giovedì 22 novembre 2012

Il romanzo di centro e di periferia.


di Alberto Bagnai.

I protagonisti sono due: quello maschile è un paese sviluppato, lo chiameremo “il centro”, con una forte base finanziaria e industriale; quello femminile è un paese, o un gruppo di paesi, relativamente arretrato, che chiameremo “periferia”.

Fra centro e periferia l’attrazione è subitanea e fatale (soprattutto per la periferia), ma, come in ogni trama che si rispetti, la diversità di origini pone qualche problema. Dove sarebbe altrimenti l’interesse della storia? La storia è interessante proprio perché i protagonisti sono diversi, molto diversi.

Il centro è un ragazzo moderno, spregiudicato, mentre la periferia è una ragazza all’antica, risparmiatrice, saggia, e un po’ repressa. Che pensate? No, non sessualmente repressa! Questo, al centro, non interessa. Non ricordate? Il centro è virtuoso. Lapida le adultere (dopo esserci andato a letto).

No, la periferia è, come dicono gli economisti, un po’ repressa finanziariamente, il che significa, in buona sostanza, che nella periferia lo Stato mantiene un certo grado di controllo sul circuito del risparmio e dell’investimento.

Ad esempio, pensate un po’ che idea bislacca, nella periferia si considera la politica monetaria come uno strumento a disposizione dell’azione del governo, da mantenere, sia pure in forma mediata, sotto il controllo della sovranità democratica dei cittadini. Avete capito bene: è esattamente quello che gli intellettuali della nostra sinistra definirebbero “populismo”, che è poi il termine con il quale certi sinistri intellettuali etichettano qualsiasi circostanza nella quale il popolo non fa ciò che loro hanno deciso che faccia. Che ne sa il popolo della moneta?

La periferia è repressa e populista, e da questo scaturiscono tutta una serie di vetuste pratiche: la banca centrale non è “indipendente” (che poi significa indipendente dai lavoratori, ovviamente, non dai capitalisti), e una serie di istituzioni finanziarie (banche, fondi pensione) sono sotto il diretto o indiretto controllo dello Stato; il costo del denaro quindi non è fissato ad arbitrio del mercato, ma è gestito, indirizzato, dallo Stato; e per realizzare questo obiettivo i movimenti internazionali di capitali sono sottoposti a controlli, perché altrimenti i capitali fuggirebbero in cerca di miglior remunerazione altrove; ma non solo i deflussi, anche gli afflussi di capitali sono controllati, dalla periferia repressa: l’idea moderna che le aziende (pubbliche o private) nazionali siano lì per essere messe in vendita al miglior offerente, questa idea tanto progredita, nella periferia ancora non è arrivata; e questo vale soprattutto in ambito finanziario, dove si applica alle banche estere quel principio che i paesi progrediti applicano solo ai lavoratori esteri: “Io non sono razzista, basta che ognuno stia a casa sua”; principio che fa rabbrividire quando è applicato alle persone, e anche quando non è applicato alle banche; invece, guarda un po’, la periferia è talmente repressa che perfino le istituzioni finanziarie nazionali vengono controllate dallo Stato, che impone loro vincoli di portafoglio, che poi significa che queste istituzioni sono obbligate ad acquistare una certa quota di titoli del debito pubblico; e impone anche massimali sul credito, che significa che le banche non possono prestare troppo, cioè che i privati non possono indebitarsi troppo; del resto, nemmeno lo Stato si indebita troppo, e anzi il suo debito in rapporto al Pil scende, perché i tassi di interesse sono tenuti sotto controllo, e quindi non è necessario rincorrere, aumentando la pressione fiscale e diminuendo la spesa per i servizi essenziali, l’esplosione della spesa per interessi (che poi significa redistribuire reddito dai contribuenti che contribuiscono ai detentori dei titoli del debito... che spesso non contribuiscono). 

Ecco: questa è la repressione finanziaria. Non se n’è occupato Sigmund Freud, maCarmen Reinhart (fra gli altri). Qualcuno, più cortese, la chiama “regolamentazione” dei mercati finanziari.

