di Furio Stella.
Perché non si parla più di Fukushima. In Giappone il governo rassicura, ma il popolo non si fida e scende in piazza. Una ricerca indipendente: radioattività dieci volte superiore a quella pre-tsunami. Lo strano caso del CTBTO: le sue centraline monitorano quasi l’intero pianeta, ma i suoi dati non sono pubblici. Costa agli italiani 5 milioni l’anno e a livello giuridico nemmeno esiste
Perché non si parla più di Fukushima. In Giappone il governo rassicura, ma il popolo non si fida e scende in piazza. Una ricerca indipendente: radioattività dieci volte superiore a quella pre-tsunami. Lo strano caso del CTBTO: le sue centraline monitorano quasi l’intero pianeta, ma i suoi dati non sono pubblici. Costa agli italiani 5 milioni l’anno e a livello giuridico nemmeno esiste
E
Fukushima? Com’è che non si sente più parlare di Fukushima? I
reattori scoperchiati dallo tsunami dell’11 marzo 2011 sono stati
riparati? Qual è il livello di radioattività in tutto il Giappone?
E cosa dicono loro, i giapponesi, a due anni dal disastro nucleare
che secondo alcuni ricercatori sarebbe addirittura peggiore a quello
di Chernobyl del 1986? Non si sa. Giornali e tv, tranne rarissime
eccezioni, tacciono sull’argomento. E siamo anche d’accordo che
all’indomani di Fukushima i padroni dell’atomo hanno imposto al
mondo una sorta di moratoria (meglio: un divieto a parlarne), o che
notoriamente l’AIEA, la super organizzazione mondiale dell’energia
atomica, non può per suo stesso statuto divulgare i dati in suo
possesso, ma anche ai peggiori bavagli massmediatici dovrebbe esserci
un limite di decenza. Anche perché in Giappone, dove le proteste
sono merce molto rara, le manifestazioni antinucleari sono tuttora
all’ordine del giorno, e ciò nonostante la sordina degli organi
d’informazione ufficiali o i provvedimenti (dal manganello
all’arresto) delle forze dell’ordine.
SIT-IN.
Il sit-in più grosso si è registrato a fine giugno a Tokyo, dove
più di 150 mila persone hanno manifestato nel parco della capitale
il loro no al nucleare, in risposta alla decisione del premier
Yoshihiko Noda di riattivare due delle vecchie centrali chiuse dopo
l’incidente di Fukushima. «Lo impongono le necessità energetiche
del paese», ha detto Noda, ben consapevole che le 54 centrali
atomiche del Giappone forniscono alla sua nazione il 30 per cento
dell’energia elettrica, e tirato contemporaneamente per il coppino
dalla lobby degli affari e dell’industria. Un vero smacco dopo
l’annuncio del governo nipponico, non ancora tramutatosi in una
linea politica effettiva, di spegnere pian piano i reattori fino a
chiuderli definitivamente prima del 2040. «L’ottanta per cento dei
giapponesi è contrario al nucleare», continuano a ripetere intanto
i rappresentanti della protesta, riaccesasi proprio di recente dopo
la nomina all’interno della commissione governativa che dovrà
decidere il “quando” e il “come” di due membri accusati di
avere le mani in pasta con il nucleare e ritenuti per questo
ineleggibili.
VALORI.
A livello scientifico, nonostante i dati rassicuranti sbandierati dal
governo, non mancano le voci critiche. Chi si è speso di più è
senz’altro il professor Yukio Hayakawa, geologo dell’università
di Gunma, il quale se n’è andato in giro per la periferia di Tokyo
con un rilevatore di radioattività, riscontrando valori superiori
dieci volte la media del 2010 (cioè pre-Fukushima). Ricerca che gli
attirato non solo l’ira dell’apparato ufficiale, ma addirittura
quella della stessa università dove lavora che lo ha pubblicamente e
aspramente criticato. Ma se l’apparato politico e scientifico
respinge le critiche, la voce di Hayakawa non è una voce isolata. «A
Tokyo sembra di vivere in un film di fantascienza, sui dati della
radioattività il governo mente», ha dichiarato per esempio John
Clammer, professore di sociologia della Sophia University della
capitale, denunciando in pubblico la poca informazione data dal
governo. E non solo, visto che Clammer ha accusato Noda di aver
addirittura truccato le carte, nel senso di aver innalzato i
parametri di rischio radioattivo rispetto ai parametri sanciti
dall’OMS, l’organizzazione mondiale della Sanità. Con lo scopo,
ovvio, di riportare “nella norma” i valori riscontrati in tutto
il Giappone. Di più: ci sono altre ricerche indipendenti (sempre
fonte Clammer) che indicherebbero un aumento di radioattività
persino nel latte materno. Nulla di cui stupirsi visto che negli USA
ha destato scalpore uno studio dei biologi della California, secondo
cui i tonni a pinne blu o gialle in perenne migrazione tra le due
sponde dell’oceano Pacifico contengono tracce di radioattitività
che non erano invece presenti fino al 2010.
