lunedì 27 maggio 2013

Siria d'Oriente.



di Francesco Salistrari.

Oggi vorrei parlare della Siria e del dramma che ormai da due anni il popolo siriano sta vivendo sulla propria pelle.

In questi due anni, ho letto molto sulla Siria, sulla guerra, i ribelli, Assad, le strategie internazionali, gli interessi che si muovono intorno a quella che definirei una vera e propria “guerra sporca”. Così, dopo due anni in cui la mia attenzione è stata attratta da questa tragedia, tra le tante cose che ho potuto apprendere ne ho dedotto un'unica e sola certezza: la confusione. In realtà sulla Siria e quello che sta succedendo, si sa ben poco e quel poco che si sa è tutto e il contrario di tutto.

A differenza infatti di altre guerre e di altre tragedie di questi anni, in cui erano molto più nette sia le ragioni della guerra sia gli interessi che si muovevano intorno ad essa, per quanto riguarda la Siria, la situazione è molto più nebulosa e foriera di sviluppi nefasti.

Vorrei dunque condividere con voi alcune considerazioni a cui sono giunto nell'analisi della tragedia siriana, considerazioni che, nell'alternarsi di posizioni, fatti acclarati o meno, dichiarazioni e atti ufficiali, sembrano presentarmi un quadro meglio definito della situazione.

Partiamo col parlare dei prodromi della “rivolta” siriana. Da quello che apprendiamo, tutto si verificò agli inizi del 2011 sull'onda delle proteste che la stampa occidentale ha poi battezzato furbescamente “primavera araba”. Il tutto è partito da una richiesta sociale di base che chiedeva al potere di Bassar 'al Assad di riformarsi, attraverso una piena applicazione della Costituzione. Questo sotto la spinta da una parte delle richieste sociali per l'impennata dei prezzi dei generi di prima necessità (in effetti le “primavere arabe” più correttamente avrebbero dovuto essere chiamate “rivolte del pane”), dall'altra sotto la pressione delle pretese politiche della parte “sunnita” della società siriana. Il primissimo “fronte” dei ribelli, in realtà era rappresentato dalla società civile e politica del paese e accoglieva nelle sue fila gran parte dell'intellighenzia siriana. Dopo i “niet” di Assad alle riforme, le proteste sono cresciute e hanno cominciato a ingrandirsi anche dal punto di vista del bacino sociale dal quale attingevano, cominciando a diversificarsi in maniera netta ed accogliendo elementi dell'estremismo islamico (salafiti e jihadisti), del mondo politico dei “fratelli musulmani” e del mondo “sunnita” delle altre realtà arabe. Ben presto le prerogative dell'opposizione al dominio “alahuita” degli Assad (in vigore fin dagli anni '70), hanno cominciato ad alzare il livello delle pretese e sull'onda della propaganda più estremista, molti gruppi hanno cominciato ad armarsi. La formazione di gruppi armati, figlia diretta delle sempre più violente repressioni da parte del regime, immediatamente assume carattere internazionale. Questo perchè, tutti i principali attori internazionali (che presto vedremo) hanno intravisto la possibilità concreta di poter contribuire all'indebolimento del potere “alahuita” siriano e, sebbene da prospettive diverse e mossi da interessi spesso anche confliggenti, hanno cominciato a lavorare per rafforzare il fronte dei ribelli e dare un sostegno concreto e massiccio sia sul piano logistico-militare, ma anche politico internazionale.

Questo passaggio ha rappresentato la svolta della tragedia siriana, condannando il paese alla guerra civile e alla distruzione della storia millenaria delle sue città.

Gli attori internazionali che si muovono in Siria, contro il regime di Assad, è presto detto, sono Turchia, Israele e naturalmente Stati Uniti (con molta cautela). Poi ci sono i paesi arabi, come la monarchia Saudita dei Saud (armata fino ai denti anche da un recente contratto multimiliardario con gli Stati Uniti) e il Qatar. E naturalmente Russia e Cina.

Entrambi paesi a maggioranza “sunnita”, Arabia Saudita e Qatar, in realtà non vedono nella caduta di Assad solo una “rivincita” sunnita, ma anche un allargamento delle proprie prerogative per l'espansione dei propri affari commerciali (in particolare il Qatar ha interesse all'esportazione delle proprie eccedenze di gas). Turchia ed Israele, dal canto loro si muovono su direttrici diverse. La Turchia, nel tentativo di porsi come il crocevia dei traffici internazionali di materie prime verso l'Europa, Israele nel contenimento dell'influenza iraniana sull'area e la riduzione della minaccia degli Hezbollah libanesi (armati e finanziati da Iran e Siria).

In questo quadro si inseriscono un Iraq dilaniato e politicamente instabile, a guida sciita e tendenzialmente filo-siriano, ma con tutte le cautele del caso visto il tallone di ferro americano (non tanto più militarmente, quanto sulle riserve strategiche), ma soprattutto la questione kurda che irrompe anche nel caos siriano, con posizioni differenziate dal resto del “fronte ribelle” e in molti casi neutrale nei confronti di Bassar 'al Assad che ha capito che la sua unica speranza di restare in sella è sicuramente quella di dividere quanto più possibile la compattezza del “fronte”.

