hans, se poi Carlos svaluta, poniamo,
del 4%, giusto? Dice: ma noi quando parliamo di spread confrontiamo
solo due tassi di interesse, mica parliamo di cambio. E certo,
appunto: oggi il cambio non c’è più: è 1 euro (italiano) per 1
euro (tedesco). Per questo non parliamo di cambio, perché il cambio
non c’è. Ma quando c’era se ne parlava.
Vuoi
un esempio? Nel 1998, un anno prima dell’entrata in Eurolandia, il
tasso d’interesse sui titoli a lungo termine era 4.8 in Spagna
contro 4.6 in Germania (dati IFS, 2010), e quindi lo spread era 0.2,
cioè 20 punti base. Ma siccome la peseta nel 1998 perse circa l’1.2%
sul marco, lo spread effettivo, cioè corretto per la svalutazione,
fu negativo: 0.2-1.2=-1.0, cioè l’investitore tedesco prestando a
Carlos in fondo ci avrebbe rimesso. Meglio prestare a Hans. Nel 1999
i due tassi erano entrambi scesi, di conserva: Germania 4.7, Spagna
4.5. Lo spread quindi era 0.2, come l’anno prima. E quello corretto
per la svalutazione? Ehi, amico, sveglia! Nel 1999 c’era l’euro,
quindi non bisognava più correggere per la svalutazione. Capisci
cosa significa? Significa che lo spread della Spagna era passato da
-1.0 a 0.2, cioè era aumentato di 1.2, di 120 punti base. Con
l’euro, meglio prestare a Carlos, no? Sembra poco, lo so,
a me e a te che movimentiamo un conto corrente a tre zeri (se va
bene): ma se tu muovessi milioni di euro, questa differenza di
rendimenti diventerebbe significativa, credimi, e porteresti i tuoi
soldini dove essa è positiva: nell’esempio, in Spagna.
L’arrivo
di liquidità in periferia apre nuove opportunità d’investimento e
di consumo, sia perché l’afflusso di denaro dall’estero, piano
piano, dopo la fase iniziale, fa diminuire tassi e spread (legge
della domanda e dell’offerta), sia perché la liberalizzazione dei
mercati finanziari crea nuove possibilità di spesa. Nel
mondo represso non si “fanno le rate” per un televisore. In
quello libero sì. Gli economisti li chiamano “mercati finanziari
perfetti”, quelli dove si può avere tutto subito, perché trovi
sempre qualcuno che ti finanzia, ovviamente pagando un prezzo. Quindi
la periferia è euforica: le sembra di toccare il cielo con un dito:
titillata dai capitali del centro raggiunge vette di piacere
consumistico per lei insospettate fino a pochi mesi prima. Orgasmi
multipli, lubrificati dalle rate: nuova automobile, nuovo
frigorifero, nuovo televisore... Per non parlare della possibilità
di contrarre mutui per acquistare prime, e anche seconde case (perché
spesso, nella periferia, la prima casa una famiglia ce l’ha)...
Come
avrete capito, qui subentra il secondo vantaggio per il centro:
drogando coi propri capitali la crescita dei redditi della periferia,
il centro si assicura un mercato di sbocco per i propri beni, che i
cittadini della periferia possono ora acquistare grazie agli effetti
diretti e indiretti di un più facile accesso al credito.
Insomma:
è la solita storia. Il centro versa da bere, la periferia, distratta
(d’accordo, non sempre), beve, e accorda al centro gli estremi
favori... dei suoi cittadini, che comprano, comprano, comprano,
assorbendo il sovrappiù del maturo sistema industriale del centro.
Inizia
la parte triste della storia.
La
periferia si gonfia.
E
anche qui siete fuori strada: non è una gravidanza, ma una
bolla.
Cos’è
una gravidanza lo sapete, questo è decisamente un libro per adulti.
Ma siete sicuri di sapere cos’è una bolla? Come la
definireste? Va bene, dai, non voglio mettervi in difficoltà. In
fondo, se qualcuno chiedesse a me cos’è esattamente una
gravidanza, non sono sicuro che saprei rispondere in modo
tecnicamente esatto. Una bolla è lo scostamento del prezzo di
un’attività finanziaria dal suo valore fondamentale. Mi spiego. Il
valore attuale di un’azione, in linea teorica, dipende dal valore
dei dividendi futuri, da quanto reddito l’azione ti garantisce nel
lungo termine. Un valore incerto, naturalmente. L’azione però può
anche essere comprata e venduta liberamente, lo sapete. Ora, succede
che se qualcuno si aspetta che i rendimenti futuri crescano, offrirà
di più per acquistare una data azione. E se qualcuno si aspetta che
qualcun altro offra di più per acquistare un’azione, cercherà di
acquistarla, per venderla quando l’altro sarà disposto a pagarla
di più, ma così facendo (cioè acquistandola) contribuisce a farne
salire il prezzo. Si chiama “aspettativa che si autorealizza”
(self-fulfilling expectation). Ora, siccome al primo che fa
questo ragionamento le cose vanno, evidentemente, bene, anche un
secondo, e poi un terzo, e poi un quarto, si accodano, domandando
quell’azione, il cui prezzo viene spinto su da una domanda che non
ha più alcuna relazione con il rendimento atteso a lungo termine (i
dividendi futuri), ma solo con l’aspettativa che tutti hanno che il
prezzo cresca.
