DI
CHRIS HEDGES
truthdig.com
D’estate,
mi ritiro sulle montagne e sulle coste del Maine e del New Hampshire
per liberarmi dall’ingerenza del mondo industrializzato. In queste
foreste e lungo la costa frastagliata dell’Atlantico, col fragore
assordante delle onde che s’infrangono sugli scogli, mi rendo conto
della caducità della vita umana, semplicemente insignificante
dinanzi all’universo. Sopra di me, le stelle si stagliano a
migliaia sulla volta celeste, schernendo la mania di grandezza
dell’uomo.
Ci
sussurrano il monito biblico, ricordandoci che polvere noi siamo e
polvere torneremo. Amate adesso, ci dicono con insistenza, proteggete
ciò che è sacro finché ne avete il tempo. Tuttavia, mi reco in
questi luoghi anche per piangere. Piango per il nostro futuro, per
l’agonizzante maestosità della natura, per la follia della specie
umana. Il pianeta sta morendo. E noi moriremo con lui. Un giovane
pastore conduce la propria capra oltre uno stagno riarso nella
periferia di Bhubaneswar, una città situata nell’India orientale.
(AP/Biswaranjan Rout)
Il
coreografico carnevale di Tampa, immerso in uno sfarzo da capogiro, e
l’imminente carnevale di Charlotte distolgono la nostra attenzione
dal mondo reale, quello che sta progressivamente collassando sotto i
nostri piedi. Il mortale assalto ecologico da parte dello stato
impresa è mascherato dall’ostentazione e dalla propaganda, dalle
ossessioni ridicole impartiteci dalle nostre allucinazioni
elettroniche, nonché dallo spettacolo inscenato per ostentare una
falsa partecipazione politica. Più la situazione peggiora, più ci
rifugiamo nell’auto illusione. Convinciamo noi stessi che il
riscaldamento globale non esiste. O ne avalliamo l’esistenza,
insistendo però sulla nostra capacità di adattamento. Entrambe le
risposte confermano la nostra mania di eterno ottimismo e la nostra
ricerca sconsiderata di benessere. Qui in America evitiamo la realtà,
quando questa è sgradevole. Ma la realtà si abbatterà su di noi
come le Erinni, mandando in frantumi la nostra noncuranza prima e le
nostre vite poi. Noi uomini, in quanto specie, siamo condannati. E,
per un padre di famiglia, questa è una realtà amara, amarissima da
buttar giù.
Io
e la mia famiglia facciamo una camminata su una costa desolata, in
un’isola del Maine, accessibile soltanto via mare. Nei pomeriggi
sostiamo in isolate insenature, osservando l’oceano Atlantico o la
costa e il profilo appena visibile delle colline di Camden. Mio
figlio ultimogenito getta dei sassolini nella schiuma delle onde. Mia
figlia, con passo incerto, si avventura sulle pietre levigate della
spiaggia, tenendosi alla mano della madre. Strillano forte i gabbiani
grigi e bianchi sopra le nostre teste. Il vento trasporta l’odore
del sale. La vita, la vita della mia famiglia, la vita attorno a me,
è inerme e allo stesso tempo fragile e sacra. E vale la pena di
lottare per salvarla. Ai tempi in cui ero ragazzo e mi recavo sulla
costa con mio zio in occasione di spedizioni di caccia all’anatra,
vi era un’attività ittica vivace. Il pescato delle flotte era
variegato: eglefini, merluzzi, aringhe, naselli, halibut, pesci
spada, merluzzi neri e platesse. La zona non offre più un tale
assortimento alieutico, vittima della pesca commerciale in cui enormi
pescherecci spazzano via il fondale marino uccidendo coralli,
briozoi, siboglinidae e altre specie che fornivano nutrimento a nuovi
banchi di pesci. I pescherecci si lasciano alle spalle melma e
detriti: un fondale sterile e desolato. La situazione è la stessa in
tutto il pianeta. Foreste rase al suolo. Acqua contaminata. Aria
satura di emissioni di carbonio. Suolo esaurito. Oceani con livelli
di acidità alle stelle. Aumento delle temperature atmosferiche. E
qualcuno, da qualche parte, guadagna delle scandalose somme di denaro
da tutto ciò. Le corporation, indifferenti a ciò che è sacro,
considerano la morte del pianeta come un’altra occasione
d’investimento. Si precipitano per sfruttare i territori
incustoditi sottostanti le acque polari per accaparrarsi le ultime
tracce di petrolio, gas metano, minerali e pesce. E dato che le
corporation determinano il nostro rapporto nei confronti
dell’ecosistema dal quale dipendiamo per vivere, le probabilità
che sopravviviamo sono sempre più pessimistiche. L’ultima fase di
cinquemila anni di attività umana stabile termina con un’assurdità
collettiva.
“Tutti
i miei mezzi sono sani,” dice il capitano Achab riferendosi alla
caccia suicida di Moby Dick, “il mio movente e il mio fine sono
pazzi.” Il fondale oceanico al largo della costa del Maine, nelle
cui acque quest’estate si è registrato un incredibile aumento
delle temperature di cinque gradi, è adesso ricoperto di crostacei,
come granchi e astici, che non hanno più predatori. Per ragioni di
profitto, le riserve di pesce sono state esaurite. La monocoltura di
crostacei è fragile, come tutte le monocolture. Una fragilità
sperimentata anche dai coltivatori di mais del Midwest. Gli astici
rappresentano l’ottanta per cento del fatturato del mercato ittico
del Maine. Ma per quanto tempo ancora dureranno? Quando un ecosistema
vario e bilanciato in maniera altamente complessa viene spazzato via,
che futuro ci si può aspettare? Dopo che si demolisce la natura e se
ne gettano i pezzi, cosa accade quando è disperatamente necessario
ricomporla? E anche se è possibile ricostituire le riserve di pesce
decimate dalle flotte commerciali, come stanno tentando di fare delle
coraggiose associazioni come il Penobscot East Resource Center, cosa
succede se le temperature delle acque e i livelli di acidità
continuano ad aumentare a causa del riscaldamento globale,
condannando la maggior parte della flora e della fauna
sottomarine?
