Alla
luce delle odierne dinamiche economiche, appare davvero interessante
analizzare alcuni aspetti di quella che è passata alla storia come
una delle più profonde crisi del capitalismo mondiale: la crisi
del '29.
Il grande
crollo di borsa dell'Ottobre 1929 infatti ha segnato tutta
un'epoca, determinando una serie di conseguenze profonde di natura
politica, sociale ed economica di lungo periodo.
A
questo proposito si possono rintracciare alcuni aspetti che
caratterizzarono concretamente il substrato economico e sociale che
favorirono il crollo azionario del '29, attraverso i quali
comprendere meglio sia le ragioni della crisi, sia le risposte che ad
essa furono date. Precisiamo che tale analisi riguarda specificamente
le condizioni dell'economia americana, anche se con un certo grado di
approssimazione esse erano comuni a tante altre realtà.
In
Italia, ad esempio, la crisi del '15/'21 (che aveva pesantemente
colpito anche gli Stati Uniti) fu affrontata in maniera energica
dal Fascismo con un cambio radicale nella politica
economica governativa. Furono i prodromi di una
politica quasi-keynesiana, su basi non
democratiche e di irregimentazione sociale. Pur
tuttavia questo non bastò a risparmiare il paese dagli sconquassi
della crisi, ma di certo ne “attenuò” la virulenza. Il che, come
è evidente anche nella politica successiva del governo Nazista in
Germania, dimostrò la bontà di principio delle tesi dell'economista
inglese ben prima che venissero applicate negli USA e nel resto del
mondo occidentale dopo il conflitto mondiale. A questo proposito
sarebbe utile sottolineare come il “New Deal” roosveltiano prima
della guerra ebbe effetti non decisivi, per i motivi che verranno
esposti di seguito.
Andiamo
comunque ad analizzare le questioni succintamente.
Il
periodo prima del '29, presentava una situazione fortemente
diseguale nella distribuzione della ricchezza. Ad
esempio, il 5% della popolazione deteneva più di un terzo della
ricchezza complessiva degli USA. Questa situazione era favorita
dall'aumento esponenziale, derivato dalla ripresa economica dopo la
recessione del '15/'21, dei profitti da attività propriamente
finanziarie, ma anche da un incremento non trascurabile degli
investimenti e dei profitti da attività produttive. Da questo punto
di vista, alla vigilia dell'Ottobre 1929, la situazione appariva
florida e l'entusiasmo e la voglia di investire in borsa erano
diventati quasi uno sport nazionale.
Nonostante
questo, alcuni indicatori economici fondamentali evidenziavano come
non era tutto oro quel che scintillava. Infatti un aspetto importante
(e che si rivelerà decisivo) era rappresentato da una produzione
industriale che nel corso del decennio di boom era cresciuta a tassi
sostenuti, la produttività del lavoro addirittura del 43%, mentre
salari e prezzi erano rimasti praticamente fermi. Questo comportava
un aumento dei profitti (e dunque l'espansione anche del mercato
azionario), ma generava una sovracapacità produttiva che
presto avrebbe fatto sentire i suoi effetti nefasti sulla domanda.
Un
altro aspetto strutturale di debolezza del sistema dell'epoca era
rappresentato da un'architettura societaria che J.K.
Galbraith definì eufemisticamente “cattiva”. La
formazione dei cosiddetti Investement trust, cartelli di
società azionarie legate alle banche e alle imprese, studiate
appositamente per l'investimento in borsa e la moltiplicazione dei
profitti attraverso quello che viene definito il “principio della
leva ”, favorì il boom azionario del '27/'29, producendo i germi
della “grave malattia” che di lì a poco sarebbe esplosa. Inoltre
l'attività delle Holding, soprattutto nei servizi
pubblici, determinavano un ulteriore fattore di debolezza societario
che esponeva le “controllate” in maniera abnorme rispetto alle
fluttuazioni del mercato azionario (principio della leva al
contrario) il che alimentava, tra l'altro, in piena crisi, la spirale
deflazionistica.
