di Francesco Salistrari.
Oggi
vorrei parlare della Siria e del dramma che ormai da due anni
il popolo siriano sta vivendo sulla propria pelle.
In
questi due anni, ho letto molto sulla Siria, sulla guerra, i ribelli,
Assad, le strategie internazionali, gli interessi che si
muovono intorno a quella che definirei una vera e propria “guerra
sporca”. Così, dopo due anni in cui la mia attenzione è stata
attratta da questa tragedia, tra le tante cose che ho potuto
apprendere ne ho dedotto un'unica e sola certezza: la confusione. In
realtà sulla Siria e quello che sta succedendo, si sa ben poco e
quel poco che si sa è tutto e il contrario di tutto.
A
differenza infatti di altre guerre e di altre tragedie di questi
anni, in cui erano molto più nette sia le ragioni della guerra sia
gli interessi che si muovevano intorno ad essa, per quanto riguarda
la Siria, la situazione è molto più nebulosa e foriera di sviluppi
nefasti.
Vorrei
dunque condividere con voi alcune considerazioni a cui sono giunto
nell'analisi della tragedia siriana, considerazioni che,
nell'alternarsi di posizioni, fatti acclarati o meno, dichiarazioni e
atti ufficiali, sembrano presentarmi un quadro meglio definito della
situazione.
Partiamo
col parlare dei prodromi della “rivolta” siriana. Da quello che
apprendiamo, tutto si verificò agli inizi del 2011 sull'onda delle
proteste che la stampa occidentale ha poi battezzato furbescamente
“primavera araba”. Il tutto è partito da una richiesta
sociale di base che chiedeva al potere di Bassar 'al Assad di
riformarsi, attraverso una piena applicazione della Costituzione.
Questo sotto la spinta da una parte delle richieste sociali per
l'impennata dei prezzi dei generi di prima necessità (in
effetti le “primavere arabe” più correttamente avrebbero dovuto
essere chiamate “rivolte del pane”), dall'altra sotto la
pressione delle pretese politiche della parte “sunnita”
della società siriana. Il primissimo “fronte” dei ribelli, in
realtà era rappresentato dalla società civile e politica del paese
e accoglieva nelle sue fila gran parte dell'intellighenzia
siriana. Dopo i “niet” di Assad alle riforme, le proteste
sono cresciute e hanno cominciato a ingrandirsi anche dal punto di
vista del bacino sociale dal quale attingevano, cominciando a
diversificarsi in maniera netta ed accogliendo elementi
dell'estremismo islamico (salafiti e
jihadisti), del mondo politico dei “fratelli musulmani”
e del mondo “sunnita” delle altre realtà arabe. Ben presto le
prerogative dell'opposizione al dominio “alahuita” degli Assad
(in vigore fin dagli anni '70), hanno cominciato ad alzare il livello
delle pretese e sull'onda della propaganda più estremista, molti
gruppi hanno cominciato ad armarsi. La formazione di gruppi armati,
figlia diretta delle sempre più violente repressioni da parte
del regime, immediatamente assume carattere internazionale. Questo
perchè, tutti i principali attori internazionali (che presto
vedremo) hanno intravisto la possibilità concreta di poter
contribuire all'indebolimento del potere “alahuita” siriano e,
sebbene da prospettive diverse e mossi da interessi spesso anche
confliggenti, hanno cominciato a lavorare per rafforzare il fronte
dei ribelli e dare un sostegno concreto e massiccio sia sul piano
logistico-militare, ma anche politico internazionale.
Questo
passaggio ha rappresentato la svolta della tragedia siriana,
condannando il paese alla guerra civile e alla distruzione della
storia millenaria delle sue città.
Gli
attori internazionali che si muovono in Siria, contro il regime di
Assad, è presto detto, sono Turchia, Israele e
naturalmente Stati Uniti (con molta cautela). Poi ci sono i
paesi arabi, come la monarchia Saudita dei Saud (armata fino
ai denti anche da un recente contratto multimiliardario con gli Stati
Uniti) e il Qatar. E naturalmente Russia e Cina.