Vi sembra un mondo così strano, così vetusto? Be’, avete memoria corta: fino agli anni ’80 questo mondo è stato il nostro mondo, il mondo occidentale, ed è ormai chiaro che occorre che torni nuovamente a esserlo.
Comunque, quel mondo ora non è più il nostro, e quindi così non va: il centro, che è un ragazzo evoluto, non può mica presentare ai propri genitori, i mercati, una ragazza così fuori moda! E allora il centro “suggerisce” alla periferia qualche riforma, anzi, due riforme a caso, sempre quelle: l’adozione di un tasso di cambio fisso e la liberalizzazione, dei mercati finanziari, e anche, a valle, dei movimenti internazionali di capitale.

Il centro, che è un po’ un furbetto, ottiene così due vantaggi. Vantaggio numero uno: in periferia la liberalizzazione dei mercati finanziari necessariamente fa salire i tassi d’interesse. Pensate: lo Stato non può più contare su una serie di acquirenti istituzionali per i suoi titoli (non la Banca centrale, che diventa “indipendente”; non le banche e i fondi pensione, che piano piano passano in mano al settore privato), e quindi per finanziarsi deve offrire tassi d’interesse più alti.

Ma anche i tassi del settore privato vengono liberalizzati, e quindi tendenzialmente crescono. Pensate: in periferia di capitali in effetti bisogno ce n’è, visto che, come abbiamo detto, la sua base industriale è arretrata, il che necessariamente comporta che i tassi d’interesse tendano ad essere alti. Ma prima, quando la periferia era repressa, lo Stato in qualche modo controllava il costo del denaro, mantenendolo entro limiti da lui stabiliti. Certo, in questo modo il denaro costava relativamente poco, ma se l’economia si surriscaldava, perché gli imprenditori ne prendevano troppo in prestito, lo Stato interveniva, magari con strumenti di tipo quantitativo, come il massimale sugli impieghi: se, per un dato costo del denaro, il settore privato si stava indebitando troppo, finanziando in debito la propria domanda di beni, semplicemente lo Stato proibiva alle banche di prestare oltre un certo limite. Ma ora i controlli quantitativi vengono aboliti: che brutta cosa, sa di economia pianificata, mica siamo bolscevichi! Il mercato sa cosa fare, lasciamo che domanda e offerta siano guidate dal prezzo, liberalizziamo i tassi! Quindi, se si vuole evitare che venga erogato troppo credito necessariamente bisogna lasciare che il tasso di interesse cresca. Certo: in questo modo gli imprenditori locali ci pensano due volte a indebitarsi a tassi più alti (legge della domanda e dell’offerta: costa di più, compro di meno).

Ma... forse avete dimenticato un dettaglio. Eh già! Abbiamo liberalizzato anche i movimenti internazionali di capitali. E allora cosa succede? Succede che i creditori del centro, le grandi banche del sistema maturo, attirati dai tassi più alti, esportano i capitali in periferia. Capitali ne hanno, e come! Il centro ha un’industria che guadagna bene, e gli industriali non son soliti tenere i soldi sotto il materasso, sapete? Quindi le banche del centro i soldi ce li hanno, e li spostano in periferia, dove lo Stato e i privati pagano interessi più alti che nel centro, maturo, sazio e repleto di capitali.

Come fanno? In mille modi: aprono filiali delle loro banche nella periferia (ora si può); aprono finanziarie che gestiscono il risparmio o erogano credito al consumo (ora si può); magari integrano queste finanziarie nelle catene di distribuzione (supermercati, concessionarie) che nel frattempo si sono acquistate (ora si può); e poi possono sempre intervenire nei mercati borsistici e acquistare pacchetti di controllo di aziende nazionali (ora si può); e se qualche azienda nazionale che fa bei soldi fosse, malauguratamente, pubblica, non c’è problema: si comprano due o tre giornali (ora si può) e un po’ di ministri (questo si è sempre potuto), e si comincia a diffondere ventiquattro ore su ventiquattro l’idea che lo Stato è inefficiente e fonte di ogni male, e che quindi bisogna privatizzare le aziende pubbliche, partendo da quelle che funzionano, e il gioco è fatto.