Un
elemento di fragilità economica generale, molto importante, era
rappresentato inoltre dalla struttura bancaria. In quel
periodo le Banche Commerciali non erano separate da
quelle di Investimento (la separazione fu decisa nel
1933), il che favoriva l'attività speculativa attraverso la facilità
di credito che, nel clima generale di “euforia da borsa”,
assecondava l'aumento delle “bolle finanziarie” sui mercati
azionari (un caso emblematico fu, prima del '29, la Bolla
Immobiliare che investì la Florida).
Altro
elemento di instabilità e di fragilità era rappresentato,
precipuamente per gli Usa, ma in maniera generale in quasi tutti i
paesi del mondo, da uno squilibrio nella “Bilancia dei
Pagamenti”. Tra crediti esteri, importazioni, esportazioni e
debiti, in ogni paese inserito a pieno titolo nel mercato mondiale,
tale squilibrio era più o meno marcato e avrebbe sortito i peggiori
effetti una volta scoppiato il “bubbone azionario”.
Il
tutto era ingigantito dal “ritorno” al Gold Standard.
Dopo il frettoloso abbandono del 1914 (ad eccezione degli USA), la
successiva crisi aveva fatto rientrare Gran Bretagna (1925) e
Germania (1924) alla base aurea. Essa divenne, insieme agli altri,
uno dei fattori di squilibrio nelle bilance dei pagamenti. Con
la Grande Depressione successiva al '29, l'abbandono
da parte di tutti i paesi del Gold Standard fu un
fatto assodato (1931).
Su
tutto questo si innestava il dogma economico dell'epoca: il pareggio
di bilancio. In Usa, come in Inghilterra, il pareggio di bilancio
fu una politica che fu portata avanti sia nel periodo precedente, che
in quello successivo al crollo della borsa.
La
politica del pareggio di bilancio, in una situazione di crisi,
significava in ultima analisi l'impossibilità di incrementare le
spese del Governo al fine di espandere il potere d'acquisto e
attenuare le difficoltà. Significava inoltre che non poteva
sussistere alcuno sgravio fiscale e questo in una
situazione di deficit già acquisito, voleva dire al contrario un
aumento delle imposte e/o una riduzione delle spese. Il pareggio di
bilancio, era visto come la formula necessaria per evitare
l'inflazione e (prima del 1931) l'abbandono della base
aurea. Il fatto che dunque gli Stati Uniti si privavano degli
strumenti della leva fiscale e monetaria, equivaleva precisamente al
rigetto di ogni politica economica positiva da parte del governo per
frenare la crisi.
E
le conseguenze furono profonde.
Come
abbiamo visto i fattori di debolezza economica, non solo
favorirono il crollo di borsa, ma furono la causa principale di
inasprimento delle conseguenze economiche e sociali della depressione
che ne scaturì, dove i fallimenti a catena di banche, imprese e
l'aumento sconsiderato della disoccupazione e della miseria, misero
in ginocchio vastissimi strati della popolazione dell'epoca.
Quando
Roosvelt, sulla scorta delle teorizzazioni di J.M. Keynes,
varò il “New Deal” (Nuovo Corso), i danni
causati dalla depressione seguita al crollo di borsa, erano talmente
profondi che, nonostante la bontà delle misure adottate (1933), il
tentativo roosveltiano non riuscì a frenare la spirale economica
negativa.
Il
paese che più si avvantaggiò di una politica “keynesiana” (con
tutte le dovute differenze rispetto agli USA), fu la Germania Nazista
che, grazie alla cancellazione dei debiti di guerra,
all'abbandono della base aurea, alla sovranità monetaria e alla
politica di economia pubblica (ripresa dal Fascismo), riuscì ad
arrestare l'iperinflazione, la depressione e favorì una crescita
economica stupefacente, soprattutto nel comparto militare-industria
pesante. Questo era determinato dalla volontà hitleriana di
conquistarsi a forza di bombe e carri armati, invasioni e
colonizzazioni, sempre più accesso diretto alle risorse strategiche
del mondo che erano ancora in mano all'Impero Britannico, alla
Francia e agli USA, da una parte e alla neonata Unione Sovietica,
dall'altra, che, sebbene non sconvolta dalla crisi economica
(viaggiava ad un tasso di crescita annuo superiore al 10%, partendo
però da una base molto bassa), era tuttavia “massacrata” dalle
purghe staliniane che affondavano definitivamente la rivoluzione
bolscevica e la prospettiva socialista mondiale.
