lunedì 24 giugno 2013

Kabul, transizione sulle sabbie mobili.

di Manlio Dinucci.

È rientrata dall’Afghanistan la 53a «vittima» italiana, termine usato per definire i militari Nato uccisi nelle operazioni belliche, non le migliaia di vittime civili che la guerra continua a provocare. 

E mentre si spettacolarizza il dolore dei familiari e le massime autorità dello stato esprimono il solito «profondo cordoglio», il ministro della difesa Mauro declama: «La libertà, la pace e la democrazia, a cui noi contribuiamo in diversi teatri operativi nel mondo, hanno purtroppo un prezzo e questa volta a pagarlo sono i nostri soldati». 

Per ben altri scopi sono in Afghanistan oltre 3mila soldati italiani (il quarto maggiore contingente dopo quelli di Stati uniti, Gran Bretagna e Germania). Sono là, sulla scia della strategia Usa, per occupare un territorio che – situato al crocevia tra Asia centrale e meridionale, occidentale e orientale – è di primaria importanza geostrategica rispetto a Russia, Cina, Iran e Pakistan, e alle riserve energetiche del Caspio e del Golfo. Sono là sotto comando Usa da quando la Nato ha assunto nel 2003 con un colpo di mano (allora senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza) la «leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu».

Dopo aver speso nella guerra circa 1.200 miliardi di dollari secondo il Pentagono (in realtà molti di più se si calcolano altre spese, tra cui quelle per gli oltre 18mila militari Usa feriti), gli Stati uniti hanno deciso di ridurre dal 2014 il numero delle loro truppe in Afghanistan da 68mila a circa 10mila. Riduzioni proporzionali sono state annunciate per gli altri contingenti, compreso quello italiano. 

Secondo quanto prevede il piano, un crescente ruolo sul campo dovrà essere svolto dalle forze governative afghane addestrate,  armate e di fatto comandate da quelle Usa/Nato, che conserveranno le principali basi in Afghanistan. La «transizione» consisterà non nella fine della guerra, ma nella sua trasformazione in guerra «coperta», condotta con forze speciali e droni. Gli Usa hanno impegnato gli alleati a contribuire alla formazione delle «forze di sicurezza afghane», già costata oltre 60 miliardi di dollari. 

Le cose non vanno però tanto bene: diversi soldati afghani, una volta addestrati, rivolgono le armi contro gli addestratori. Per la «transizione» la Nato deve quindi puntare ancora di più sul governo afghano, ossia sul gruppo di potere che ha insediato a Kabul. A tal fine sarà accresciuto il «fondo per la ricostruzione», già costato oltre 20 miliardi. In tale quadro si inserisce l’Accordo di partenariato firmato da Monti e Karzai, che prevede crediti agevolati e altri investimenti italiani in Afghanistan per centinaia di milioni di euro. 

Questo fiume di denaro finirà in gran parte nelle tasche di Hamid Karzai e dei suoi familiari, molti dei quali hanno cittadinanza Usa. Continueranno così  ad arricchirsi con i miliardi della Nato (che escono anche dalle nostre tasche), gli affari sottobanco con compagnie straniere, il traffico di droga. Non a caso l’anno scorso l’Afghanistan ha accresciuto del 18% le proprie piantagioni di oppio, il cui traffico è gestito non solo dai taleban ma in primo luogo dalla cerchia governativa. 

Una inchiesta del New York Times conferma che, per oltre un decennio, sono arrivate nell’ufficio del presidente Karzai, tramite la Cia, «borse di denaro liquido» per l’ammontare di decine di milioni di dollari. Niente scandalo: lo stesso Karzai ha dichiarato di essere stato assicurato dalla Cia che continuerà a ricevere «denaro contante», parte del quale servirà a «pagare l’élite politica, dominata dai signori della guerra».


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