TRATTATO
FANTASMA.
L’onda di protesta popolare in Giappone conferma: la gente non si
fida più dei suoi governi. Di chi fidarsi allora? Be’, sarebbe
bello se le informazioni (i dati, i numeri, le cifre) potessero
essere messe direttamente a disposizione dei cittadini. Peccato che
invece, specie in materia di energia atomica, se ne restino chiuse
nel cassetto. Non solo le informazioni in possesso dell’AIEA di cui
s’è detto, o quelle dei referenti scientifici del governo di
Tokyo, ma anche quelle di un’altra organizzazione mondiale i cui
database potrebbero fornire un quadro molto più realistico e dunque
credibile della situazione. Parliamo del CTBTO, acronimo di
Comprehensive Nuclear Test-Ban Treaty Organization, l’organizzazione
internazionale con sede a Vienna (come l’AIEA) che dal 1996 si
occupa del controllo del bando totale degli esperimenti nucleari,
così come dal trattato di Ginevra firmato nello stesso anno.
Firmato? Oddio, firmato è una parola grossa nel senso che il
trattato, a distanza di ben 16 anni non è stato ancora ratificato da
tutti i suoi 182 stati membri – non solo da “stati canaglia”
come Iran e Corea del Nord ma anche da Stati Uniti, Cina, Israele,
India ed Egitto – e dunque non è in vigore. E di conseguenza sotto
il profilo giuridico il CTBTO è come se non esistesse nemmeno. Una
situazione paradossale, tanto da meritarsi addirittura la tirata
d’orecchi da parte dell’ONU. «Fallimento di responsabilità come
comunità internazionale», ha tuonato il mese scorso a New York il
segretario generale Ban Ki-moon durante l’ultimo meeting
ministeriale (il sesto: ce ne’è uno ogni due anni) dei paesi
membri. Meeting che avrebbe dovuto favorire o sollecitare appunto
l’entrata in vigore del trattato, e che invece non ha prodotto
niente di più che un souvenir: quello della solita foto di gruppo
dei ministri mondiali sorridenti, firmatari e non.
EPPUR
FUNZIONA.
Occasione persa, dicevamo. Ed è un peccato perché il CTBTO, di cui
l’Italia ha una rappresentanza permanente a Vienna, per quanto non
sia “ufficialmente” in funzione, in realtà funziona benissimo:
per quanto provvisorio, il suo segretariato tecnico ha già messo in
opera un sistema di monitoraggio internazionale con 273 stazioni di
rilevamento sulle 337 previste – ce ne sono anche in paesi non
firmatari come USA e Israele – che significa l’80 per cento della
capacità prevista dal trattato. E anche se in verità il CTBTO non è
stato concepito per controllare i livelli di radioattività nei
singoli stati, ma solo per individuare i segnali di un’esplosione
nucleare, come ha fatto per esempio nel 2006 con un test nordcoreano,
di fatto è stato utilizzato a uso civile nel monitoraggio di
materiali radioattivi proprio in seguito all’incidente di
Fukushima. Per mantenerne in piedi la struttura i paesi membri
scuciono dal 1996 circa 100 milioni di euro l’anno, di cui 5 sono
il contributo fisso dell’Italia. Saranno mica un po’ troppi 5
milioni, specie con i chiari di luna del governo Monti, per tenere in
piedi un’organizzazione che opera secondo un trattato mai
ratificato, dunque nullo, e che se mai un giorno funzionasse sul
serio a pieno regime, non potrebbe comunque essere di nessuna utilità
ai cittadini che con le loro tasse ne contribuiscono al bilancio? I
dati rilevati dalle stazioni del CTBTO, difatti, vengono forniti ai
governi degli stati firmatari (di cui s’è visto che i cittadini
non si fidano più, e fan bene) e, attraverso di essi, solo agli enti
accreditati della comunità scientifica. Oltre che all’immancabile
AIEA, si capisce. Il che conferma: sull’energia nucleare il
silenzio resta sempre la parola d’ordine.
fonte: www.stampalibera.com
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