DI
GENNARO CAROTENUTO
gennarocarotenuto.it
L’immagine
che non troverete commentata sui nostri media è quella di Hugo
Chávez, del dittatore trinariciuto Hugo Chávez, accompagnato al
seggio dal premio Nobel per la Pace guatemalteco Rigoberta Menchú e
da Piedad Córdoba, che da noi è meno conosciuta ma che è un
gigante della difesa dei diritti umani violati nella vicina Colombia.
È una scelta simbolica e sono figure talmente cristalline e
inattaccabili, quelle di Rigoberta e Piedad, che il fiele
antichavista, che si sparge a piene mani in queste ore per sminuire
l’importanza della vittoria del presidente venezuelano nelle
presidenziali di ieri, semplicemente le ignora.
Rigoberta
Menchú e Piedad Córdoba che sostengono Chávez sono ingombranti per
chi si dedica da anni a costruire l’immagine falsa di un violatore
di diritti umani e quindi vanno cancellate. Sono donne
latinoamericane, indigena una, nera l’altra. Sono state vittime e
hanno combattuto il terrorismo di stato, sanno cosa sia il
neoliberismo, sanno cosa sono le violazioni dei diritti umani e mai
le avallerebbero, conoscono la storia del Continente e proprio per
questo stanno con Hugo Chávez.
Mille
commenti oggi si affannano a ragionare di percentuali e di erosione
del consenso o mettono un cinico accento sulla salute del presidente
che non avrebbe molto davanti. Eppure fino a ieri altrettanti
commenti davano per sicura la sconfitta e sicuri i brogli (delle due
l’una!), nonostante chiunque abbia toccato con mano, per esempio
l’ex presidente statunitense Jimmy Carter, abbia definito esemplari
le elezioni nel paese caraibico. Addirittura Mario Vargas Llosa dava
così certa la vittoria di Capriles da prevedere l’assassinio di
questo da parte del negraccio dell’Orinoco. Calunnie sfacciate.
Ventiquattro ore dopo gli stessi editorialisti commentano il 55% di
Chávez come una sconfitta del vincitore. Pace. Chi conosce la
politica venezuelana sa come esistano geometrie variabili e storie di
continue entrate e uscite sia da destra che da sinistra nell’appoggio
al presidente che, fino a prova contraria -ne erano tutti
sicurissimi- doveva essere bell’e morto di cancro per le elezioni
di oggi. Invece non solo Chávez è vivo, e ne andrebbe elogiato il
coraggio di fronte alla malattia, ma si è confermato presidente del
Venezuela.
Chávez
ha vinto, che vi piaccia o no, sia per quello che ha fatto che per
quello che rappresenta. Chávez ha vinto perché per la prima volta
ha investito la ricchezza del petrolio in beneficio delle classi
popolari che in questi anni hanno visto migliorato ogni aspetto della
loro vita (salute, educazione, casa, trasporti). Non c’è nulla di
rivoluzionario in questo, nonostante la retorica usata spesso a piene
mani: “è il riformismo, stupido” direbbe Bill Clinton. È quanto
rappresenta, invece, che fa essere Chávez rivoluzionario:
conquistare pane e salute non è una conseguenza di un’economia
affluente nella quale chi sta sopra può permettersi di essere così
magnanimo da lasciare qualche avanzo. È un diritto fondamentale che
va conquistato con la continuazione delle due battaglie storiche per
la giustizia sociale e la dignità: la lotta di classe, nella quale
il merito di Chávez è portare sulle spalle il peso del conflitto e
quella anticoloniale, nella quale l’integrazione del Continente è
un passaggio chiave.
In
questo contesto la prima e più importante lezione del voto di ieri è
che i venezuelani, e con loro buona parte del continente
latinoamericano, non vogliono, ri-fiu-ta-no, la restaurazione
liberale, la restaurazione dell’imperio del Fondo Monetario
Internazionale, la restaurazione di un modello nel quale sono
condannati a essere per l’eternità figli di un dio minore,
mantenuti in una condizione di dipendenza semicoloniale dove le
decisioni fondamentali sulla loro vita sono prese altrove. C’è un
dato che a mio modo di vedere rappresenta ciò: in epoca chavista il
Venezuela ha moltiplicato gli investimenti in ricerca scientifica di
23 volte (2.300%). Soldi buttati, si affrettano a dire i critici.
Soldi investiti in un futuro nel quale i venezuelani non saranno
inferiori a nessuno. I latinoamericani ragionano con la loro testa,
hanno vissuto per decenni sulla loro pelle il modello economico che
la Troika sta imponendo al sud dell’Europa e non vogliono che
quell’incubo d’ingiustizia, fame, repressione e diritti negati
ritorni. Il patto sociale in Venezuela non è stato rotto da Chávez
ma fu rotto nell’89 quando Carlos Andrés Pérez (vicepresidente in
carica dell’Internazionale Socialista) con il caracazo fece
massacrare migliaia di persone per imporre i voleri
dell’FMI.