Entrambi
paesi a maggioranza “sunnita”, Arabia Saudita e Qatar, in realtà
non vedono nella caduta di Assad solo una “rivincita” sunnita, ma
anche un allargamento delle proprie prerogative per l'espansione dei
propri affari commerciali (in particolare il Qatar ha interesse
all'esportazione delle proprie eccedenze di gas). Turchia ed Israele,
dal canto loro si muovono su direttrici diverse. La Turchia, nel
tentativo di porsi come il crocevia dei traffici internazionali di
materie prime verso l'Europa, Israele nel contenimento
dell'influenza iraniana sull'area e la riduzione della minaccia degli
Hezbollah libanesi (armati e finanziati da Iran e Siria).
In
questo quadro si inseriscono un Iraq dilaniato e politicamente
instabile, a guida sciita e tendenzialmente filo-siriano, ma con
tutte le cautele del caso visto il tallone di ferro americano (non
tanto più militarmente, quanto sulle riserve strategiche), ma
soprattutto la questione kurda che irrompe anche nel caos
siriano, con posizioni differenziate dal resto del “fronte ribelle”
e in molti casi neutrale nei confronti di Bassar 'al Assad che ha
capito che la sua unica speranza di restare in sella è sicuramente
quella di dividere quanto più possibile la compattezza del “fronte”.
Un
fronte che d'altra parte, al suo interno, appare frazionato in gruppi
e gruppuscoli armati, tra i quali il più efficace è sicuramente
Jabhat
al Nusrah li-Ahl al-Sham
di ispirazione salafita-jihadista,
che dopo la scissione della Coalizione
Nazionale
(piattaforma creata in Qatar) ha assunto posizioni molto indipendenti
dal resto dei ribelli e nei territori che controlla ha attivato una
forte rete di sostegno alle popolazioni locali che gli consentono di
avere un consistente
consesno popolare (strategia
che del
resto
nelle regioni da
esso controllate
applica
anche
il Partito
Curdo Siriano,
PYD).
Dunque
il “fronte dei ribelli” riunito solo “ufficialmente”
all'estero sotto la bandiera dell'Esercito
Libero Siriano,
riconosciuto tra
gli altri dalla
Turchia, da Francia
e Gran
Bretagna,
in realtà è un mosaico di sigle e di gruppi armati che ricevono
aiuti da un bel nutrito gruppo di paesi, tra cui gli USA, che
ufficialmente temono l'affermarsi all'interno del fronte dei gruppi
jihadisti e salafiti e quindi sembrano essere molto prudenti. In
realtà sono ormai mesi che le componenti più democratiche e laiche
dell'Esercito Libero Siriano, denunciano penuria
nei rifornimenti
che si accaparrerebbero i gruppi islamici più intransigenti. Il che
fa pensare che in realtà i
servizi di intelligence occidentali (presenti
sul territorio) in
qualche modo sono disposti a tollerare
questi gruppi per una serie di ragioni. Una certamente di ordine
militare: i gruppi jihadisti sono più organizzati, leali e
addestrati, quindi più efficaci militarmente e inoltre sono gli
unici che utilizzano
gli
“attentati kamikaze”, micidiali per le forze lealiste di Bassar
'al Assad. L'altra di ordine propriamente politico: la
componente
dei ribelli di
ispirazione più democratica e moderata, non ha né le forze nè
le competenze militari, né una
presa sociale tale da garantire un “trapasso” ad uno Stato
democratico di stampo filo-occidentale. Anzi il rischio che una
“nuova” Siria democratica sia comunque ingestibile per gli
interessi americani, è presa in seria considerazione. Al contrario
il
caos derivante da una vittoria
jihadista,
potrebbe
diventare il pretesto per un
intervento diretto o dell'ONU
o degli USA stessi per “pacificare” la Siria. Non avendo infatti
la possibilità di instaurare un governo filo-occidentale
proprio per la frammentarietà del “fronte ribelle” e
l'impossibilità di influire politicamente sul corso del dopo Assad,
l'opzione del caos jihadista sarebbe preferibile, anche se le
incognite e i rischi derivanti da questa opzione restano
tantissimi.
