di Luigi Cavallaro
fonte: ilManifesto.it
All'origine
della crescita del debito pubblico nel nostro paese c'è il divorzio
consumato negli anni Ottanta tra Banca d'Italia e governo politico
dell'economia per ripristinare il comando del capitale sulla società.
Un percorso di lettura.
Nell'autunno
1980, gli indicatori dell'economia italiana mostravano un andamento
contrastato. Nonostante una rilevante crescita del reddito nazionale,
in decisa controtendenza rispetto agli altri Paesi industrializzati,
la bilancia dei pagamenti era passata dal consistente avanzo
realizzato nel biennio 1977-78 ad un ancor più largo disavanzo.
L'inflazione viaggiava al ritmo del 2% al mese, con aspettative di
peggioramento rese evidenti dal sostenuto aumento dei prezzi dei
beni-rifugio. La Banca d'Italia, benché avesse riconquistato
quell'autorevolezza che aveva visto vacillare durante l'affaire
Baffi-Sarcinelli, faticava non poco nella gestione della liquidità:
cinque anni prima, in occasione della riforma dell'emissione dei
Buoni ordinari del Tesoro (Bot), si era infatti impegnata ad
acquistare tutti i titoli pubblici che fossero rimasti invenduti in
asta, accettando di fatto di finanziare i disavanzi del Tesoro con
l'emissione di moneta. Non solo, ma il Tesoro poteva attingere ad
un'apertura di credito in conto corrente pari al 14% delle spese
iscritte in bilancio e deteneva il potere di modificare il tasso di
sconto, vale a dire il tasso a cui la Banca presta denaro alle altre
banche del sistema e che di fatto decide dell'intera struttura dei
tassi d'interesse. I quali, nonostante il brusco rialzo subito sui
mercati internazionali a seguito della svolta monetarista voluta
l'anno precedente dal Governatore della Federal Reserve, Paul
Volcker, si mantenevano perciò ancora negativi, ossia al di sotto
dell'inflazione.
Un
problema di potere.
Al
Ministero del Tesoro si era appena insediato il democristiano Nino
Andreatta. Già consigliere economico di Aldo Moro, negli anni
Sessanta era entrato in contatto con diversi giuristi ed economisti
che, pur avendo gravitato a lungo intorno ad Antonio Giolitti
(ministro socialista al tempo dei primi governi di centrosinistra e
deciso sostenitore della programmazione economica), si stavano
gradatamente spostando su posizioni più conservatrici, timorosi che
l'assetto istituzionale, già spinto su posizioni assai progressive
dall'azione combinata dei governi del decennio precedente e della
ribellione operaia e studentesca, potesse subire ulteriori
slittamenti in senso «statalista». Ne facevano parte, tra gli
altri, Giuliano Amato e Francesco Forte, e Andreatta condivideva le
medesime loro preoccupazioni: «Quando la spesa pubblica raggiunge il
55% del Pil - avrebbe detto ad esempio nel 1981, in occasione di un
intervento all'assemblea nazionale della Dc - si sono raggiunti
livelli oltre i quali l'equilibrio tra area amministrata e area
libera dell'economia appare impossibile da salvaguardare».
Appena
dissimulato dietro il linguaggio felpato dell'economista fedele al
mainstream, emerge qui con chiarezza un punto politico: il comando
pubblico sulla moneta si traduceva di fatto in un comando pubblico
sul capitale monetario, perché la Banca centrale, obbligata ad
emettere tutta la base monetaria di cui lo stato necessitava per
perseguire le proprie finalità produttive, redistributive e di
stabilizzazione, non poteva più assecondare la tendenza del capitale
monetario a «rarefarsi» allorché mancassero adeguate prospettive
di profitto. Keynes aveva colto in questa attitudine della moneta a
ritrarsi dalla circolazione «il potere oppressivo e cumulativo del
capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», e
aveva avvertito che in una società che fosse finalmente riuscita a
venire a capo dei propri problemi di arretratezza non vi sarebbe
stato logicamente posto se non per un saggio medio del profitto
progressivamente decrescente; ciò che deliberatamente aveva omesso
di dire era che ne sarebbe venuta la tendenza dell'economia pubblica
a «socializzare» sempre più la produzione e riproduzione sociale -
questo e non altro era l'«eutanasia del rentier»!