Un fronte che d'altra parte, al suo interno, appare frazionato in gruppi e gruppuscoli armati, tra i quali il più efficace è sicuramente Jabhat al Nusrah li-Ahl al-Sham di ispirazione salafita-jihadista, che dopo la scissione della Coalizione Nazionale (piattaforma creata in Qatar) ha assunto posizioni molto indipendenti dal resto dei ribelli e nei territori che controlla ha attivato una forte rete di sostegno alle popolazioni locali che gli consentono di avere un consistente consesno popolare (strategia che del resto nelle regioni da esso controllate applica anche il Partito Curdo Siriano, PYD).

Dunque il “fronte dei ribelli” riunito solo “ufficialmente” all'estero sotto la bandiera dell'Esercito Libero Siriano, riconosciuto tra gli altri dalla Turchia, da Francia e Gran Bretagna, in realtà è un mosaico di sigle e di gruppi armati che ricevono aiuti da un bel nutrito gruppo di paesi, tra cui gli USA, che ufficialmente temono l'affermarsi all'interno del fronte dei gruppi jihadisti e salafiti e quindi sembrano essere molto prudenti. In realtà sono ormai mesi che le componenti più democratiche e laiche dell'Esercito Libero Siriano, denunciano penuria nei rifornimenti che si accaparrerebbero i gruppi islamici più intransigenti. Il che fa pensare che in realtà i servizi di intelligence occidentali (presenti sul territorio) in qualche modo sono disposti a tollerare questi gruppi per una serie di ragioni. Una certamente di ordine militare: i gruppi jihadisti sono più organizzati, leali e addestrati, quindi più efficaci militarmente e inoltre sono gli unici che utilizzano gli “attentati kamikaze”, micidiali per le forze lealiste di Bassar 'al Assad. L'altra di ordine propriamente politico: la componente dei ribelli di ispirazione più democratica e moderata, non ha né le forze le competenze militari, né una presa sociale tale da garantire un “trapasso” ad uno Stato democratico di stampo filo-occidentale. Anzi il rischio che una “nuova” Siria democratica sia comunque ingestibile per gli interessi americani, è presa in seria considerazione. Al contrario il caos derivante da una vittoria jihadista, potrebbe diventare il pretesto per un intervento diretto o dell'ONU o degli USA stessi per “pacificare” la Siria. Non avendo infatti la possibilità di instaurare un governo filo-occidentale proprio per la frammentarietà del “fronte ribelle” e l'impossibilità di influire politicamente sul corso del dopo Assad, l'opzione del caos jihadista sarebbe preferibile, anche se le incognite e i rischi derivanti da questa opzione restano tantissimi. Tra l'altro per gli Stati Uniti è oltremodo complicato influire sui finanziamenti che arrivano dall'Arabia Saudita e dal Qatar ai ribelli, finanziamenti che in questa fase della guerra civile i gruppi jihaidisti sono più scaltri degli altri gruppi ad intercettare, anche per le reti salafite e jihadiste che operano in quei paesi.

E' per questo motivo che è stata tracciata quella che la Casa Bianca ha definito la “linea rossa” come discrimine ad un intervento militare diretto nel teatro di guerra in stile libico (o iraqueno), vale a dire l'uso di armi chimiche da parte del regime alahuita di Assad. Questo perchè gli USA vogliono ternersi aperta l'opzione militare diretta qualora si verificassero i seguenti scenari: o i ribelli vengono sconfitti militarmente dall'esercito siriano lealista, o la situazione derivante da una vittoria dei primi diventerebbe ingovernabile e una transizione filo-occidentale non sarebbe possibile. Quindi, da questo punto di vista c'è da aspettarsi di tutto.

E Cina e Russia?

La Russia in questo momento sta a guardare, anche se già in passato il suo sostegno ad Assad non è stato mai nascosto, sia in termini logistico-militari, sia in termini politici (nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU, per fare un esempio). Ma il sostegno della Russia, per ragioni tattiche, non è legato alla figura di Assad in quanto tale, quanto più alla funzione di cuscinetto alle aspirazioni di dominio di Israele e alla minaccia che queste rappresentano per l'Iran. In questo contesto, la Russia, cerca in tutti i modi di recuperare, grazie all'opera di mediazione (e all'appoggio al regime alahuita), un ruolo chiave nell'area mediorientale, ruolo smarrito a partire dalle guerre irachene e che il potere russo vuole assolutamente recuperare. Inoltre è assolutamente vitale per la Russia difendere le posizioni più moderate all'interno dei vari paesi mediorientali, in quanto una brusca svolta dei paesi arabi nel “sunnismo” filo-occidentale (o quantomeno autoreferenziale), potrebbe seriamente minacciare la leadership russa sulle forniture di gas in Europa. Da questo punto di vista, la Siria è determinante. Il problema russo, però, è rappresentato essenzialmente dalla sua debolezza. Perchè per essere realmente in grado di svolgere un ruolo di primo piano in medioriente, “perdere” la Siria (e di conseguenza mettere in difficoltà ancora maggiori l'Iran), sarebbe una brutta botta. E' dunque per questo che la Russia, promotrice della Conferenza internazionale di Ginevra in programma per giugno di quest'anno, vuole giocare un ruolo da protagonista. A questo proposito ha alzato il tiro schierando una flotta di navi da guerra nel cuore stesso del mediterraneo (con “compiti di routine ma anche di missioni da combattimento nel teatro mediterraneo”, qui) e fornendo un contingente di missili “Jackhont” direttamente al regime di Damasco. La Russia, quindi, seppur ancora debole rispetto alle reali esigenze strategiche da difendere, mostra i muscoli e lo fa in un momento cruciale della “partita” siriana, il che mette gli USA di fronte ad un bel dilemma, ancora più difficile da sciogliere.

