Dall’immenso processo di privatizzazioni inaugurato dalla Tatcher e da Reagan, proseguito in tutti gli altri paesi europei con intensità variabile e conclusosi con il ritorno al mercato da parte dei territori ex sovietici, se è rimasto qualche “cadavere storico” sulla strada, questi sono i partiti e le organizzazioni dei lavoratori.
di Francesco Salistrari
La deriva oligarchica e la
fine della democrazia rappresentativa: il caso europeo.

Laddove lo Stato Sociale, sorto
dal “new deal” americano keynesiano-roosveltiano ed in parte già sperimentato
nei regimi fascisti in Italia e Spagna e nazista in Germania, presupponeva l’intervento
statale in economia come “bilanciatore” delle storture e delle distorsioni del
“mercato”, ma soprattutto come fonte di investimenti e di luogo decisionale di
spesa, di emissione monetaria e di politica estera, la nouvelle teorie che
ha conquistato il mondo nel giro di qualche decennio, al contrario, presuppone
un intervento “minimo” dello Stato in modo tale da lasciare alle “libere forze”
del mercato la possibilità di fare il loro gioco indipendente.
Questa posizione rappresenta una
scelta strategica che consente di eliminare la “politica”, vale a dire quella
partitico-statale (democratica), dall’equazione della mediazione sociale ed
economica, in modo da liberare un ampio spazio dentro il quale si possono
esprimere interessi e una nuova dimensione politica privati, tendendo alla
progressiva eliminazione dei controlli e dei limiti imposti dal regime
democratico.
Non è un caso che, dall’immenso
processo di privatizzazioni inaugurato dalla Tatcher e da Reagan, proseguito in
tutti gli altri paesi europei con intensità variabile e conclusosi con il
ritorno al mercato da parte dei territori ex sovietici, se è rimasto qualche
“cadavere storico” sulla strada, questi sono i partiti e le organizzazioni dei
lavoratori.
Dagli anni ’90 in poi, con
l’implosione dell’unica ideologia fino ad allora esistente capace di mettere in
discussione quella del mercato capitalistico, vale a dire il comunismo, anche i
partiti e le varie “partitocrazie” dei regimi democratici occidentali sono
letteralmente implosi in sé stessi, diventando col tempo qualcosa di molto
diverso da quello che erano stati fino a quel momento. Le Costituzioni
antifasciste scritte subito dopo la vittoria sui nazi-fascisti nella seconda
guerra mondiale, affidavano ai partiti un ruolo predominante come strumenti di
partecipazione democratica. Per certi versi i partiti furono, per un intero
periodo storico, il corollario della democrazia rappresentativa postbellica. E
la loro funzione, benchè la degenerazione partitocratica fu un segno evidente
fin dai primi anni, fu molto importante.
Con l’andare degli anni, la
burocratizzazione, lo strutturarsi del sistema delle alleanze oligarchiche, la
non trasparenza e la scarsa democraticità interna, fecero dei partiti le
appendici del potere, macchine della corruzione e del clientelismo,
dell’affarismo e della lottizzazione delle proprietà pubbliche.
Tutti questi problemi, riassunti
nella fortunata definizione di “partitocrazia”, rappresentano un fenomeno che
benchè nei vari contesti nazionali abbia avuto gradi diversi di intensità non
indifferente, tuttavia fu comune a tutte le esperienze partitiche d’Europa.
Con il 1989 e con il poderoso
cambiamento della situazione geopolitica internazionale, anche i partiti
persero la propria ragion d’essere, diventando un ostacolo e non una variabile
utile della funzione del potere. Emblematico il caso italiano di
“tangentopoli”, dove una intera classe politica fu azzerata per via giudiziaria
e dove divenne evidente come i nuovi partiti che sarebbero sorti di li a poco
avrebbero sempre più assomigliato ai “clubs” e ai cartelli elettorali
americani.
L’ “americanizzazione” delle
formazioni partitiche europee non fu casuale, né tantomeno interessò solo
alcuni e non altri, alcuni paesi e non altri. La trasformazione dei partiti in
“comitati elettorali”, privati di una vera identità ideologica, di una propria
cultura caratterizzante, incapaci dunque di proporre programmi di “alternativa
sistemica”, è un fenomeno che interessa la stragrande maggioranza delle
formazioni partitiche parlamentari dagli anni ’90 in poi.
Dalle ceneri dei vecchi “partiti
ideologici”, nacquero dunque delle forze politiche che si configurarono sempre
più come comitati d’affari, raccoglitori di consenso da spendere in una
mediazione politica resa ormai orfana degli strumenti fino ad allora
utilizzati, in quanto sempre più il centro decisionale si allontanava dallo
Stato verso strutture sovranazionali e private.
La mancanza di una vera
distinzione sulle questioni fondamentali, l’omologazione in una visione
economica pressoché uniforme, l’uniformità pressoché totale nella tipologia
delle scelte operate dalle varie alternanze parlamentari, determinarono nei
fatti il superamento della dicotomia destra-sinistra che aveva caratterizzato
la politica fin dalla rivoluzione francese. Un superamento che, però, nelle
ragioni e negli interessi sociali non solo non si è verificato, ma che anzi ha
determinato un sempre più marcato scollamento tra la base sociale, la classe
politica e le classi dirigenti nazionali prese nel loro insieme.