Capite
cosa vuol dire che il prezzo si scosta dal valore fondamentale? La
matematica finanziaria ci insegna che con tassi al 5%, ha un senso
pagare 20 un pezzo di carta che ogni anno ti paga un reddito di 1. Ma
se per qualche motivo quel pezzo di carta lo vogliono tutti, tu
magari ti trovi a pagarlo 100, e lo fai volentieri, perché pensi che
dopodomani lo vendi a 150. Perbacco! Vuoi mettere il 50% in due
giorni rispetto al 5% in un anno?
Ma
quanto possano essere lunghe quarantotto ore lo sanno bene quelli che
avevano azioni in portafoglio il 25 ottobre del 1929, aspettando la
riapertura dei mercati il lunedì successivo, sì, proprio quello
passato alla storia come “lunedì nero”.
E
la bolla immobiliare? Semplice: tornate indietro di qualche riga,
sostituite alla parola “azione” la parola “appartamento”, e
alla parola “dividendo” la parola “affitto”, ed ecco la bolla
immobiliare. La quale, però, una differenza ce l’ha: che gli
appartamenti sono meno “liquidi” delle azioni: non basta
telefonare al proprio promotore finanziario per disfarsene...
Insomma:
la periferia, grazie ai capitali esteri, cresce. Crescono i consumi,
crescono anche gli investimenti. Allettati dalla sua crescita, i
mercati convogliano verso di essa capitali in misura sempre maggiore,
tanto più che la crescita drogata dal debito privato (i capitali
esteri prestati a famiglie e imprese) causa un miglioramento delle
finanze pubbliche: il rapporto debito pubblico/Pil si stabilizza o
scende. I grulli (o i furbi?) per i quali “l’unico debito
è quello pubblico” sono così rassicurati. Quanto sembra virtuosa
la periferia agli sceriffi (ingenui o conniventi?) del Fondo
Monetario Internazionale! Vedi? La periferia è una brava
ragazza, ha fatto quello che dicevamo noi, gli sceriffi: si è data
un cambio “credibile” (infausto eufemismo), si è fatta un
tantinello zoccola, cioè si è liberalizzata, e i risultati si
vedono...
Libertà
(finanziaria), quanti delitti si commettono in tuo nome!
L’afflusso
di capitali non è più guidato dallo spread, dalla differenza fra
tassi della periferia e tassi del centro. Può infatti accadere (ma
non sempre accade) che questa differenza si riduca: la mobilità dei
capitali, dicono i libri degli economisti, eguaglia i rendimenti da
un paese all’altro (legge della domanda e dell’offerta). Non è
sempre così, ma anche fosse,ormai quello che attira i capitali in
periferia non è il tasso d’interesse, il rendimento a lungo
termine, ma il guadagno in conto capitale, la crescita convulsa del
prezzo delle attività.
Nell’economia
drogata sale la febbre: l’accesso al credito facile fa salire
l’inflazione, e se all’inizio ci si rivolgeva all’estero per
comprare beni di lusso, col tempo i prodotti esteri diventano
competitivi anche sulle fasce più basse, perché i prezzi interni
sono cresciuti, quindi il deficit commerciale si approfondisce, e
occorrono nuovi capitali esteri per finanziarlo. Del resto, lo
abbiamo detto prima: un importatore netto di capitali è anche un
importatore netto di beni.
Proprio
così: drogata, la periferia è drogata di capitali esteri, e la dose
deve essere sempre maggiore, per fare effetto. Non c’è crimine
verso se stessa che la periferia non perpetri pur di ottenerla. Si
prostituisce in ogni modo, distruggendo in pochi anni lo stile di
vita e le ragionevoli aspettative di reddito dei suoi cittadini, che
si vedono privati dall’oggi al domani di diritti che ritenevano
acquisiti, come quelli all’assistenza e alla previdenza;
smantellando il proprio sistema industriale, che tanto non le serve
più, perché i capitali arrivano, quindi arriveranno sempre, e sarà
sempre possibile acquistare all’estero, dove lo fanno tanto meglio,
quello che non si ha più convenienza a produrre in casa; cedendo
insomma il meglio di se stessa, tutta se stessa, al centro.
“Mi
ami, centro?” “Certo, periferia!” “E mi amerai sempre, vero?”
“Certo, sciocchina, che domande sono! A proposito, ma cosa te ne
fai di quell’industria petrolifera, come si chiama... Ani, Azienda
nazionale idrocarburi... Dai, dammela, su, dammi l’Ani, che in
cambio avrai un afflusso di capitali che neanche te l’immagini”
“Ma devo darti anche questo?” “Ormai mi hai dato tutto!” “Ma
la mamma mi ha detto...” “La mamma? Ma hai visto Solone e Licurgo
dalle colonne del Corriere? Vedi come ti incitano a vendere l’Ani”
“Ma io ho un po’ paura...” “Ma io ti amo, periferia. Dai,
dimmi di sì, e vedrai quanta liquidità inietterò nel tuo
circuito...”