Quello
che però, in via definitiva, favorì l'uscita dalla crisi e il
successo delle politiche keynesiane, fu, paradossalmente (per chi è
ingenuo), la Guerra Mondiale che, in virtù
dell'immane distruzione che causò, rese possibile una nuova
accumulazione capitalistica e diede slancio alle forme “miste”
del keynesianesimo sociale ed economico (Welfare, sistema misto
pubblico-privato, sistema industriale fordista). Questo fino agli
anni '70, dove, dopo gli shock petroliferi, una
nuova crisi investì il capitalismo mondiale. In qualche modo se ne
uscì alla “maniera pre-'29”, con una riduzione
drastica dell'intervento statale in economia, la progressiva
liberalizzazione dei mercati, l'abbandono degli accordi di
Bretton-Woods e il ritorno ai cambi fluttuanti
(inconvertibilità del dollaro in oro), in una parola
il neo-liberismo economico teorizzato da Milton
Friedman. Il tutto generò il “piccolo boom” degli anni '80
che, in maniera indiretta, favorì il crollo definitivo dell'Unione
Sovietica e la liberalizzazione dei mercati dell'Est
(globalizzazione), le cui conseguenze generali, oggi scontiamo
pesantemente.
Aldilà
comunque di queste considerazioni, l'interesse maggiore dell'analisi
delle condizioni di debolezza strutturali dell'economia americana (e
di conseguenza mondiali) degli anni '30, risiede nel fatto che
attraverso queste è possibile osservare l'attuale crisi economica,
sottolineandone le similitudini con quella del '29 e soprattutto
valutando gli effetti e i possibili sviluppi delle politiche che, in
particolare in Europa, si stanno oggi adottando.
Da
questo punto di vista la cosa si fa interessante.
Infatti
se guardiamo alle condizioni analizzate precedentemente, possiamo
notare come:
- nel '29, l'integrazione dei mercati mondiali aveva raggiunto livelli mai visti: oggi la situazione è enormemente più estesa e favorita dalle moderne tecnologie della comunicazione e dei trasporti che permettono velocità di spostamento di merci e capitali, al tempo impensabili;
- sussiste anche oggi una condizione di crisi della domanda aggregata mondiale e di una sovracapacità produttiva marcata;
- esiste una sperequazione nella distribuzione della ricchezza enormemente maggiore rispetto a quella del 1929 che vede oggi il 2% della popolazione mondiale detenere oltre il 50% della ricchezza complessiva del pianeta (4 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno);
- l'impianto finanziario e societario oggi è estremamente più variegato ed enormemente più “incline” alla creazione di bolle speculative (struttura societaria di Holding, Multinazionali, fondi di investimento bancario, finanza derivata ecc ecc);
- la posizione preminente nel sistema economico di quello bancario e la sua struttura paragonabile a quella del '29 (l'abbandono della divisione tra banche commerciali e di investimento fu ratificato nel 1999 sotto l'amministrazione Clinton, ripudiando il Glass-Steagall Act introdotto da Roosvelt nel 1933 per frenare gli eccessi che avevano contribuito, come abbiamo visto, al crollo economico);
- assistiamo oggi a quella che è stata definita la “crisi dei debiti sovrani”, determinati da una serie di fattori che incidono pesantemente anche sugli equilibri delle bilance dei pagamenti, riproponendo in maniera ingigantita la situazione del '29;
- tranne gli USA (che godono della posizione privilegiata di possedere la moneta di riserva mondiale, ma sono pesantemente colpiti dalla crisi), in Europa viene perseguita, attraverso il Fiscal Compact, la politica del pareggio di bilancio;
Le
analogie, come vediamo sono tante.
Il
problema, oggi, è di dimensioni. Tutte le condizioni analizzate,
infatti, presentano oggi proporzioni decisamente più grandi rispetto
al '29, il che significa che anche gli effetti della crisi potrebbero
esserlo altrettanto.