Esattamente ciò che auspicavano e
dettavano gli autori di “Crysis of Democracy”.
Il processo di privatizzazione è
stato dunque fortemente condizionato da una modificazione profonda degli
istituti e delle organizzazioni della politica, creando i presupposti, dal lato
sociale, per l’affermazione del “consumismo” come contraltare alla limitazione
progressiva degli spazi democratici del sistema occidentale.
Sulla scorta infatti del modello
americano (statunitense), grazie alle modifiche strutturali implementate nel
corso di tutti gli anni ’80, si è assistito ad un fenomeno di allargamento
della massa dei consumi, accompagnato dalla progressiva privatizzazione di
sempre più ampi settori dell’economia che hanno liberato le energie del sistema
permettendo due fenomeni complementari, sebbene apparentemente distanti:
l’espansione dei profitti e la “crisi” democratica.

Da un punto di vista strettamente
politico e sociale, infatti, la limitazione delle sovranità nazionali,
soprattutto in campo economico, l’unificazione dei mercati e la libera
circolazione dei fattori produttivi (merci, servizi, persone e capitali), non
connatura un modello diverso di partecipazione democratica ed uno sviluppo
della società in direzione evolutiva della democrazia, bensì una compressione
dei diritti sociali e democratici e la messa in opera di una strutturazione del
potere decisionale di stampo oligarchico e tecnocratico.
Sempre più i Parlamenti nazionali
sono diventati camere di compensazione delle tensioni sociali senza per questo
determinare cambiamenti della linea politica ed economica di fondo dei vari
stati, anzi diventando “camere di ratifica” di politiche imposte dall’alto
(organi di amministrazione burocratica periferici), affidando di converso
grandissimi poteri alla Banca Centrale e alla Commissione.
Il Parlamento europeo, unico
organo eletto democraticamente, non ha alcun potere legislativo, né alcun
meccanismo di fiducia/sfiducia nei confronti di un “esecutivo” i cui confini
sfumano dalla Commissione al Consiglio Europeo e alla Banca Centrale.
“Esecutivo”, d’altra parte non eletto e dunque non legittimato democraticamente
e anzi sottoposto alla pressione costante delle “lobbyes” private.

L’esempio di come le élites
europee hanno affrontato la crisi del 2007 (partita dagli Stati Uniti), è
emblematico.
L’esplosione della crisi dei
cosiddetti “debiti sovrani” europei, determinatasi dopo l’esplosione della
bolla dei mutui “subprime” e dei “derivati” che ha condotto al fallimento di
una delle più grandi banche di investimento del mondo, la Leman’s Borthers,
infatti ha creato le condizioni politiche ideali per determinare una
trasformazione della struttura sociale ed economica europea difficilmente
realizzabile senza tali “strumenti”. Questo perché, venendo meno la capacità
decisionale dei vari Parlamenti nazionali e la limitazione del controllo
democratico sulle decisioni europee, è stata possibile una “gestione” della
crisi che ha praticamente liquidato in maniera definitiva i residui dello
“stato sociale” (welfare), la capacità contrattuale dei lavoratori, la
modificazione dei meccanismi del mercato del lavoro, la svendita dei patrimoni
pubblici, la compressione della capacità di spesa delle finanze statali,
l’integrazione economica con gli USA (TTIP).
Tutto questo complesso di
conseguenze, conosciute più semplicemente con il nome di “austerity”, è stato
possibile grazie alla particolare configurazione della struttura istituzionale
europea determinata da trattati come il “Trattato di Lisbona”, il “MES, il “Fiscal
Compact” (che inserisce il pareggio di bilancio nei ranghi costituzionali
nazionali). Tutti trattati mai discussi democraticamente, ma semplicemente
ratificati dai parlamenti nazionali che, nel frattempo, come nei casi italiano
e greco, erano stati “commissariati” con la giustificazione politica del
cosiddetto “spread”.
Il dato di fondo è che il meccanismo europeo in cui la Banca Centrale indipendente e privata, assurge ad
un ruolo di straordinaria influenza politica sulle scelte di tutta l’area, in cui
la “moneta unica” diventa dunque strumento di controllo politico dei vari
contesti nazionali e in cui le maglie strette delle regole sui “debiti sovrani”
(regole assolutamente politiche e non dettate da considerazioni economiche)
diventano il cappio al collo con cui si impiccano i diritti sociali e il
welfare, configurano un nuovo modello di democrazia che soppianta il modello di "democrazia occidentale rappresentativo". A questo punto bisognerebbe chiedersi: cui prodest?
I maggiori beneficiari di una
dinamica decisionale sganciata da controlli, contrappesi e determinazioni
democratiche, cioè espressioni vive delle popolazioni generalmente intese, sono
sicuramente tutte quelle imprese private, quegli speculatori, finanzieri,
operatori di borsa e quel vasto mondo di interessi che si muovono nell’alveo
del cosiddetto “mercato”.
E’ un caso se sono stati i
“mercati” a decretare, ad esempio, la fine dell’esperienza governativa di
Berlusconi in Italia? Lo spread, cioè una misura econometrica di raffronto tra
debiti pubblici dell’area euro, può essere superiore ad una determinazione
politica democratica? Evidentemente si.
Questo può succedere proprio in
virtù di un cambio strutturale di portata generale e che investe non solo
l’Europa, ma che a livello globale, apre lo spazio ad una nuova dimensione
politica, decisionale, che esula dalle determinazioni democratiche (laddove
regimi democratici quantomeno formali sussistono).
L’involuzione oligarchica delle
democrazie occidentali, è da inserire dunque all’interno di un cambiamento
generale di paradigma come portato ideologico, sociale ed economico. E’ cioè,
in altri termini, il risultato conseguente di uno sviluppo determinato che,
all’interno delle dinamiche economiche nuove che si sono sviluppate negli
ultimi 40 anni, ha portato la “democrazia rappresentativa” a diventare progressivamente un ostacolo
dello sviluppo economico.
Questo per una serie di ragioni
che cercheremo di analizzare.

