di Giovanni Castellaneta.
Gli analisti di politica internazionale
attribuiscono grande importanza alle presidenziali del 14 giugno in
Iran. Una questione evidentemente non solo interna, ma con inevitabili
riflessi regionali e globali. La prospettiva elettorale sembra
delinearsi nel solco della conservazione, nel senso di una tendenza
involutiva. Essa mira a superare l’esperienza della leadership incarnata
da Ahmadinejad, sostenuta e riconfermata nel più recente passato a
tutela del regime degli Ayatollah minacciato dalla rivoluzione verde del
2009, ormai inspendibile e inaccettabile nelle sue derive scissioniste
ed eterodosse.
Di qui, l’esclusione del delfino di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashai dalla contesa presidenziale da parte del Consiglio dei Guardiani. Una direttrice che è stato a fortiori altrettanto logico vedere declinata nell’estromissione dell’ex presidente riformista Akbar Hashemi Rafsanjani.
Fine a sé stesso
Questa conservazione è diventata il vero e unico obiettivo politico del regime. Obiettivo che trascende la stessa gestione del potere e qualsiasi finalità interna o esterna essa possa prefiggersi. Un paradosso, forse, che si spiega con l’involuzione di un potere che ha perduto lo slancio e le motivazioni ideali della rivoluzione del 1979.
E che non sembra in grado di intercettare i mutamenti e le legittime aspirazioni di una società di 70 milioni di cittadini, dalla vivacissima articolazione sociale e culturale, per più di un quarto composta da giovani al di sotto dei 25 anni e oggi confrontata con le conseguenze di sanzioni, isolamento, crisi economica, disoccupazione, illiberalità. In una parola, con la gestione da parte di una leadership lontana culturalmente e dal punto di vista generazionale.
Che il vincitore sia Said Jalili, attuale negoziatore nucleare e candidato della Guida Suprema Khamenei, o Ali Akbar Velayati, suo consigliere di politica internazionale ed ex ministro degli esteri, non cambierà molto rispetto alla ferma volontà politica di preservare l’ortodossia di regime e fornirle amministratori che si differenziano solo per mere sfumature. Una sostanziale carenza di reale confronto che si tradurrà in un elevato astensionismo.
La partecipazione al voto e altri segnali che potranno derivare dalle urne saranno capaci di farci comprendere quanto saldo sia ancora il regime. E quanto valida la sua retorica, che da ultimo si è spinta a dichiarare che le sanzioni occidentali starebbero provocando non voluti effetti benefici ad un’economia che registra in realtà iperinflazione, assottigliamento delle riserve in valuta estera, aggravamento del deficit di bilancio, incapacità di differenziazione industriale rispetto al prevalente settore petrolifero.
Un regime che appare peraltro incapace persino di cavalcare a fini interni temi di aperta sensibilità per l’opinione pubblica, come la legittimazione del paese quale attore regionale e le sue aspirazioni a sviluppare il proprio programma nucleare. Ambizioni che richiedono tuttavia una necessaria premessa: l’avvio di una politica di affrancamento dall’isolamento internazionale, impossibile senza dialogare più costruttivamente con Stati Uniti e Israele. Ipotesi che rischia evidentemente di minare la sopravvivenza stessa del regime.
Rischio isolamento
Se questa è la prospettiva domestica, c’è da chiedersi cosa provocheranno le elezioni sullo scenario regionale e globale. Tra le presidenziali iraniane del 2009 e quelle del 2013 si è frapposta la primavera araba. In una cornice, peraltro, che aveva già registrato i rivolgimenti nell’ingombrante vicino iracheno, dove la fine dell’occupazione americana e la salita al potere di una leadership sciita ha aperto scenari di inconsueto riavvicinamento tra Baghdad e Teheran.
Il risveglio arabo, pur nato da istanze economico-sociali, è stato alimentato dalle monarchie del Golfo fino ad esacerbare la settarizzazione del confronto tra sciiti e sunniti. L’ascesa delle nuove dirigenze arabe ha acuito fenomeni di dissenso verso il regime iraniano in seno alle varie opinioni pubbliche e, nel più ampio scenario della contesa contro lo Stato di Israele, ha allontanato dal regime degli Ayatollah soggetti come Hamas.
In questo contesto, il vero nodo si gioca ovviamente in Siria. Poche settimane fa, per la prima volta, la comunità internazionale ha apertamente accusato Teheran di un intervento diretto nel conflitto. La presenza di militari iraniani è sintomatica di un aspetto cruciale della posizione internazionale iraniana: la caduta del regime di Assad costituirebbe il crollo dell’unico alleato in seno al mondo arabo e l’esasperazione di un isolamento che rischierebbe in questo caso di rivelarsi fatale.