Inoltre
le politiche economiche che si stanno portando avanti, invece di
garantire un'attenuazione, favoriscono l'esacerbazione della crisi.
Se
infatti analizziamo le “ricette” adottate dalle varie economie
nazionali del tempo, notiamo oggi come le strategie messe in campo,
siano esattamente all'opposto di quello che si fece negli anni '30,
'40 e '50.
In
Europa, con il sistema monetario chiamato euro, non solo
gli Stati Nazionali sono soggetti al “ricatto” dei mercati
finanziari, ma pagano un dazio enorme sui propri debiti sovrani in
quanto sovraccaricati dalla spirale degli interessi, dall'aumento
dell'inflazione, dalla caduta dei consumi e della crescita, dalla
sperequazione nella circolazione dei capitali.
Le
politiche proposte, in altre parole, sono recessive nelle intenzioni
e negli effetti. Ed è improbabile che nessuno degli attori
principali che gestiscono la crisi, se ne accorga o ignori che sia
così.
Evidentemente,
come già più volte sostenuto, si tratta di un disegno preciso che
serve a tenere i paesi più deboli in una condizione di subalternità,
costringerli alla svendita dei propri patrimoni pubblici attraverso
le politiche di rigore in bilancio, in modo tale da favorire quelli
più forti che, grazie vantaggi acquisiti, potrebbero riuscire nel
medio periodo (più nelle speranze e nelle fantasie) a trainare il
resto dei paesi in una nuova fase di crescita.
Sostanzialmente
un'utopia.
Se
poi guardiamo ai paesi che attualmente se la passano meglio (dopo una
fase di recessione e crollo), sono proprio quei paesi che operano
politiche keynesiane, partendo comunque da una situazione
in cui sono riusciti in un modo o nell'altro a cancellare i propri
debiti (default) o a ristrutturarli (rimodulazione). In particolare,
i paesi del Sud America (Brasile, Argentina,
Venezuela, Ecuador e Bolivia, ma anche Vietnam e Thailandia) mostrano
tassi di crescita molto sostenuti, che però cominciano
inevitabilmente a calare, in quanto la crisi della domanda aggregata
mondiale “infetterà” tutte le economie del pianeta,
configurando, nel breve e nel medio periodo, una situazione di crollo
generalizzato dell'economia. Le proporzioni di tale crollo sono oggi
assolutamente imprevedibili. Le conseguenze, al contrario, sono
ampiamente preventivabili: la guerra.
Il
problema è che il dogma economico dominante, proprio in un periodo
in cui sarebbe richiesto maggior intervento statale,
impone esattamente il contrario, aumentando le disparità sociali e
la sperequazione nella distribuzione della ricchezza, favorendo la
spirale del crollo della domanda e dei consumi, la disoccupazione, la
miseria, il fallimento aziendale e bancario.
Nella
visione del neo-liberismo dominante, forse, una
riproposizione oggi del “New Deal” americano,
che sostanzialmente non riuscì a invertire la rotta della Grande
Depressione, a livello globale, potrebbe generare maggiori problemi
invece di risolverli, o crearne di nuovi.
A
questo proposito, l'avversione che viene mostrata nei confronti
della MMT (Modern Money Theory) di matrice
statunitense, risponde a questa valutazione, ma soprattutto agli
interessi e alle prerogative di quei settori che detengono
attualmente il controllo dell'emissione monetaria. Del resto la leva
monetaria, per quanto fondamentale, da sola non risolverebbe niente.
E probabilmente una politica monetaria globale basata
sulla MMT, per quanto potrebbe avere effetti positivi di breve
periodo, alla lunga genererebbe una situazione ingovernabile sui
mercati mondiali, soprattutto delle risorse, che tra le altre cose
resterebbero comunque ancora sotto il controllo delle multinazionali e quindi soggette alla forza contrattuale dei governi
più forti. Questo naturalmente non risolverebbe nessuno dei problemi
inerenti alla sperequazione della ricchezza e dell'allocazione delle
risorse, anzi creerebbe tensioni intercapitalistiche a livello
nazionale potenzialmente destabilizzanti sul piano militare.