Ancora
oggi alcuni commenti irriducibilmente antichavisti (la summa per
disinformazione è quello di Gianni Riotta su La Stampa di
Torino QUI)
rappresentano il candidato delle destre sconfitto come un seguace del
presidente latinoamericano Lula. Divide et impera. Erano i velinari
di George Bush ad aver deciso di rappresentare l’America latina
spaccata in due tra governi di sinistra responsabili e governi di
sinistra irresponsabili. È straordinario come i Minculpop continuino
a far girare ancora le stesse veline: l’immagine di Capriles
progressista e vicino a Lula è stata costruita a tavolino dai grandi
gruppi mediatici, a partire da quello spagnolo Prisa. Il curioso è
che Lula rispose immediatamente “a brutto muso” di non tirarlo in
ballo, perché lui con Capriles non ha nulla a che vedere e appoggia
con tutto se stesso l’amico e compagno Hugo Chávez. Non importa:
loro, i Riotta, facendo finta di niente, continuano imperterriti a
definire Capriles come il Lula venezuelano. Allo stesso modo
continuano a ripetere la balla sulla mancanza di libertà
d’espressione in un paese dove ancora l’80% dei giornali fa capo
all’opposizione. È un’invenzione, ma la disparità mediatica è
tale che è impossibile farsi ascoltare in un contesto mediatico
monopolistico. Non siamo ingenui: nella demonizzazione di Chávez c’è
ben altro che l’analisi degli eventi di un continente lontano. C’è
lo schierare un cordone sanitario alla benché minima possibilità
che anche in Europa si possa ragionare su alternative all’imperio
della Troika. Lo abbiamo visto con il trattamento riservato ad
Aleksis Tsipras in Grecia e a Jean-Luc Mélenchon in Francia: non è
permesso sgarrare.
Soffermarci
su tale dettaglio ci svela una realtà fondamentale difficilmente
comprensibile dall’Europa: è talmente impresentabile il
neoliberismo che in America latina è oggi necessario nasconderlo
sotto il tappeto e spacciare anche i candidati di destra come
progressisti. Aveva un che di paradossale ascoltare in campagna
elettorale Capriles giurare amore eterno agli indispensabili medici
cubani elogiandone il ruolo storico. Come già il suo predecessore
Rosales, sapeva che senza medici non ci sarebbe pace in un Venezuela
che oggi conosce i propri diritti e non è disposto a rinunciarvi,
altro merito storico di Chávez. I Riotta di turno tergiversavano non
solo sul riconoscimento dei meriti storici di Cuba nella solidarietà
internazionale (o la riducono ad un mero scambio economico, salute
per petrolio) ma negano anche l’informazione che era quello stesso
Capriles, giovane dirigente politico dell’estrema destra
venezuelana, che l’11 aprile 2002 diede l’assalto all’ambasciata
cubana durante l’effimero golpe del quale fu complice. Che vittoria
per i cubani se quello stesso Capriles fosse davvero stato sincero
nel riconoscerne i meriti!
Questo
è il segno del trionfo di Chávez: nelle classi medie e popolari
venezuelane vige oggi un discorso contro-egemonico a quello liberale
dell’imperio dell’economia sulla politica, della falsa retorica
liberale per la quale tutti i diritti vanno garantiti a tutti ma a
patto che siano messi su di uno scaffale ben in alto perché solo chi
ci arriva con le proprie forze possa goderne. In Venezuela, in
America latina, stanno spazzando via tutte le balle che racconta da
decenni il Giavazzi di turno sul liberismo che sarebbe di sinistra.
Chi lo ha provato, e nessuno come i latinoamericani lo ha provato
davvero, sa bene di cosa si parla e non ci casca più. È un discorso
quindi, quello chavista, che riporta in auge l’incancellabile ruolo
della lotta di classe nella storia, la chiarezza della necessità
della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra”
continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano
10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500
anni.
Eppure
il Riotta di turno liquida ancora oggi come “inutili” i programmi
sociali chavisti. Che ignoranza, malafede e disprezzo per il male di
vivere di chi non ha avuto la sua fortuna. Milioni di venezuelani,
che avevano come principale preoccupazione della vita l’alimentazione
del giorno per giorno, la salute spiccia (banali cure per un mal di
pancia, operazioni alla cateratta del nonno) che la privatizzazione
della stessa nega a chi non può permettersela, l’educazione dei
figli, la casa, passando da baracche a dignitose case popolari, oggi
godono di un sistema sanitario pubblico che ha visto decuplicare i
medici in servizio, di un sistema educativo pubblico che ha visto
quintuplicare i maestri, di un sistema alimentare pubblico che
permette a molti di mettere insieme il pranzo con la cena. “Inutili”,
dice Riotta, con una volgarità razzista degna delle brioche di Maria
Antonietta. Oggi queste persone, escluse fino a ieri, possono
spingere il loro tetto di cristallo più in alto, respirare di più,
desiderare di più, magari perfino leggere inefficienze e difetti del
processo e avere preoccupazioni, quali la sicurezza, più simili alle
classi medie che a quelle del sottoproletariato nel quale erano stati
sommersi durante la IV Repubblica. Questo i Riotta non possono
spiegarlo: è così inefficiente il chavismo che ha dimezzato i
poveri che nella IV Repubblica erano arrivati al 70%.
Rispetto
al nostro cammino già segnato, il fiscal compact, l’agenda Monti,
il patto di stabilità, dogmi di fede che umiliano le democrazie
europee, Chávez in questi anni ha cento volte errato perché cento
volte ha fatto, provato, modificato ricette, ben riposto e mal
riposto fiducia nelle persone e nei dirigenti in un paese
terribilmente difficile come il Venezuela. È il caos creativo di un
mondo, quello venezuelano e latinoamericano, che si è messo in moto
in cerca della sua strada. Hanno chiamato questa strada socialismo,
proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava.
Anche se il cammino è tortuoso e ripido, è la più nobile delle
vette.
Fonte:
www.gennarocarotenuto.it
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