La
sventurata rispose.
Il
fatto però è che esiste una legge non so se dell’economia o
proprio della natura, quella che dice che “il troppo stroppia”.
In economia penso la chiamino legge dei rendimenti decrescenti.
Trovare impieghi produttivi per masse enormi e crescenti di capitali
non è facile, e gli afflussi di capitali (sì, proprio
quelli dei quali i nostri Quisling tanto lamentano la carenza in
Italia), sono, per il paese che li riceve, debiti esteri, che
occorrerà rimborsare, e che però, quanto più crescono, tanto meno
producono i redditi necessari a ripagarli.
Ah,
non lo sapevate? Come? Proprio voi, i luogocomunisti, gli
spaghetti-liberisti, gli araldi del libero mercato e dell’economia
ortodossa, mi ignorate quest’altra semplice verità: non ci sono
pasti gratis, no free lunch, non puoi avere qualcosa per
niente. Ah, capisco, capisco... In effetti, sì, mi era sembrato di
leggere qualcosa del genere nei giornali italiani. Sapete, io ormai
li uso solo per incartare il pesce, e così, fra una squama di
branzino e uno schizzo di nero di seppia mi era sembrato in
effetti di intravvedere che esiste in Italia una sinistra genia di
imbecilli che pensa che i capitali arrivino dall’estero gratis, che
gli imprenditori esteri comprino azioni italiane, o comunque
acquisiscano il controllo di aziende italiane, perché noi siamo
simpatici, creativi, insomma, perché ci vogliono bene. E
che quindi gli afflussi di capitali sono un bene: noi ne abbiamo
bisogno, loro ce li danno, e la storia finisce lì. Ma pensavo di
aver letto male, sapete, nella fretta, la padella sul fuoco, gli
ospiti in terrazza... Invece voi mi dite che c’è veramente
qualcuno che è così cretino da pensare che l’estero i capitali li
regali!? E quindi che la svendita delle aziende pubbliche e private
italiane a investitori esteri vada non solo non ostacolata, ma
addirittura favorita!? E mi dite addirittura che glielo fanno
scrivere sui giornali!?
Ma
io, da domani, con quei giornali non ci incarto più nemmeno il
pesce. Il nobile branzino non merita un sudario tanto abietto...
Vi
spiego: chi presta, che deve farsi ridare i soldi con gli interessi,
lo sa. Mica pensa di regalarli. Fosse scemo! E questo vale per tutti
i tipi di prestiti, capite?
Esempio:
chi acquista un’azienda in periferia non lo fa perché vuole
portare in periferia lavoro e crescita (in effetti, in due casi su
tre comincia col licenziare qualcuno, ci avevate fatto caso?). No: lo
fa perché vuole giustamente far profitti e poi riportarli al centro
(e magari, per farne di più, di profitti, passa sopra a qualche
regola, ci avevate fatto caso?).Ecco, cercate di chiavarvi in capo
questa semplice realtà: quello che oggi è un afflusso di capitali
domani diventa un deflusso di redditi. L’afflusso di
capitali dall’estero (per comprare un titolo pubblico, per
finanziare l’acquisto della seconda casa o del primo televisore al
plasma di un privato, per acquistare un’azienda), domani diventa un
deflusso di redditi verso l’estero (interessi o profitti). Capito?
Oggi entrano i soldi, sotto forma di credito (per il centro), cioè
debito (per la periferia). Domani i soldi escono, sono
redditi passivi in bilancia dei pagamenti, redditi che ampliano
ancora di più il deficit estero della periferia, la quale, come
usura insegna, a un certo punto è costretta a farsi prestare altri
capitali, non più per finanziare investimenti produttivi, e nemmeno
per finanziare consumi, ma semplicemente... per pagare gli
interessi! E quei capitali, la periferia, all’inizio
nemmeno voleva, all’inizio non ne aveva nemmeno bisogno, ricordate?
Perché nel mondo “represso” il circuito del risparmio si
chiudeva all’interno del paese: alla periferia bastavano i risparmi
dei suoi cittadini, che ne avevano, perché siccome non tutto era
stato privatizzato, e quindi i servizi essenziali non costavano somme
sempre maggiori, in fondo non si stava così male, qualcosa si
risparmiava.
Ci
si avvicina al triste epilogo.
Un
bel giorno la periferia si sveglia, ha le nausee, vomita. Una grossa
azienda va in crisi finanziaria? Le banche accusano “sofferenze”
(che poi significa che capiscono che i loro debitori non ce la
faranno a restituire i soldi)? Insomma, succede qualcosa, e l’amore
finisce, lasciando il posto a una certa insofferenza. Il centro
comincia a dubitare della capacità della periferia di rimborsare i
propri debiti. Esige così il pagamento di interessi sempre più alti
a copertura del rischio, lo spread, che era partito alto (vi
ricordate?), e poi si era annullato, decolla di nuovo. La periferia
si avvita nella spirale del debito estero, si gonfia sempre di più,
e per sapere il seguito basta aprire un giornale. Non è un happy
ending.
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