Di questo
rischio era invece consapevole Carlo Azeglio Ciampi, da poco asceso
al soglio di Governatore della Banca d'Italia. Proprio per ciò, a
suo avviso bisognava sopprimere il legame in quel momento esistente
tra il potere di creazione della moneta e quello di decidere
l'ammontare della spesa pubblica, il che imponeva che si rimettesse
mano ai modi in cui la Banca centrale finanziava il Tesoro: «In
particolare, è urgente che cessi l'assunzione da parte della Banca
d'Italia dei Bot non aggiudicati alle aste», si legge nelle
Considerazioni finali del 1981. E Andreatta, pur essendo d'accordo,
si trovava ostaggio di una compagine governativa che - per dirla con
le sue stesse parole - era «ossessionata dall'ideologia della
crescita ad ogni costo» e non intendeva affatto abbandonare quella
combinazione di alta spesa pubblica, tassi d'interesse negativi e
cambio debole che fino ad allora l'aveva resa possibile, nonostante
gli sconquassi internazionali generati dal secondo shock
petrolifero.
Si arrivò così all'idea di una «congiura aperta»
(la definizione fu dello stesso Andreatta) tra il ministro del Tesoro
e il Governatore della Banca d'Italia, che potesse restituire
all'istituto di emissione l'agognata autonomia. Il 12 febbraio 1981,
Andreatta scrisse a Ciampi una lettera in cui esprimeva i propri
dubbi sull'opportunità che la Banca d'Italia si facesse garante
della collocazione dei titoli di stato al tasso voluto del Governo e
dovesse per giunta finanziare il Tesoro con lo scoperto di conto
corrente, auspicando che la Banca recuperasse la propria libertà di
autodeterminazione su entrambi i fronti. Il 6 marzo, Ciampi rispose
manifestando il suo assenso sulle «linee di ragionamento»
dell'interlocutore e ricordando come «a conclusioni similari» fosse
pervenuto in occasione della relazione tenuta il 18 febbraio
precedente all'Associazione Nazionale di Banche e Banchieri.
Fu il
«divorzio». Il quale non venne neanche portato all'approvazione del
Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr): le
proteste e le critiche levatesi da parte socialista, repubblicana e
anche democristiana all'indomani della pubblicazione dello scambio
epistolare con Ciampi indussero infatti Andreatta a trincerarsi
dietro un paravento giuridico escogitato dai tecnici del Tesoro
(secondo i quali la revisione delle disposizioni impartite alla Banca
d'Italia rientrava nella competenza esclusiva del Ministro) allo
scopo di scansare il rischio che la sua decisione venisse
affossata.
Socializzare gli investimenti.
Nell'opinione
dei due «congiurati» il controllo amministrativo del credito -
ossia il comando pubblico sul capitale monetario - non consentiva più
di tenere l'economia italiana al riparo dall'inflazione e dagli
squilibri della bilancia dei pagamenti: per restare al riparo dal
rialzo dei tassi d'interesse internazionali sarebbe stato necessario
procedere ulteriormente sulla strada keynesiana della
«socializzazione dell'investimento». Una strada «agghiacciante»,
come avrebbe scritto Guido Carli nelle sue memorie, perché implicava
che la Banca centrale e il sistema bancario diventassero semplici
organi esecutivi delle decisioni allocative del Governo e che gli
eventuali vincoli all'espansione monetaria derivanti dallo squilibrio
della bilancia dei pagamenti potessero influire solo sul volume di
credito disponibile per il settore privato: giusto come in Urss.
Le
conseguenze del «divorzio» furono immediate: le aste dei Bot
tenutesi a partire dal secondo semestre 1981 segnarono il ritorno dei
tassi d'interesse su livelli positivi, scongiurando il pericolo
incipiente dell'eutanasia dei redditieri. C'era però un problema,
perché in un contesto internazionale dominato da alti tassi
d'interesse il ricorso dello stato ai mercati finanziari era
destinato inevitabilmente ad aumentare la quota di spesa pubblica
destinata alla semplice remunerazione del denaro preso a prestito.
Nell'ottica dei «congiurati», in effetti, il venir meno
dell'obbligo della Banca centrale di finanziare il Tesoro avrebbe
dovuto indurre la classe politica a ridurre la spesa pubblica e, con
essa, lo spazio dell'intervento pubblico nella produzione e
riproduzione sociale: prendendo a prestito le parole di Andreatta,
«l'equilibrio tra area amministrata e area libera dell'economia»
avrebbe dovuto ricostituirsi ad un livello che vedesse quest'ultima
tornata in una posizione di supremazia. Complice una Costituzione
repubblicana decisamente «interventista», non la penserà
propriamente allo stesso modo la classe politica al governo, nemmeno
quando a Palazzo Chigi salirà Bettino Craxi. E accadrà così che,
sebbene nel decennio successivo il saldo tra entrate e uscite
pubbliche al netto degli interessi si mantenesse quasi costantemente
positivo, il debito pubblico giungerà praticamente a raddoppiare,
passando dal 58% del 1981 al 124% del 1992.
