di Manlio Dinucci.
Il summit «informale» tra il presidente Obama e il presidente cinese Xi
Jinping, il 7-8 giugno in California, sarà trasmesso in mondovisione
secondo la sceneggiatura washingtoniana della calda atmosfera familiare,
condita di sorrisi e facezie. Ma, spente le telecamere, i toni
cambieranno.
Sul tappeto ci sono molte questioni scottanti. Gli Usa, al
primo posto mondiale negli investimenti diretti esteri (Ide), hanno
investito oltre 55 miliardi di dollari in Cina (prima destinazione
mondiale degli Ide), dove le multinazionali statunitensi hanno sempre
più delocalizzato la loro produzione manifatturiera, gran parte della
quale viene reimportata negli Usa.
In tal modo però gli Stati uniti
hanno contratto con la Cina un deficit commerciale che nel 2012 ha
superato i 315 miliardi di dollari, 20 in più rispetto al 2011. Molto
minori gli investimensi cinesi negli Stati uniti, soprattutto a causa
delle restrizioni imposte: si permette alle società cinesi, ad esempio,
di investire nel settore alimentare (un gruppo di Shanghai ha appena
acquistato il maggiore produttore Usa di carne suina), ma il settore
delle telecomunicazioni resta per loro off limits. Washington inoltre
accusa la Cina di essere penetrata con i suoi hacker nei sistema
informatici Usa, rubando i dati relativi a una ventina dei più avanzati
sistemi d’arma.
L’economia cinese, salita al secondo posto mondiale con
un reddito nazionale lordo quasi la metà di quello Usa, è sempre più
dinamica: non solo la sua capacità produttiva è impressionante (esporta
ogni anno un miliardo di cellulari e 20 miliardi di capi di
abbigliamento), ma investe sempre più anche in paesi d’importanza
strategica per gli Usa. Dopo aver speso nelle guerre in Iraq e
Afghanistan 6mila miliardi di dollari ed essersi con ciò pesantemente
indebitati, gli Stati uniti vedono ora la Cina economicamente sempre più
presente in questi paesi.
In Iraq, essa non solo compra circa la metà
del petrolio prodotto, ma effettua attraverso compagnie statali grossi
investimenti nell’industria petrolifera, per oltre 2 miliardi di dollari
annui. Per il trasporto di personale tecnico cinese è stato costruito
un apposito aeroporto nei pressi del confine iraniano. La carta vincente
delle compagnie cinesi è che, a differenza della statunitense
ExxonMobil e di altre compagnie occidentali, accettano contratti per lo
sfruttamento dei giacimenti a condizioni molto più vantaggiose per lo
stato iracheno, non puntando al profitto ma al fatto di poter avere
petrolio, di cui la Cina è divenuta principale importatore mondiale. In
Afghanistan, compagnie cinesi stanno investendo soprattutto nel settore
minerario, dopo che geologi del Pentagono hanno scoperto ricchi
giacimenti di litio, cobalto, oro e altri metalli.
Sempre più in
difficoltà nella competizione economica, gli Usa gettano la spada sul
piatto della bilancia. Alla vigilia del summit, il segretario alla
difesa Hagel ha «riassicurato gli alleati asiatici di fronte alla
crescita militare cinese», promettendo che, nonostante l’austerità, gli
Usa schiereranno nella regione Asia/Pacifico forze dotate delle più
avanzate tecnologie militari: unità navali con armi laser, navi da
combattimento costiero, caccia F-35 e altre.
Le navi da guerra dislocate
nel Pacifico, che oggi costituiscono la metà delle cento dispiegate (su
un totale di 283), saranno ulteriormente aumentate. Così, sottolinea
Hagel, gli Stati uniti manterranno «un decisivo margine di superiorità
militare». A cui si aggrappa, per contrastare il declino, l’impero
americano d’Occidente.
fonte: Global Research
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