In
riferimento all'energia, sangue e motore del sistema, la crisi
potrebbe infatti anche presentare caratteri di natura strutturale e
investirebbe la capacità delle risorse disponibili a
sostenere i tassi di crescita richiesti per mantenere in piedi il
sistema. Con l'ingresso tra i grandi paesi consumatori, di Cina,
India, Brasile, Sud Africa e tanti altri, rispetto al passato, la
considerazione infatti potrebbe non essere peregrina. E l'alto costo
del petrolio rimane un problema non da poco. Gli esperti sostengono
infatti che l'era dell'energia da combustibili fossili a
basso costo sia definitivamente tramontata ed in mancanza
della capacità rapida (e indolore) di transitare in un nuovo sistema
energetico, la situazione è destinata ad inasprirsi e ad ingigantire
la profondità della crisi.
In
questo modo si spiegherebbero le politiche apparentemente senza
senso (suicide) che le élites euro-atlantiche
stanno portando avanti. Urge una riduzione dei consumi e
questa è la strada.
Ma
a quel prezzo sociale?
E' proprio vero come questa sia una crisi epocale, le conseguenze
della quale potrebbero essere spaventose. Infatti, anche ammesso che
si possa passare lentamente (ed in crisi!) da un sistema energetico
(dapprima misto) ad un altro, le variabili sono talmente tante che
gli sviluppi potrebbero essere del tutto peggiorativi e
imprevedibili.
Nella
Storia il fattore soggettivo ha sempre una certa importanza.
Importanza che dal punto di vista della scienza economica, il più
delle volte viene totalmente ignorata.
L'economia
non è altro che una teoria che viene realizzata. E' l'interazione
dei soggetti coinvolti nella realizzazione pratica di tale teoria che
determina la realtà storica di una data società.
Il
capitalismo, così com'è ha già fatto svariate volte nella sua
centenaria esistenza, sta nuovamente cambiando struttura per
adeguarsi ai problemi che esso stesso ha generato. In questo caso la
dimensione delle problematiche pone delle questioni di un'urgenza
spaventosa.
Negli
anni '30, quando la Depressione mieteva le proprie vittime, si
sarebbe potuto fare qualcosa per salvare il mondo dalla catastrofe
della Guerra. Ma non fu così? Perché?
Ricordiamolo
sempre, personaggi come Hitler, Stalin, Pol Pot, Mussolini, Franco,
Pinochet, Videla, Batista, sono figli del proprio tempo e delle
contraddizioni insite nella società e sono espressione visiva,
evidente, manifesta, della lotta di classe sotterranea che si volge
nelle pieghe della società stessa, nelle fabbriche, sui posti di
lavoro, nelle assemblee parlamentari, nelle piazze, nei bilanci delle
famiglie, ed è dall'impossibilità a comporre le divisioni sociali e
ad evitare lo scontro che emergono queste figure.
La
risoluzione di tale scontro, ha quasi sempre generato tragedie e
sofferenze.
Così
come negli anni '30, oggi, per evitare la catastrofe generale, per
sotterrate negli scantinati della storia mostri sanguinari come
Hitler e Stalin, è necessario un cambio di paradigma economico. Un
passaggio ad un sistema diverso di produzione, distribuzione e
allocazione delle risorse.
Non
c'è altra via.
Il
trapasso ad un nuovo capitalismo, potrebbe, questa volta, richiedere
un tributo di sangue estremamente maggiore rispetto a qualsiasi altro
periodo storico.
Una
nuova Peste Nera*, l'umanità non se la merita.
(Francesco
Salistrari)
L'analisi
contenuta in questo scritto riguardo alle debolezze e ai dati
relativi allo stato dell'economia americana nel periodo '29-'40, sono
riprese da “Il Grande Crollo” di J.K. Galbraith
del 1954.
*L'epidemia
della “Peste Nera” del periodo 1347-53, causò il decesso di un
terzo della popolazione europea.
allora bisogna studiare una terza via economica
RispondiEliminaCaro anonimo, è necessario, come lo stesso respirare...
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