«E'
NECESSARIA UNA STRATEGIA DI USCITA DALL'EURO»
di
Emiliano Brancaccio*
Merkel
smentisce Monti: altri cinque anni di crisi. Ma questa colpisce duro
in maniera diseguale. L'euro accresce i fattori di squilibrio. Chi
pensa che a causa della calma apparente dello spread la
moneta unica l'abbia scampata si sbaglia. Per essere più precisi:
l'euro è tenuto in piedi, prima ancora che dalla Bce, dal fatto che
i popoli subiscono i programmi di austerità e affamamento. L'euro
sembra dire, anzitutto al popolo lavoratore italiano: mors
tua, vita mea.
L’aspetto
più inquietante dell’ultimo rapporto ISTAT non risiede nella
notizia che la disoccupazione in Italia ha fatto registrare
l’ennesimo picco. L’allarme principale riguarda il 2013: per
l’anno prossimo l’istituto nazionale di statistica prevede ancora
recessione e un incremento ancor più accentuato dei senza lavoro.
L’ISTAT conferma così lo scenario depressivo che era stato già
evocato ad ottobre dal Fondo Monetario Internazionale, con una
pesante revisione al ribasso delle previsioni future di crescita
della zona euro e soprattutto dell’Italia. Il quadro che si
prospetta è dunque dei più funesti, ma in fondo non dovrebbe
meravigliare. Due anni e mezzo fa, ai primi cenni della crisi
europea, duecentocinquanta economisti pubblicarono una “Lettera” che
lanciava l’allarme sui pesantissimi effetti recessivi che le
politiche di austerity avrebbero
determinato. Un appello profetico, che rimase inascoltato. Il
risultato è che oggi precipitiamo nella depressione senza nemmeno
intravederne il pavimento.
Le
stime degli istituti di ricerca appaiono particolarmente impietose
per il governo italiano. Esse ci dicono che tra il professor Monti,
che con voce sempre più incerta tuttora favoleggia su una
fantomatica «luce in fondo al tunnel», e la signora Merkel, che
brutalmente ci comunica che non usciremo dalla crisi prima di cinque
anni, la cancelliera tedesca appare molto più in sintonia con la
realtà dei dati economici.
Del
resto non è la sola, dalle sue parti: a Berlino in tanti ormai
riconoscono che le politiche di taglio della spesa pubblica e di
aumento della pressione fiscale deprimeranno i redditi e
l’occupazione molto più a lungo e più intensamente di quanto si
fosse disposti ad ammettere qualche mese fa. Sbagliano però i
commentatori che interpretano questa presa d’atto della Merkel come
un sintomo di ripensamento sugli effetti dell’austerity. Questa
speranza è diffusa soprattutto tra le file della sinistra francese e
nostrana, ma sembra mal riposta.
Gli
europeisti speranzosi dovrebbero infatti rammentare che questa crisi
ricade in modo asimmetrico sul continente. La Germania la subisce in
misura molto meno accentuata di noi e degli altri paesi del Sud
Europa, e per molti versi riesce persino a sfruttarla a proprio
vantaggio. Basti notare che dal 2007 ad oggi in Italia abbiamo perso
settecentomila posti di lavoro, mentre l’economia tedesca ha fatto
registrare un milione e seicentomila nuovi occupati. Anche la
distribuzione sul continente dei fallimenti aziendali riflette questa
profonda asimmetria europea. Ma soprattutto, sembra sfuggire ai più
che la crisi sta determinando una caduta del valore relativo dei
capitali industriali e bancari dei paesi del Sud Europa. I grandi
possessori di liquidità, in buona parte situati in Germania,
potranno sfruttare in misura crescente questi deprezzamenti per
fareshopping a buon mercato alle nostre latitudini, col
risultato di depauperarle ulteriormente.
Insomma, le autorità
tedesche e i gruppi d’interesse prevalenti in Germania leggono i
dati della crisi con più onestà del nostro establishment,
ma non sembrano per questo intenzionati a modificare l’orientamento
della politica economica europea. La Merkel e i suoi ammettono che la
traversata nel deserto della crisi sarà lunga. Essi tuttavia
sembrano concepirla come una sorta di passeggiata “purificatrice”,
che lascerà un bel po’ di vittime per strada ma che proprio per
questo favorirà il processo di egemonizzazione tedesca dell’economia
europea. Al di là delle scaramucce nel consiglio direttivo della
Bce, lo stesso Draghi ha assecondato questa visione, considerando la
minaccia dellospread il più efficace propulsore delle
“riforme” imposte da Berlino. Di fronte a queste poco
rassicuranti evidenze, l’europeista speranzoso tuttora confida in
una svolta keynesiana guidata dai socialdemocratici tedeschi. Ma a
ben guardare nemmeno questi sembrano desiderosi di prender le
distanze dall’attuale concezione “imperiale” della
ristrutturazione europea. Anzi, talvolta tendono ad attaccare la
Merkel proprio sul versante del “rigore”, esigendo dalla
cancelliera una fedeltà se possibile ancor più cristallina alla
dottrina dell’austerity.
Forse, anziché limitarsi a
sperare, la sinistra europeista potrebbe iniziare a
interrogarsi. Per esempio: se le buone intenzioni di riforma
dell’Unione europea indicate nella “carta d’intenti” delle
primarie si scontreranno con l’indifferenza dei compagni e amici
tedeschi da un lato e con la realtà di una crisi produttiva e
occupazionale senza freni dall’altro, la sinistra italiana farà
bene a rassegnarsi o dovrà piuttosto cominciare a elaborare una
strategia di uscita dalla moneta unica e una revisione critica del
mercato unico europeo? La questione, per quanto scomoda, inizia a
farsi urgente.
*
Fonte: Pubblico Quotidiano del 6 novembre 2012
Tratto da: http://sollevazione.blogspot.it
Nessun commento:
Posta un commento