La Cina dal canto suo, con una “fame energetica” a due cifre, sta alla finestra a guardare gli
sviluppi della situazione, cercando di salvaguardare il proprio rapporto privilegiato con la Russia (con cui ha stipulato degli accordi decennali di rifornimento di gas e petrolio), ma guarda con estrema attenzione al medioriente appoggiando nei consessi internazionali le posizioni russe, più per opportunità politica che per reali capacità di mediazione. Inoltre la politica espansiva in Africa (nel ramo dell'estrazione, agricolo, acquisto di terre, investimenti infrastrutturali), potrebbe essere un buon escamotage, qualora il medioriente “cada” totalmente in mani occidentali. A quel punto la partita energetica mondiale comincerebbe seriamente ed il gioco diventerebbe duro, con il mondo che si polarizzerebbe nello scontro Occidente-Oriente con interessi divergenti e competitivi, in modo più marcato rispetto ad oggi (la fine della globalizzazione mondiale?).

Questo perchè la guerra di Siria ha un eminente carattere strategico dal punto di vista del mercato mondiale di gas e petrolio. La Siria, infatti, oltre ad essere un alleato essenziale dell'Iran (che detiene il controllo dell'importantissimo Golfo di Hormuz), è anche collocata geograficamente in maniera strategica per quanto riguarda il passaggio del gas mediorientale attraverso la Turchia per l'Europa. Se l'annunciato accordo tra Iraq-Siria-Iran del mega-gasdotto che collegherebbe i tre paesi, infatti dovesse andare in porto e il progetto partire seriamente, la permanenza al potere della casata alahuita degli Assad, diventerebbe esiziale per gli interessi occidentali, in particolare israeliani, europei e turchi. In effetti, lasciare alle “potenze sciite” la possibilità di giocare in autonomia la propia partita energetica, sarebbe un problema non da poco. Perchè a quel punto diventerebbe impossibile tagliare fuori la Russia dal mercato europeo, il che rafforzerebbe enormemente il vecchio orso ex-sovietico e indebolirebbe la posizione statunitense che intenderebbe utilizzare le proprie eccedenze di gas (provenienti dall'estrazione dagli scisti bituminosi) per il mercato dell'area del Pacifico. L'accordo di libero scambio (Trans-Pacific Partnership) di cui sono cominciati i negoziati tra 10 nazioni dell'Asia-Pacifico e gli Stati Uniti, è funzionale proprio allo sbocco di queste eccedenze, oltre a configurare un “cuscinetto” anti-cinese direttamente in Oriente. Se però dovesse venire a mancare l'asse mediorientale per il rifornimento europeo, le cose si complicherebbero e non poco, con il versante orientale dei “blocchi” in formazione, che vedrebbe la sua posizione nel controllo geo-strategico delle risorse mondiali enormemente rafforzata.

Questa ultima eventualità, l'Occidente, dilaniato dalla più grave crisi economica dal dopoguerra ad oggi, può permettersela?

Ecco che dunque la guerra siriana appare in tutta la sua importanza e la sua possibile funzione destabilizzante degli scenari mondiali abbastanza evidente. I rischi di una conflagrazione dell'area in una guerra generalizzata appaiono dunque non troppo peregrini, anche perchè le variabili in campo sono tali e tante, da lasciare aperto qualsiasi sviluppo, non ultimo (e impossibile) quello di uno scontro mondiale.

La situazione dunque appare delicata e chi, come l'Europa, ha riposto grandi speranze nella Conferenza di Ginevra, potrebbe essere fortemente deluso, perchè gli interessi in gioco appaiono difficilmente conciliabili a meno di pesanti rinunce degli attori in campo. Il che, da una parte e dall'altra, presuppone un fortissimo contenimento dei propri interessi.

L'Occidente è disposto davvero a fare un passo indietro e a cercare una reale soluzione pacificatoria per il medioriente? Il rafforzamento di Cina e Russia, è un pegno troppo alto da pagare? O questo presupporrebbe un'indebolimento occidentale troppo ingente?

La verità è che il Medioriente in questo inizio di 2013 appare sempre più come una pentola a pressione a cui si è inceppata la valvola di sfogo. Quando salterà il coperchio?

Nessun commento:

Posta un commento

Followers