Tra
l'altro per gli Stati Uniti è oltremodo complicato influire sui
finanziamenti che arrivano dall'Arabia Saudita e dal Qatar ai
ribelli, finanziamenti che in questa fase della guerra civile i
gruppi jihaidisti sono più scaltri degli altri gruppi ad
intercettare, anche
per le reti salafite e jihadiste che operano in quei paesi.
E'
per questo motivo che è stata tracciata quella che la Casa
Bianca
ha definito la “linea
rossa”
come discrimine
ad
un intervento militare diretto nel teatro di guerra in stile libico
(o iraqueno), vale a dire l'uso
di armi chimiche
da parte del regime alahuita di Assad. Questo perchè gli USA
vogliono ternersi aperta l'opzione militare diretta qualora si
verificassero i seguenti scenari: o i ribelli vengono
sconfitti
militarmente dall'esercito siriano lealista, o la situazione
derivante da una vittoria dei primi diventerebbe ingovernabile e una
transizione filo-occidentale non sarebbe possibile. Quindi, da questo
punto di vista c'è da aspettarsi di tutto.
E
Cina e Russia?
La
Russia in questo momento sta a guardare, anche se già in
passato il suo sostegno ad Assad non è stato mai nascosto, sia in
termini logistico-militari, sia in termini politici (nel Consiglio
di Sicurezza dell'ONU, per fare un esempio). Ma il sostegno della
Russia, per ragioni tattiche, non è legato alla figura di Assad in
quanto tale, quanto più alla funzione di cuscinetto alle aspirazioni
di dominio di Israele e alla minaccia che queste rappresentano per
l'Iran. In questo contesto, la Russia, cerca in tutti i modi di
recuperare, grazie all'opera di mediazione (e all'appoggio al regime
alahuita), un ruolo chiave nell'area mediorientale, ruolo smarrito a
partire dalle guerre irachene e che il potere russo vuole
assolutamente recuperare. Inoltre è assolutamente vitale per la
Russia difendere le posizioni più moderate all'interno dei vari
paesi mediorientali, in quanto una brusca svolta dei paesi arabi nel
“sunnismo” filo-occidentale (o quantomeno autoreferenziale),
potrebbe seriamente minacciare la leadership russa sulle forniture di
gas in Europa. Da questo punto di vista, la Siria è determinante. Il
problema russo, però, è rappresentato essenzialmente dalla sua
debolezza. Perchè per essere realmente in grado di svolgere un ruolo
di primo piano in medioriente, “perdere” la Siria (e di
conseguenza mettere in difficoltà ancora maggiori l'Iran), sarebbe
una brutta botta. E' dunque per questo che la Russia, promotrice
della Conferenza internazionale di Ginevra in programma
per giugno di quest'anno, vuole giocare un ruolo da protagonista. A
questo proposito ha alzato il tiro schierando una flotta di navi
da guerra nel cuore stesso del mediterraneo (con
“compiti di routine ma anche di missioni da combattimento nel
teatro mediterraneo”, qui)
e fornendo un contingente di
missili “Jackhont”
direttamente al regime di Damasco. La Russia, quindi, seppur ancora
debole rispetto alle reali esigenze strategiche da difendere, mostra
i muscoli e lo fa in un momento cruciale della “partita” siriana,
il che mette gli USA di fronte ad un bel dilemma, ancora più
difficile da sciogliere.