Illustri economisti, dalle colonne di prestigiosi quotidiani, annuiranno compiaciuti.

Ma perché siamo partiti dalla fissazione del cambio? Ma è semplice! Perché i capitalisti del centro desiderano (legittimamente) lucrare lo spread, la differenza, fra i tassi d’interesse, senza patire rischio di cambio, cioè senza correre il rischio che la periferia svaluti, come sarebbe in fondo naturale per un paese che diventa importatore netto di capitali e quindi di merci. In fondo non c’è nulla di male: giochi innocenti, purché si sappia smettere al momento debito (cioè: al momento giusto, ma non so perché mi è venuta la parola “debito”).

E poi, pensateci un momento. Se anche i tassi d’interesse fossero uguali al centro e alla periferia, fissando il cambio, un effetto comunque lo si ottiene. Sapete quale? Ve lo dico subito: aumenta lo spread. “Come?” direte voi “Ma adottando un cambio credibile non si abbassano forse gli spread, com’è successo in Europa, dove i greci e gli spagnoli hanno potuto beneficiare di tassi tedeschi?” Aspettate un attimo: al vostro ragionamento manca un pezzo.

Se si effettua un investimento in un’altra valuta, nel rendimento complessivo bisogna anche considerare la rivalutazione o svalutazione attesa di questa valuta. Esempio pratico: prima dell’euro, il tedesco che prestava allo spagnolo doveva guardare non solo ai tassi d’interesse (più alti in Spagna), ma anche a cosa avrebbe fatto il cambio. Ti serve a poco guadagnare un punto di interesse in più prestando a Carlos anziché a Hans, se poi Carlos svaluta, poniamo, del 4%, giusto? Dice: ma noi quando parliamo di spread confrontiamo solo due tassi di interesse, mica parliamo di cambio. E certo, appunto: oggi il cambio non c’è più: è 1 euro (italiano) per 1 euro (tedesco). Per questo non parliamo di cambio, perché il cambio non c’è. Ma quando c’era se ne parlava.

Vuoi un esempio? Nel 1998, un anno prima dell’entrata in Eurolandia, il tasso d’interesse sui titoli a lungo termine era 4.8 in Spagna contro 4.6 in Germania (dati IFS, 2010), e quindi lo spread era 0.2, cioè 20 punti base. Ma siccome la peseta nel 1998 perse circa l’1.2% sul marco, lo spread effettivo, cioè corretto per la svalutazione, fu negativo: 0.2-1.2=-1.0, cioè l’investitore tedesco prestando a Carlos in fondo ci avrebbe rimesso. Meglio prestare a Hans. Nel 1999 i due tassi erano entrambi scesi, di conserva: Germania 4.7, Spagna 4.5. Lo spread quindi era 0.2, come l’anno prima. E quello corretto per la svalutazione? Ehi, amico, sveglia! Nel 1999 c’era l’euro, quindi non bisognava più correggere per la svalutazione. Capisci cosa significa? Significa che lo spread della Spagna era passato da -1.0 a 0.2, cioè era aumentato di 1.2, di 120 punti base. Con l’euro, meglio prestare a Carlos, no? Sembra poco, lo so, a me e a te che movimentiamo un conto corrente a tre zeri (se va bene): ma se tu muovessi milioni di euro, questa differenza di rendimenti diventerebbe significativa, credimi, e porteresti i tuoi soldini dove essa è positiva: nell’esempio, in Spagna.

L’arrivo di liquidità in periferia apre nuove opportunità d’investimento e di consumo, sia perché l’afflusso di denaro dall’estero, piano piano, dopo la fase iniziale, fa diminuire tassi e spread (legge della domanda e dell’offerta), sia perché la liberalizzazione dei mercati finanziari crea nuove possibilità di spesa. Nel mondo represso non si “fanno le rate” per un televisore. In quello libero sì. Gli economisti li chiamano “mercati finanziari perfetti”, quelli dove si può avere tutto subito, perché trovi sempre qualcuno che ti finanzia, ovviamente pagando un prezzo. Quindi la periferia è euforica: le sembra di toccare il cielo con un dito: titillata dai capitali del centro raggiunge vette di piacere consumistico per lei insospettate fino a pochi mesi prima. Orgasmi multipli, lubrificati dalle rate: nuova automobile, nuovo frigorifero, nuovo televisore... Per non parlare della possibilità di contrarre mutui per acquistare prime, e anche seconde case (perché spesso, nella periferia, la prima casa una famiglia ce l’ha)...

