Di Edward S. Herman fonte TLAXCALA traduzione del Centrodi Cultura e Documentazione Popolare
Durante
la guerra del Vietnam, sopra l’ingresso di una base americana si
poteva leggere: “Killing is our business, and business is good”
(“Uccidere
è il nostro mestiere e gli affari vanno bene“).
E in effetti, gli affari andarono molto bene in Vietnam (così come
in Cambogia, Laos e Corea), dove si contarono a milioni i civili
uccisi. In realtà gli affari si mantennero buoni, anche dopo la
guerra del Vietnam.
I
massacri sono continuati in tutti i continenti, sia direttamente che
tramite “proxies”
[mercenari], ovunque la “sicurezza nazionale” degli Stati Uniti
bisognasse di basi, guarnigioni, assassini, invasioni, campagne di
bombardamenti o di sostenere regimi assassini e autentiche reti
terroristiche transnazionali, in risposta alla “minaccia
terroristica” che continua a sfidare il povero “pietoso gigante”.
Nel suo eccellente libro sull’ingerenza degli Stati Uniti in
Brasile (United
States Penetration of Brazil,
Pennsylvania University Press, 1977), Jan Knippers Black aveva
dimostrato già anni fa, come l’accezione sorprendentemente
elastica del concetto di “sicurezza nazionale” può essere
estesa, in funzione di quale nazione, quale classe sociale o
istituzione si riferisca.
Al
punto che proprio “coloro la cui ricchezza e potere dovrebbe in
linea di principio garantire la sicurezza, sono quelli maggiormente
paranoici e che, con i loro frenetici sforzi per garantire la propria
sicurezza, generano loro stessi la loro propria [parziale]
distruzione”. (La sua opera affrontava il pericolo di sviluppare
una democrazia sociale in Brasile nel 1960, e la sua repressione
attraverso il sostegno degli Stati Uniti alla controrivoluzione e
all’instaurazione di una dittatura militare). Aggiungete a ciò la
necessità per gli imprenditori legati al complesso
militare-industriale di promuovere le missioni per giustificare un
aumento dei bilanci della difesa e la piena cooperazione dei mass
media a questa attività, e otterrete una realtà terrificante.
In
realtà il suddetto gigante falsamente paranoico si è impegnato a
capofitto nella produzione di pretesti per credibili minacce,
soprattutto dopo il crollo dell’”impero del male”, che il paese
aveva sempre sostenuto di “contenere”. Grazie a dio, dopo alcuni
tentativi episodici di focalizzare l’attenzione sul
narco-terrorismo e sulle armi di distruzioni di massa di Saddam
Hussein, il terrorismo islamico è caduto dal cielo per offrire alla
defunta minaccia un degno successore, derivante naturalmente
dall’ostilità del mondo arabo alle libertà americane e dal suo
rifiuto di consentire la possibilità a Israele di negoziare la pace
e risolvere pacificamente i suoi disaccordi con i palestinesi.
Oltre
a rendere più efficaci i massacri e il soldo dei mercenari che ne
deriva, gli Stati Uniti sono diventati de facto il più maggior
produttore di Stati falliti, su scala industriale. Per Stato fallito,
intendo uno Stato che, dopo esser stato schiacciato militarmente o
reso ingovernabile a causa di una destabilizzazione politica o
economica che lo getti nel caos, ha quasi sicuramente perso la
capacità (o il diritto) di ricostruirsi e di soddisfare le legittime
aspirazioni dei suoi cittadini. Naturalmente, questa abilità degli
Stati Uniti non nasce ieri: come dimostra la storia di Haiti, della
Repubblica Dominicana, di El Salvador, del Guatemala o degli Stati
dell’Indocina, dove i massacri hanno funzionato così bene.
Inoltre, abbiamo visto di recente una recrudescenza incredibile nella
produzione di Stati falliti, di tanto in tanto senza ecatombe, come
ad esempio nelle repubbliche ex-sovietiche e in tutta una serie di
paesi dell’Europa dell’est, dove la riduzione dei salari e
l’aumento vertiginoso del tasso di mortalità sono frutto diretto
dalla “terapia d’urto” e del saccheggio generalizzato e
semi-legale dell’economia e delle risorse, da parte di élite
sostenute dall’Occidente, ma anche più o meno organizzate e
sostenute a livello locale (privatizzazioni a tutto campo, corruzione
a livelli esorbitanti).
