di Marino
Badiale e Fabrizio Tringali
Megachip.
Il
blog “goofynomics”,
curato da Alberto
Bagnai,
ha pubblicato di recente un post
di critica alla decrescita.
Si tratta di una critica interessante perché è condotta con spirito
e garbo, e soprattutto perché rappresenta una piccola antologia
delle obiezioni che solitamente vengono portate alla decrescita.
Ci
sembra perciò utile provare a rispondere: può essere questa
un’occasione per chiarire in una volta sola vari punti relativi
alla nozione di decrescita.
Possiamo
distinguere le obiezioni di
Bagnai in due
gruppi:
in un primo gruppo mettiamo gli argomenti che sono sì obiezioni, ma
non alla decrescita. In un secondo gruppo mettiamo le effettive
obiezioni alla decrescita.
Esaminiamo
le obiezioni del primo gruppo.
In
primo luogo, Bagnai critica in maniera sferzante coloro che pensano
che l’attuale crisi economica sia l’occasione per riscoprire
costumi di vita più austeri, per superare o ridurre il consumismo,
per tornare a rapporti umani più veri. Le critiche di Bagnai colgono
perfettamente nel segno, e colpiscono una retorica dolciastra che si
percepisce nei media, e che cerca di indorare la pillola dell’attacco
inaudito ai diritti e ai redditi dei ceti popolari compiuto in Italia
dall’attuale governo di tecnocrati chiamati a realizzare i diktat
dell’Unione Europea.
Bagnai
ha ragione, ma le sue critiche non toccano la decrescita. Un teorico
della decrescita comeSerge
Latouche ha
sempre affermato, con tutta la chiarezza possibile, che,
se si rimane nell’attuale società, costruita intorno alla
necessità dell’aumento del PIL, la
mancanza di crescita è una catastrofe.
Infatti, se tutto ciò che serve alla vita si può ottenere solo in
cambio di denaro, non aver denaro (o averne meno) significa avviarsi
verso la miseria. Questa semplice verità significa che la crisi, da
sola, non produrrà nessun rivolgimento morale anticonsumistico:
produrrà solo disperazione, e, per reazione, moti politici dagli
esiti imprevedibili.
La proposta
della decrescita,
se pensata seriamente, non è la proposta di un po’ più di
austerità o di un po’ meno consumismo. Non
ha nulla di moralistico.
È una proposta di fuoriuscita dalla società della crescita. Si
tratta di liberare la società dalla necessità di aumentare
continuamente la sfera della produzione di merci, cioè di beni
destinati ad essere scambiati sul mercato, necessità indotta dalla
logica dell’accumulazione capitalistica. Siamo costretti
a crescere perché
il fine
della produzione è
l’accumulazione
di profitti, non la soddisfazione di bisogni.
“Decrescita”
non vuol dire dover necessariamente diminuire continuamente la
produzione. Si tratta invece di produrre al fine di vivere meglio,
non di accumulare capitale. La decrescita vuole abbattere il dogma
dell’obbligo della crescita, senza sostituirlo col dogma opposto
della “necessità” della diminuzione continua del PIL.
Poiché
la crescita è necessaria al capitalismo, che senza di essa non può
sopravvivere, “decrescita” significa fuoriuscita dal capitalismo.
È insomma una proposta rivoluzionaria. E ha bisogno di una teoria
politica che sia all’altezza di tale proposta. C’è chi deplora
il consumismo, ma non si rende conto di come esso sia funzionale alle
esigenze del capitalismo, né percepisce che la diminuzione “forzata”
dei consumi indotta dalla crisi e dalle scelte politiche
drammaticamente recessive in atto non è fonte di liberazione, ma è
un terribile (e voluto) atto di violenza perpetrato prevalentemente
ai danni della fascia più debole di popolazione. Ebbene, chi la
pensa così ha poco a che fare col pensiero della decrescita.
La
seconda obiezione di Bagnai riguarda il progresso
tecnologico.
Bagnai afferma che esso è necessario per pensare una società meno
distruttiva nei confronti dell’ambiente. Anche qui, la sua
obiezione è corretta ma non riguarda la decrescita, i cui teorici
hanno sempre dichiarato la necessità di tecnologie opportune. Si
tratta semmai di discutere quali
tecnologie sviluppare (e
quindi, anche, quali
non sviluppare),
quali filoni di ricerca scientifica incrementare, e così via: ma
queste sono le normali discussioni di politica scientifica di un
paese democratico, che si svolgono nell’attuale società della
crescita e si svolgeranno anche in una futura società diversa.
Passiamo
infine a quella che ci sembra rappresenti l’unica
effettiva obiezione alla decrescitasvolta
da Bagnai. Egli nota che una politica di decrescita avrebbe l’effetto
di generare risparmio. E si chiede come la gente potrebbe utilizzare
il denaro risparmiato grazie, per fare solo un esempio, a politiche
di miglioramento del rendimento energetico della abitazioni.
Se
lo spende, non c’è nessuna decrescita ma solo uno spostamento nei
consumi.
Se
lo risparmia, il denaro non può che essere investito nella
produzione materiale (e quindi in ulteriore crescita) oppure nella
finanza, con l’effetto di crescita (pessima) delle bolle
speculative.
È
tutto giusto.
Tuttavia
la risposta a questa obiezione è semplice: il risparmio generato
dalle politiche di decrescita non deve tradursi in aumento del denaro
a disposizione del pubblico, ma indiminuzione
dell’orario di lavoro,
cioè in aumento
del tempo libero.
La
società della decrescita presuppone una organizzazione sociale che
consenta di lavorare meno e recuperare tempo. Tempo da dedicare ai
rapporti umani, alle relazioni comunitarie, a produzione e scambio di
beni non in forma di merci.
In
generale gli aumenti di capacità produttiva dovrebbero essere
“investiti” soprattutto in diminuzione del tempo di lavoro,
favorendo quindi, fra l’altro, la piena occupazione.
Naturalmente,
il fatto che una politica di tipo decrescista si traduca in aumento
del tempo libero non è automatico. Nei paesi occidentali da molto
tempo gli aumenti di produttività non si traducono in diminuzione
dell’orario di lavoro ma piuttosto in aumento dei profitti (e,
quando va bene, delle retribuzioni), in diminuzione dei prezzi, in
aumento della competitività.
Anche
per questo motivo hanno torto coloro che pensano alla decrescita in
termini di diminuzione parallela di Stato e Mercato. Per realizzare
politiche decresciste efficaci e vantaggiose per i ceti medi e
popolari, è necessaria una politica economica coerente coordinata
dallo Stato. Ma questa è un’altra discussione.
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