La
Cina dal canto suo, con una “fame energetica” a due cifre,
sta alla finestra a guardare gli
sviluppi della situazione, cercando
di salvaguardare il proprio rapporto privilegiato con la Russia (con
cui ha stipulato degli accordi decennali di rifornimento di gas e
petrolio), ma guarda con estrema attenzione al medioriente
appoggiando nei consessi internazionali le posizioni russe, più per
opportunità politica che per reali capacità di mediazione. Inoltre
la politica espansiva in Africa (nel ramo dell'estrazione,
agricolo, acquisto di terre, investimenti infrastrutturali), potrebbe
essere un buon escamotage, qualora il medioriente “cada”
totalmente in mani occidentali. A quel punto la partita energetica
mondiale comincerebbe seriamente ed il gioco diventerebbe duro, con
il mondo che si polarizzerebbe nello scontro Occidente-Oriente con
interessi divergenti e competitivi, in modo più marcato rispetto ad
oggi (la fine della globalizzazione mondiale?).
Questo
perchè la guerra di Siria ha un eminente carattere strategico dal
punto di vista del mercato mondiale di gas e petrolio. La Siria,
infatti, oltre ad essere un alleato essenziale dell'Iran (che detiene
il controllo dell'importantissimo Golfo di Hormuz), è anche
collocata geograficamente in maniera strategica per quanto riguarda
il passaggio del gas mediorientale attraverso la Turchia per
l'Europa. Se l'annunciato accordo tra Iraq-Siria-Iran del
mega-gasdotto che collegherebbe i tre paesi, infatti dovesse andare
in porto e il progetto partire seriamente, la permanenza al potere
della casata alahuita degli Assad, diventerebbe esiziale per gli
interessi occidentali, in particolare israeliani, europei e turchi.
In effetti, lasciare alle “potenze sciite” la possibilità di
giocare in autonomia la propia partita energetica, sarebbe un
problema non da poco. Perchè a quel punto diventerebbe impossibile
tagliare fuori la Russia dal mercato europeo, il che rafforzerebbe
enormemente il vecchio orso ex-sovietico e indebolirebbe la posizione
statunitense che intenderebbe utilizzare le proprie eccedenze di gas
(provenienti dall'estrazione dagli scisti bituminosi) per il mercato
dell'area del Pacifico. L'accordo di libero scambio
(Trans-Pacific
Partnership) di cui sono cominciati i negoziati tra 10 nazioni
dell'Asia-Pacifico e
gli Stati Uniti, è funzionale proprio allo sbocco di queste
eccedenze, oltre a configurare un “cuscinetto” anti-cinese
direttamente in Oriente. Se però dovesse venire a mancare l'asse
mediorientale per il rifornimento europeo, le cose si
complicherebbero e non poco, con il versante orientale dei “blocchi”
in formazione, che vedrebbe la sua posizione nel controllo
geo-strategico delle risorse mondiali enormemente rafforzata.
Questa
ultima eventualità, l'Occidente, dilaniato dalla più grave crisi
economica dal dopoguerra ad oggi, può permettersela?
Ecco
che dunque la guerra siriana appare in tutta la sua importanza e la
sua possibile funzione destabilizzante degli scenari mondiali
abbastanza evidente. I rischi di una conflagrazione dell'area in una
guerra generalizzata appaiono dunque non troppo peregrini, anche
perchè le variabili in campo sono tali e tante, da lasciare aperto
qualsiasi sviluppo, non ultimo (e impossibile) quello di uno scontro
mondiale.
La
situazione dunque appare delicata e chi, come l'Europa, ha riposto
grandi speranze nella Conferenza di Ginevra, potrebbe essere
fortemente deluso, perchè gli interessi in gioco appaiono
difficilmente conciliabili a meno di pesanti rinunce degli attori in
campo. Il che, da una parte e dall'altra, presuppone un fortissimo
contenimento dei propri interessi.
L'Occidente
è disposto davvero a fare un passo indietro e a cercare una reale
soluzione pacificatoria per il medioriente? Il rafforzamento di Cina
e Russia, è un pegno troppo alto da pagare? O questo presupporrebbe
un'indebolimento occidentale troppo ingente?
La
verità è che il Medioriente in questo inizio di 2013 appare sempre
più come una pentola a pressione a cui si è inceppata la valvola di
sfogo. Quando salterà il coperchio?
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