Leonardo
Sciascia l'avrebbe probabilmente definita «una storia semplice».
Mostra che all'origine del nostro debito pubblico non c'è affatto un
eccesso di spese sociali rispetto alle entrate, e nemmeno la
famigerata evasione fiscale: c'è solo un'aumentata spesa per
interessi, a sua volta conseguenza del «divorzio» fra Tesoro e
istituto di emissione. Più che una «tangente», come titolò questo
giornale vent'anni fa per definire la pesantissima manovra
finanziaria con cui il governo Amato dava l'avvio ad una stagione non
più consentanea rispetto all'espansione della spesa pubblica, si
trattava di una tassa: una tassa che il capitale nuovamente egemone
tornava a imporre alla società per riprodursi come modo di
produzione dominante.
La
riduzione del danno.
Si
comincia solo adesso a far strada l'idea che la lotta di classe si
dispiega oggigiorno intorno al debito pubblico. Sfortunatamente, a
prevalere (anche a sinistra) sono ancora visioni del problema
ispirate da concezioni essenzialmente libertarie, che nel debito -
pubblico o privato che sia - vedono semplicemente quel rapporto di
potere e di asservimento che indusse Nietzsche a collocarlo a monte
della genealogia della nozione di «colpa»: in lingua tedesca,
infatti, Schuld vuol dire sia l'una che l'altra
cosa.
Sfortunatamente, da Nietzsche non s'impara mai nulla
dal punto di vista propriamente storico: egli parla sempre del
presente, il presente del suo tempo dominato dal capitale
finanziario, e tutte le sue ricostruzioni sono puramente mitiche.
Pensate e scritte ad uso e consumo della piccola borghesia
austro-tedesca di fine Ottocento, oppressa da banche e cartelli la
cui storia reale fu invece magistralmente narrata da Rudolf
Hilferding, giammai possono offrire una base scientifica per
comprendere il nostro presente e tentare di trasformarlo. La riprova
è che tutte le suggestive fenomenologie dell'«uomo indebitato»
apparse in questi quattro anni ormai trascorsi dall'esplosione della
crisi finanziaria precipitano inevitabilmente nell'idea alquanto naif
del «ripudio» del debito, magari dietro preventivo audit. Sovviene
al riguardo un celebre articolo del giovane Gramsci sui tardivi
piagnistei degli «indifferenti»: «eterni innocenti» di una storia
che si è fatta anche e soprattutto grazie al loro «lasciar fare» e
che, quando gli eventi che hanno lasciato che accadessero gli si
voltano contro, bestemmiano o piagnucolano di «fallimenti ideali, di
programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze».
La generazione del baby boom ne offre purtroppo un vasto
campionario.
I
vincoli esterni.
D'altra
parte, la pur giusta rivendicazione della necessità del debito
pubblico (o meglio, di una spesa pubblica non condizionata da
obiettivi di remunerazione del capitale) non può non misurarsi con
il problema rappresentato dall'assenza di un meccanismo
internazionale del tipo di quello che Keynes aveva prospettato nella
sua celebre proposta della Clearing Union (1941), ossia capace di
evitare che l'onere dell'aggiustamento degli squilibri nelle bilance
dei pagamenti ricada per intero sui Paesi debitori: il problema del
«vincolo esterno», dietro il quale si nasconde la propagazione
all'estero degli effetti moltiplicativi della spesa pubblica interna,
non è infatti allo stato in alcun modo eludibile, se non (e non
indefinitamente) dagli Stati Uniti, che battono la moneta di riserva
mondiale.
In questo senso, hanno ragione quanti individuano
una linea di continuità tra la proposta di «austerità» che fu di
Enrico Berlinguer e la politica dei «sacrifici» che ci viene
imposta dal Governo in carica. Salvo che, nell'un caso, si trattava
di farsi portatori di «un modo diverso del vivere sociale», attento
alla qualità dello sviluppo e proprio per ciò orientato
dall'esigenza di spostare gli obiettivi della produzione dallo
stimolo ai consumi privati al soddisfacimento in forma pianificata di
bisogni collettivi, mentre nell'altro si tratta banalmente di
deflazionare la domanda interna allo scopo di pareggiare lo
squilibrio della bilancia dei pagamenti e di spezzare le reni al
lavoro dipendente in modo da garantire il mantenimento dei margini di
profitto a produzioni private non più competitive sul piano
internazionale. Non è una differenza da poco.
fonte secondaria: http://www.appelloalpopolo.it/?p=7465
fonte secondaria: http://www.appelloalpopolo.it/?p=7465
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