Se non sarà la contesa elettorale a segnare, almeno nel breve periodo, mutamenti nella rotta dell’Iran, è verosimile che ulteriori aggravamenti del contesto economico o sviluppi del quadro regionale e internazionale (gli approdi della primavera araba e il destino della Siria di Assad in primis) possano innescare meccanismi e dinamiche di cambiamento. Quanto rapide e pacifiche resterà da vedere.
Giovanni Castellaneta, Ambasciatore d’Italia, è presidente di Sace.
Di qui, l’esclusione del delfino di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashai dalla contesa presidenziale da parte del Consiglio dei Guardiani. Una direttrice che è stato a fortiori altrettanto logico vedere declinata nell’estromissione dell’ex presidente riformista Akbar Hashemi Rafsanjani.
Fine a sé stesso
Questa conservazione è diventata il vero e unico obiettivo politico del regime. Obiettivo che trascende la stessa gestione del potere e qualsiasi finalità interna o esterna essa possa prefiggersi. Un paradosso, forse, che si spiega con l’involuzione di un potere che ha perduto lo slancio e le motivazioni ideali della rivoluzione del 1979.
E che non sembra in grado di intercettare i mutamenti e le legittime aspirazioni di una società di 70 milioni di cittadini, dalla vivacissima articolazione sociale e culturale, per più di un quarto composta da giovani al di sotto dei 25 anni e oggi confrontata con le conseguenze di sanzioni, isolamento, crisi economica, disoccupazione, illiberalità. In una parola, con la gestione da parte di una leadership lontana culturalmente e dal punto di vista generazionale.
Che il vincitore sia Said Jalili, attuale negoziatore nucleare e candidato della Guida Suprema Khamenei, o Ali Akbar Velayati, suo consigliere di politica internazionale ed ex ministro degli esteri, non cambierà molto rispetto alla ferma volontà politica di preservare l’ortodossia di regime e fornirle amministratori che si differenziano solo per mere sfumature. Una sostanziale carenza di reale confronto che si tradurrà in un elevato astensionismo.
La partecipazione al voto e altri segnali che potranno derivare dalle urne saranno capaci di farci comprendere quanto saldo sia ancora il regime. E quanto valida la sua retorica, che da ultimo si è spinta a dichiarare che le sanzioni occidentali starebbero provocando non voluti effetti benefici ad un’economia che registra in realtà iperinflazione, assottigliamento delle riserve in valuta estera, aggravamento del deficit di bilancio, incapacità di differenziazione industriale rispetto al prevalente settore petrolifero.
Un regime che appare peraltro incapace persino di cavalcare a fini interni temi di aperta sensibilità per l’opinione pubblica, come la legittimazione del paese quale attore regionale e le sue aspirazioni a sviluppare il proprio programma nucleare. Ambizioni che richiedono tuttavia una necessaria premessa: l’avvio di una politica di affrancamento dall’isolamento internazionale, impossibile senza dialogare più costruttivamente con Stati Uniti e Israele. Ipotesi che rischia evidentemente di minare la sopravvivenza stessa del regime.
Rischio isolamento
Se questa è la prospettiva domestica, c’è da chiedersi cosa provocheranno le elezioni sullo scenario regionale e globale. Tra le presidenziali iraniane del 2009 e quelle del 2013 si è frapposta la primavera araba. In una cornice, peraltro, che aveva già registrato i rivolgimenti nell’ingombrante vicino iracheno, dove la fine dell’occupazione americana e la salita al potere di una leadership sciita ha aperto scenari di inconsueto riavvicinamento tra Baghdad e Teheran.
Il risveglio arabo, pur nato da istanze economico-sociali, è stato alimentato dalle monarchie del Golfo fino ad esacerbare la settarizzazione del confronto tra sciiti e sunniti. L’ascesa delle nuove dirigenze arabe ha acuito fenomeni di dissenso verso il regime iraniano in seno alle varie opinioni pubbliche e, nel più ampio scenario della contesa contro lo Stato di Israele, ha allontanato dal regime degli Ayatollah soggetti come Hamas.
In questo contesto, il vero nodo si gioca ovviamente in Siria. Poche settimane fa, per la prima volta, la comunità internazionale ha apertamente accusato Teheran di un intervento diretto nel conflitto. La presenza di militari iraniani è sintomatica di un aspetto cruciale della posizione internazionale iraniana: la caduta del regime di Assad costituirebbe il crollo dell’unico alleato in seno al mondo arabo e l’esasperazione di un isolamento che rischierebbe in questo caso di rivelarsi fatale.
Se non sarà la contesa elettorale a segnare, almeno nel breve periodo, mutamenti nella rotta dell’Iran, è verosimile che ulteriori aggravamenti del contesto economico o sviluppi del quadro regionale e internazionale (gli approdi della primavera araba e il destino della Siria di Assad in primis) possano innescare meccanismi e dinamiche di cambiamento. Quanto rapide e pacifiche resterà da vedere.
Giovanni Castellaneta, Ambasciatore d’Italia, è presidente di Sace.
fonte: Affari Internazionali
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