A che serve la crisi europea? Una risposta è che rende inevitabile la privatizzazione delle attività pubbliche, con grandi profitti per i privati. Come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo
L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette
controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro.
Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese
non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il
credito. Una crisi di debito estero
(prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito
pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un
trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di
bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.
Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo?
Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito.
Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze
pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi
pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del
mondo.
Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche
troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore
pubblico, la cosiddetta starve the beast. La bestia è lo stato,
nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse
necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga
al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi
se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un
servizio pubblico sempre più scadente.
Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o
servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti.
Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga
in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va
male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
L’esperienza delle “riforme” nell’Europa centrale ed orientale subito
dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni
realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni
comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere
privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e
che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.
Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno
vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati
ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che
Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni.
Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo
ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea
nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i
cantieri navali. In Spagna le
privatizzazioni “express” riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di
treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna
d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie
dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia
è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di
privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come
condizione per continuare a ricevere gli aiuti europei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale,
spiegando la necessità di “nuovi modelli di finanziamento integrativo”.
L’agenda Monti oggi ci ricorda che “la crescita si può costruire solo
su finanze pubbliche sane” e quindi invita a “proseguire le operazioni
di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico”. E sulle prime
pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora “troppo stato in
quell’agenda.”
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista
(privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere
condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione
sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più
sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.
Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito
privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente
scontenti degli esiti. I giudizi ex-post sono tanto più critici quanto più
rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di
servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più
alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.
La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che
l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è
fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si
prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di
seguire nel dopo-elezioni.
Fonte: Sbilanciamoci
condiviso da: Anticorpi.info
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