Il punto della questione è che i
meccanismi della “rappresentanza democratica”, che dovrebbero esprimere anche
la tutela dell’interesse collettivo, sono rimasti indietro rispetto alle
dinamiche economiche degli ultimi decenni. Ciò dimostra come non si è avuta,
rispetto all’espansione dei mercati mondiali, nessuna parallela evoluzione
delle forme democratiche di difesa dalle storture allocative, distributive e
sociali dei “mercati” e dunque gli istituti classici della democrazia
rappresentativa, risultano decisamente inadeguati.
Le stesse strutture difensive
rappresentate dalle organizzazioni dei lavoratori (leghe, comitati e
sindacati), appaiono oggi inadatte rispetto alle spinte sistemiche che si
trovano a fronteggiare. Considerando il ruolo ormai integrato svolto dai
sindacati ufficiali, lo sviluppo di forme moderne di autodifesa appare
fortemente in ritardo. L'associazionismo o il sorgere di comitati territoriali
di difesa, seppur per certi versi potrebbero rappresentare i germi delle future
forme di lotta, tuttavia allo stato attuale, risultano ancora insufficienti e
fortemente frammentati per essere gli strumenti di una resistenza sociale
paragonabile al ruolo che nel corso dello sviluppo capitalistico hanno svolto i
partiti e le organizzazioni dei lavoratori del passato.
Questo avviene perché il “potere ricattatorio”
degli interessi privati nei confronti delle istanze collettive, risulta
enormemente aumentato e sproporzionato a proprio vantaggio, disponendo di
strumenti potentissimi come quelli dell’emissione del credito, il controllo
delle monete, delle borse e ove ciò non bastasse, le organizzazioni
lobbystiche, la corruzione, gli eserciti mercenari e i sicari delle mafie. I
risultati di questo coacervo di strumenti sono che la classe politica vede
ridursi costantemente la propria capacità di influenza anche laddove i
meccanismi di selezione delle élites politiche dirigenti non riescano a
bloccare istanze popolari e interessi esterni al sistema privatistico dei
“mercati” e laddove le forme di resistenza collettiva riescano a rappresentare
un argine concreto ed efficace.
Ma la democrazia rappresentativa
occidentale, appare oggi un sistema in decadenza anche da un altro punto di
vista.
Infatti, se osserviamo le
“regole” che determinano la gestione del debito pubblico degli Stati, capiamo
immediatamente come l'erosione della sovranità statale determini effetti
profondi e ineliminabili. Il debito pubblico, inserito nei meccanismi
finanziari generali, cioè sottoposto alle leggi economiche generali (libera
circolazione dei capitali), diventa un “ricatto”, un limite e un problema.
Un ricatto, da parte di chi ha
interesse affinchè una nazione, un popolo o un’area geografica determinata,
implementi determinate politiche favorevoli ai propri interessi. Un limite alla
determinazione di proprie autonome politiche. Un problema economico in
relazione ai propri programmi sociali, all’erogazione dei servizi e alla tutela
del proprio territorio.
Da questo punto di vista le
logiche “superiori” del mercato sono determinanti. Superiori nel senso
etimologico del termine: “che stanno sopra”.

L'insorgenza della Classe
Possidente Globale, si presenta dunque come una fase nuova dello sviluppo
storico-sociale in cui una specifica classe sociale dominante determina nuove
dimensioni e nuove dinamiche dello scontro sociale, originali ricomposizioni,
assetti e disequilibri che travalicando i consueti confini nazionali, nell'era
della globalizzazione, interessando pertanto il mondo intero.
(continua)
I am extremely impressed along with your writing abilities, Thanks for this great share.
RispondiEliminaThank you so much. You are really kind and I am flattered by your words. Thank you so much
Elimina