Un’altra
cascata di Stati falliti origina dagli “interventi umanitari” e
dai cambi di regime guidati dalla NATO e dagli Stati Uniti in modo
più aggressivo che mai dopo il crollo dell’Unione Sovietica (vale
a dire dopo la scomparsa di una “forza di contenimento”
estremamente importante anche se molto limitata). Qui, l’intervento
umanitario in Jugoslavia è servito da modello. Bosnia, Serbia e
Kosovo sono diventati Stati falliti, altri sono usciti stremati,
tutti assoggettati all’Occidente o alla sua pietà: una base
militare statunitense monumentale è sorta da subito in Kosovo,
eretta sulle rovine di quello che un tempo era uno Stato
socialdemocratico indipendente. Questa bella dimostrazione di merito
per l’intervento imperialista ha inaugurato la produzione di una
nuova serie di stati falliti: Afghanistan, Pakistan, Somalia, Iraq,
Repubblica Democratica del Congo, Libia, mentre oggi è in corso un
programma simile in Siria e un altro si appresta per la gestione
della cosiddetta “minaccia iraniana”, nel tentativo di far
rivivere i giorni felici della dittatura filo-occidentale dello Shah.
Questi
fallimenti programmati hanno di solito in comune i segni
caratteristici della politica imperiale e una proiezione di potenza
dell’impero. Il copione prevede: la comparsa e/o legittimazione (o
riconoscimento ufficiale) di una ribellione etnica armata che si
atteggia a vittima, la quale conduce contro le autorità del proprio
paese azioni terroristiche volte a provocare apertamente una reazione
violenta da parte delle forze governative e che invoca
immancabilmente le forze dell’impero a soccorrerla. Mercenari
stranieri vengono generalmente assoldati per aiutare i ribelli,
mercenari e ribelli indigeni vengono armati, addestrati e sostenuti
logisticamente dalle potenze imperiali. Queste ultime si impegnano a
incoraggiare e sostenere le iniziative dei ribelli il tanto per
giustificare la destabilizzazione, i bombardamenti e, infine, il
rovesciamento del regime bersaglio.
Il
processo è stato eclatante durante tutto il periodo dello
smantellamento della Jugoslavia e nella produzione di Stati falliti
che seguirono. Le potenze della NATO, mirando alla disgregazione
della Jugoslavia e al crollo della sua componente più importante e
indipendente, vale a dire la Serbia, hanno incoraggiato alla
ribellione gli elementi nazionalisti delle altre repubbliche della
federazione, per le quali il sostegno o l’impegno militare della
NATO sul terreno era un fatto acquisito. Il conflitto fu lungo e virò
verso la pulizia etnica, ma per quanto concerne la distruzione della
Jugoslavia e la produzione di Stati falliti, fu un successo (vedi
Herman e Peterson,The
Dismantling of Yugoslavia,
Monthly Review, ottobre 2007). Stranamente, è con l’approvazione e
la collaborazione dell’amministrazione Clinton e dell’Iran che si
importarono tra gli altri mercenari, degli elementi di Al Qaeda in
Bosnia e poi in Kosovo, per aiutare a combattere il paese obiettivo:
la Repubblica di Serbia. Ma Al-Qaeda appariva anche tra le fila dei
“combattenti per la libertà” impegnati nella campagna di Libia,
ed è anche un componente riconosciuto (ora perfino dal New
York Times,
anche se con un po’ di ritardo) del cambiamento di regime
programmato in Siria (Rod Nordland, Al
Qaeda Taking Deadly New Role in Syria Conflict», New
York Times,
24 luglio 2012). Certo, Al Qaeda era precedentemente stata al centro
del cambiamento di regime in Afghanistan [1996] e un elemento chiave
nella svolta dell’11 settembre (Bin Laden, capo dei ribelli sauditi
di primo piano, dapprima sostenuto dagli Stati Uniti, si sarebbe poi
rivoltato contro di loro, da cui venne demonizzato ed eliminato).
Questi
programmi comportano sempre una gestione sapiente delle atrocità,
che permette di accusare il governo aggredito di aver commesso atti
di violenza gravi contro i ribelli e i loro sostenitori, così da
demonizzarlo efficacemente per giustificare un intervento massiccio.