Come avrete capito, qui subentra il secondo vantaggio per il centro: drogando coi propri capitali la crescita dei redditi della periferia, il centro si assicura un mercato di sbocco per i propri beni, che i cittadini della periferia possono ora acquistare grazie agli effetti diretti e indiretti di un più facile accesso al credito.
Insomma: è la solita storia. Il centro versa da bere, la periferia, distratta (d’accordo, non sempre), beve, e accorda al centro gli estremi favori... dei suoi cittadini, che comprano, comprano, comprano, assorbendo il sovrappiù del maturo sistema industriale del centro. 

Inizia la parte triste della storia.

La periferia si gonfia.

E anche qui siete fuori strada: non è una gravidanza, ma una bolla.

Cos’è una gravidanza lo sapete, questo è decisamente un libro per adulti. Ma siete sicuri di sapere cos’è una bolla? Come la definireste? Va bene, dai, non voglio mettervi in difficoltà. In fondo, se qualcuno chiedesse a me cos’è esattamente una gravidanza, non sono sicuro che saprei rispondere in modo tecnicamente esatto. Una bolla è lo scostamento del prezzo di un’attività finanziaria dal suo valore fondamentale. Mi spiego. Il valore attuale di un’azione, in linea teorica, dipende dal valore dei dividendi futuri, da quanto reddito l’azione ti garantisce nel lungo termine. Un valore incerto, naturalmente. L’azione però può anche essere comprata e venduta liberamente, lo sapete. Ora, succede che se qualcuno si aspetta che i rendimenti futuri crescano, offrirà di più per acquistare una data azione. E se qualcuno si aspetta che qualcun altro offra di più per acquistare un’azione, cercherà di acquistarla, per venderla quando l’altro sarà disposto a pagarla di più, ma così facendo (cioè acquistandola) contribuisce a farne salire il prezzo. Si chiama “aspettativa che si autorealizza” (self-fulfilling expectation). Ora, siccome al primo che fa questo ragionamento le cose vanno, evidentemente, bene, anche un secondo, e poi un terzo, e poi un quarto, si accodano, domandando quell’azione, il cui prezzo viene spinto su da una domanda che non ha più alcuna relazione con il rendimento atteso a lungo termine (i dividendi futuri), ma solo con l’aspettativa che tutti hanno che il prezzo cresca.

Capite cosa vuol dire che il prezzo si scosta dal valore fondamentale? La matematica finanziaria ci insegna che con tassi al 5%, ha un senso pagare 20 un pezzo di carta che ogni anno ti paga un reddito di 1. Ma se per qualche motivo quel pezzo di carta lo vogliono tutti, tu magari ti trovi a pagarlo 100, e lo fai volentieri, perché pensi che dopodomani lo vendi a 150. Perbacco! Vuoi mettere il 50% in due giorni rispetto al 5% in un anno?

Ma quanto possano essere lunghe quarantotto ore lo sanno bene quelli che avevano azioni in portafoglio il 25 ottobre del 1929, aspettando la riapertura dei mercati il lunedì successivo, sì, proprio quello passato alla storia come “lunedì nero”.

E la bolla immobiliare? Semplice: tornate indietro di qualche riga, sostituite alla parola “azione” la parola “appartamento”, e alla parola “dividendo” la parola “affitto”, ed ecco la bolla immobiliare. La quale, però, una differenza ce l’ha: che gli appartamenti sono meno “liquidi” delle azioni: non basta telefonare al proprio promotore finanziario per disfarsene...