Quest’anno,
gli astici hanno fatto la muta sei settimane prima del solito a causa
dell’aumento della temperatura delle acque. Ciò che è accaduto
nelle acque più a sud sta accadendo adesso al largo delle coste del
New England. Vent’anni fa, le acque di Long Island Sound
garantivano astici in abbondanza. Questi sono poi scomparsi in
seguito ad un aumento delle temperature, diventando preda di
infestazioni parassitarie e malattie della corazza. Gli astici
sopravvissuti sono migrati verso acque più fredde.
Tutte
le risorse naturali sono state sfruttate fino all’esaurimento:
queste diminuiranno per poi scomparire molto presto. La siccità sta
colpendo le foreste sia nel nord est che nel nord ovest. La moria
invernale dello scarabeo del pino di montagna e di altri parassiti,
vitale per la salute delle foreste, non si sta più verificando dato
il costante riscaldamento globale. I tradizionali alberi di legno
duro delle foreste del nord e le conifere stanno morendo. Li stanno
rimpiazzando con foreste di querce e noci, condannando la
biodiversità e radendo al suolo l’habitat di una gran varietà di
uccelli canterini e di altra fauna selvatica, nonché decretando la
chiusura dei battenti dell’industria dello sciroppo d’acero. Una
decina d’anni fa, lo sciroppo d’acero veniva prodotto negli stati
del Connecticut e del Massachusetts. Da bambino mi addentravo nelle
foreste con le racchette da neve ai piedi per arrivare ai capanni
degli agricoltori, dove vi erano tinozze di sciroppo bollente.
Versavamo lo sciroppo sul manto di neve proprio fuori dai capanni per
fare dei dolciumi invernali friabili. Tuttavia, la produzione negli
stati del New England meridionale è cessata, spostandosi verso il
Maine settentrionale e il Canada. Questi sono piccoli indicatori
naturali che segnalano che c’è qualcosa che sta andando
storto.
Su
base giornaliera, i dati dello scioglimento del ghiaccio marino
artico monitorato nel corso di questa estate sono stati i più gravi
mai registrati. Dalla fine degli anni Settanta, quando cominciarono
ad essere effettuati i rilevamenti satellitari, la quantità di
ghiaccio marino è diminuita del 40%. Tra una decina o una ventina
d’anni, i ghiacci marini estivi del mare Artico potrebbero sparire
del tutto. Con la scomparsa dei ghiacci estivi, il quadro
meteorologico del nostro pianeta sarà dominato da tempeste
inspiegabilmente violente e improvvise e da altre violente anomalie
naturali. La siccità devasterà alcune zone della Terra mentre altre
saranno colpite da precipitazioni incessanti. Sarà un mondo fatto di
estremi. Uragani. Trombe d’aria. Alluvioni. Regioni desertiche.
Incendi e inondazioni.
I
nostri leader politici, sia democratici che repubblicani, sono
corresponsabili della fine dell’umanità. Il nostro sistema
politico, simile a quello esistente durante il declino dell’antica
Roma, è un regime di corruzione legalizzata. Gli uomini politici,
Mitt Romney e Barack Obama compresi, servono agli scopi dementi delle
corporation che tenteranno di approfittare della spirale mortale che
ci inghiottisce fino all’ultimo barlume di vita. L’unica e
sensata forma di resistenza è la disobbedienza civile, compresa la
recente decisione presa da parte di alcuni attivisti di Greenpeace di
incatenarsi ad un’imbarcazione d’appoggio della Gazprom per
impedire l’inizio delle operazioni di trivellazione. Votare è
inutile. Tuttavia, anche se sostengo tali eroici atti di resistenza,
temo sempre più che questi abbiano un minimo effetto. Questo non
significa che non dovremmo opporci. Resistere è un imperativo
morale. Non possiamo utilizzare la parola “speranza” senza
reagire. Tuttavia, le corporation faranno di tutto finché non
avranno tratto profitto persino dall’ultima goccia di vita. Non
possiamo far altro che aspettarci un’ostilità crescente da parte
dello stato impresa. I suoi sistemi di sicurezza nazionali e
internazionali, dato che le conseguenze fatali dello sfruttamento
frenetico diventano più evidenti, cercheranno di tacere e stroncare
qualsiasi forma di dissidenza. Le corporation si disinteressano della
democrazia, dello stato di diritto, dei diritti umani o
dell’inviolabilità della vita. Sono determinate ad essere gli
ultimi predatori sulla faccia della terra. E poi anche questi
verranno fatti fuori. L’arroganza smisurata non porta ad altro che
all’auto immolazione.
Chris
Hedges
La rubrica di Chris Hedges viene pubblicata ogni lunedì su
Truthdig. Per vent’anni circa, ha lavorato come corrispondente
estero in America Centrale, nel Medio Oriente, in Africa e nei
Balcani. Ha fatto servizi da più di 50 paesi e ha lavorato per The
Christian Science Monitor (N.d.T.: quotidiano statunitense), per la
National Public Radio (N.d.T.: spesso chiamata anche NPR, è
un’organizzazione indipendente non-profit comprendente oltre 900
stazioni radio statunitensi), per il Dallas Morning News e il New
York Times, per il quale ha lavorato in quanto corrispondente estero
per quindici anni.
Fonte:
www.truthdig.com
letto e condiviso da: www.comedonchisciotte.org
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