Questo metodo ha avuto un ruolo fondamentale durante le guerre di
dissoluzione della Jugoslavia, e probabilmente ancora di più nella
campagna di Libia e di quella in Siria. E’ un metodo che deve molto
anche alla mobilitazione delle organizzazioni internazionali che sono
attivamente coinvolte in questa demonizzazione denunciando le
atrocità attribuite ai leader riconosciuti, perseguendoli e
condannandoli penalmente. Nel caso della Jugoslavia, il Tribunale
penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), istituito dalle
Nazioni Unite, ha lavorato mano nella mano con le potenze della NATO
per assicurare che la sola messa in stato d’accusa delle autorità
serbe fosse sufficiente a giustificare qualsiasi azione che gli Stati
Uniti e la NATO avessero deciso di intraprendere. Esempio mirabile di
questa meccanica, la messa in stato di accusa di Milosevic da parte
del Procuratore del ICTY, lanciata proprio quando (nel maggio 1999)
la NATO decideva di bombardare deliberatamente le infrastrutture
civili serbe per accelerare la resa della Serbia, bombardamenti che
costituivano crimini di guerra condotti in piena violazione della
Carta delle Nazioni Unite. Eppure fu proprio il processo a Milosevic
che permise ai media di distogliere l’attenzione pubblica dagli
abusi illegali della NATO.
Allo
stesso modo, alla vigilia dell’attacco alla Libia da parte della
NATO, il procuratore della Corte penale internazionale (CPI) si
affrettò a promuovere un’azione giudiziaria contro Muammar
Gheddafi senza aver mai chiesto un’indagine indipendente, rendendo
di pubblico dominio che la Corte penale internazionale non aveva
perseguito nessun altro che i leader africani non allineati con
l’Occidente. Questo modo curioso di “gestione della legalità”
è una risorsa preziosa per i poteri imperiali ed è estremamente
utile in un contesto di cambiamento di regime, come nella produzione
di Stati falliti.
Sono
anche coinvolte delle organizzazioni umanitarie o di “promozione
della democrazia” apparentemente indipendenti, come Human Rights
Watch, l’International Crisis Group e l’Open Society Institute,
che regolarmente si uniscono alla processione imperiale, facendo
l’inventario dei soli crimini correlati al regime obiettivo e ai
suoi dirigenti: cosa che contribuisce in modo significativo alla
polarizzazione dei media. L’insieme consente di creare un ambiente
morale favorevole a un intervento più aggressivo in nome della
difesa delle vittime.
Poi
si aggiunge che, nei paesi occidentali, le denunce o le accuse di
atrocità – che rafforzano le immagini di vedove in lutto e
rifugiati indigenti, le prove apparentemente attendibili di abusi
odiosi e l’emergere di un consenso attorno alla “responsabilità
di proteggere” le vittime del conflitto – commuove profondamente
gran parte dei circoli di sinistra e libertari. Molti di loro vengono
ad ululare con i lupi contro il regime bersaglio, ed esigono
l’intervento umanitario. Gli altri in genere sprofondano nel
silenzio, certo perplesso, ma pregno soprattutto della paura di
essere accusati di sostenere il “dittatore”. L’argomento degli
interventisti è che, a costo di apparire sostenitori
dell’espansionismo imperialista, talvolta occorre fare un’eccezione
se le cose sono particolarmente gravi e se tutti sono indignati e
chiedono un intervento. Ma bisogna, per dimostrarsi autenticamente di
sinistra, tentare una micro-gestione degli interventi per contenere
l’attacco imperiale, esigendo per esempio che ci si attenga
all’interdizione di una no-fly zone come in Libia.
Ma
gli Stati Uniti stessi non sono che un caso, dei peggio riusciti, di
produzione di tali Stati falliti. Ovviamente, nessuna potenza
straniera li ha mai schiacciati militarmente, ma la base della sua
popolazione ha pagato un tributo pesante al sistema di guerra
permanente. Qui, l’elite militare, così come i suoi alleati nel
mondo dell’industria, della politica, della finanza, dei media e
gli intellettuali, hanno contribuito ampiamente ad aggravare la
povertà e il disagio generalizzato dovuto alla disintegrazione dei
servizi pubblici e all’impoverimento del paese; la classe
dirigente, paralizzata e compromessa, è incapace di rispondere
adeguatamente alle esigenze e alle aspettative dei suoi cittadini,
nonostante il costante aumento della produttività pro capite del
PNL. Le eccedenze sono completamente dirottate verso il sistema di
guerra permanente e dal consumo e l’arricchimento di una piccola
minoranza, che lotta in modo aggressivo per realizzare la captazione
non solo delle eccedenze, ma fino al trasferimento diretto delle
entrate, delle proprietà e dei diritti pubblici della stragrande
maggioranza dei suoi concittadini (in difficoltà). In quanto Stato
fallito, come in molti altri campi, gli Stati Uniti sono una nazione
senza dubbio d’eccezione!
letto e condiviso da: stampalibera.com
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