Insomma: la periferia, grazie ai capitali esteri, cresce. Crescono i consumi, crescono anche gli investimenti. Allettati dalla sua crescita, i mercati convogliano verso di essa capitali in misura sempre maggiore, tanto più che la crescita drogata dal debito privato (i capitali esteri prestati a famiglie e imprese) causa un miglioramento delle finanze pubbliche: il rapporto debito pubblico/Pil si stabilizza o scende. I grulli (o i furbi?) per i quali “l’unico debito è quello pubblico” sono così rassicurati. Quanto sembra virtuosa la periferia agli sceriffi (ingenui o conniventi?) del Fondo Monetario Internazionale! Vedi? La periferia è una brava ragazza, ha fatto quello che dicevamo noi, gli sceriffi: si è data un cambio “credibile” (infausto eufemismo), si è fatta un tantinello zoccola, cioè si è liberalizzata, e i risultati si vedono...

Libertà (finanziaria), quanti delitti si commettono in tuo nome!

L’afflusso di capitali non è più guidato dallo spread, dalla differenza fra tassi della periferia e tassi del centro. Può infatti accadere (ma non sempre accade) che questa differenza si riduca: la mobilità dei capitali, dicono i libri degli economisti, eguaglia i rendimenti da un paese all’altro (legge della domanda e dell’offerta). Non è sempre così, ma anche fosse,ormai quello che attira i capitali in periferia non è il tasso d’interesse, il rendimento a lungo termine, ma il guadagno in conto capitale, la crescita convulsa del prezzo delle attività.

Nell’economia drogata sale la febbre: l’accesso al credito facile fa salire l’inflazione, e se all’inizio ci si rivolgeva all’estero per comprare beni di lusso, col tempo i prodotti esteri diventano competitivi anche sulle fasce più basse, perché i prezzi interni sono cresciuti, quindi il deficit commerciale si approfondisce, e occorrono nuovi capitali esteri per finanziarlo. Del resto, lo abbiamo detto prima: un importatore netto di capitali è anche un importatore netto di beni.

Proprio così: drogata, la periferia è drogata di capitali esteri, e la dose deve essere sempre maggiore, per fare effetto. Non c’è crimine verso se stessa che la periferia non perpetri pur di ottenerla. Si prostituisce in ogni modo, distruggendo in pochi anni lo stile di vita e le ragionevoli aspettative di reddito dei suoi cittadini, che si vedono privati dall’oggi al domani di diritti che ritenevano acquisiti, come quelli all’assistenza e alla previdenza; smantellando il proprio sistema industriale, che tanto non le serve più, perché i capitali arrivano, quindi arriveranno sempre, e sarà sempre possibile acquistare all’estero, dove lo fanno tanto meglio, quello che non si ha più convenienza a produrre in casa; cedendo insomma il meglio di se stessa, tutta se stessa, al centro.

“Mi ami, centro?” “Certo, periferia!” “E mi amerai sempre, vero?” “Certo, sciocchina, che domande sono! A proposito, ma cosa te ne fai di quell’industria petrolifera, come si chiama... Ani, Azienda nazionale idrocarburi... Dai, dammela, su, dammi l’Ani, che in cambio avrai un afflusso di capitali che neanche te l’immagini” “Ma devo darti anche questo?” “Ormai mi hai dato tutto!” “Ma la mamma mi ha detto...” “La mamma? Ma hai visto Solone e Licurgo dalle colonne del Corriere? Vedi come ti incitano a vendere l’Ani” “Ma io ho un po’ paura...” “Ma io ti amo, periferia. Dai, dimmi di sì, e vedrai quanta liquidità inietterò nel tuo circuito...”

La sventurata rispose.

Il fatto però è che esiste una legge non so se dell’economia o proprio della natura, quella che dice che “il troppo stroppia”. In economia penso la chiamino legge dei rendimenti decrescenti. Trovare impieghi produttivi per masse enormi e crescenti di capitali non è facile, e gli afflussi di capitali (sì, proprio quelli dei quali i nostri Quisling tanto lamentano la carenza in Italia), sono, per il paese che li riceve, debiti esteri, che occorrerà rimborsare, e che però, quanto più crescono, tanto meno producono i redditi necessari a ripagarli.

Ah, non lo sapevate? Come? Proprio voi, i luogocomunisti, gli spaghetti-liberisti, gli araldi del libero mercato e dell’economia ortodossa, mi ignorate quest’altra semplice verità: non ci sono pasti gratis, no free lunch, non puoi avere qualcosa per niente. Ah, capisco, capisco... In effetti, sì, mi era sembrato di leggere qualcosa del genere nei giornali italiani. Sapete, io ormai li uso solo per incartare il pesce, e così, fra una squama di branzino e uno schizzo di nero di seppia mi era sembrato in effetti di intravvedere che esiste in Italia una sinistra genia di imbecilli che pensa che i capitali arrivino dall’estero gratis, che gli imprenditori esteri comprino azioni italiane, o comunque acquisiscano il controllo di aziende italiane, perché noi siamo simpatici, creativi, insomma, perché ci vogliono bene. E che quindi gli afflussi di capitali sono un bene: noi ne abbiamo bisogno, loro ce li danno, e la storia finisce lì. Ma pensavo di aver letto male, sapete, nella fretta, la padella sul fuoco, gli ospiti in terrazza... Invece voi mi dite che c’è veramente qualcuno che è così cretino da pensare che l’estero i capitali li regali!? E quindi che la svendita delle aziende pubbliche e private italiane a investitori esteri vada non solo non ostacolata, ma addirittura favorita!? E mi dite addirittura che glielo fanno scrivere sui giornali!?

Ma io, da domani, con quei giornali non ci incarto più nemmeno il pesce. Il nobile branzino non merita un sudario tanto abietto...

Vi spiego: chi presta, che deve farsi ridare i soldi con gli interessi, lo sa. Mica pensa di regalarli. Fosse scemo! E questo vale per tutti i tipi di prestiti, capite?

Esempio: chi acquista un’azienda in periferia non lo fa perché vuole portare in periferia lavoro e crescita (in effetti, in due casi su tre comincia col licenziare qualcuno, ci avevate fatto caso?). No: lo fa perché vuole giustamente far profitti e poi riportarli al centro (e magari, per farne di più, di profitti, passa sopra a qualche regola, ci avevate fatto caso?).Ecco, cercate di chiavarvi in capo questa semplice realtà: quello che oggi è un afflusso di capitali domani diventa un deflusso di redditi. L’afflusso di capitali dall’estero (per comprare un titolo pubblico, per finanziare l’acquisto della seconda casa o del primo televisore al plasma di un privato, per acquistare un’azienda), domani diventa un deflusso di redditi verso l’estero (interessi o profitti). Capito? Oggi entrano i soldi, sotto forma di credito (per il centro), cioè debito (per la periferia). Domani i soldi escono, sono redditi passivi in bilancia dei pagamenti, redditi che ampliano ancora di più il deficit estero della periferia, la quale, come usura insegna, a un certo punto è costretta a farsi prestare altri capitali, non più per finanziare investimenti produttivi, e nemmeno per finanziare consumi, ma semplicemente... per pagare gli interessi! E quei capitali, la periferia, all’inizio nemmeno voleva, all’inizio non ne aveva nemmeno bisogno, ricordate? Perché nel mondo “represso” il circuito del risparmio si chiudeva all’interno del paese: alla periferia bastavano i risparmi dei suoi cittadini, che ne avevano, perché siccome non tutto era stato privatizzato, e quindi i servizi essenziali non costavano somme sempre maggiori, in fondo non si stava così male, qualcosa si risparmiava. 

Ci si avvicina al triste epilogo.

Un bel giorno la periferia si sveglia, ha le nausee, vomita. Una grossa azienda va in crisi finanziaria? Le banche accusano “sofferenze” (che poi significa che capiscono che i loro debitori non ce la faranno a restituire i soldi)? Insomma, succede qualcosa, e l’amore finisce, lasciando il posto a una certa insofferenza. Il centro comincia a dubitare della capacità della periferia di rimborsare i propri debiti. Esige così il pagamento di interessi sempre più alti a copertura del rischio, lo spread, che era partito alto (vi ricordate?), e poi si era annullato, decolla di nuovo. La periferia si avvita nella spirale del debito estero, si gonfia sempre di più, e per sapere il seguito basta aprire un giornale. Non è un happy ending.



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