di Wu-Ming.
Avevamo detto che sarebbe stata la battaglia delle Termopili e invece si è trasformata in quella di Platea. I trecento spartani sono stati raggiunti da cinquantamila liberi “greci” e insieme hanno battuto Serse. Cinquantamila bolognesi hanno votato per l’abolizione del finanziamento comunale alle scuole d’infanzia paritarie private, contro i trentacinquemila che hanno votato invece per il mantenimento dello status quo.
Ora i “persiani” sminuiscono il risultato referendario, dicendo che in fondo in battaglia è scesa poca gente, appena il 28,7 per cento dell’elettorato bolognese, quindi si è trattato solo di una scaramuccia alla periferia del loro traballante impero.
Qualcuno si spinge perfino a dire che chi non è andato a votare lo ha fatto perché appoggia la politica scolastica dell’amministrazione (vedi Edoardo Patriarca del Pd). Un curioso modo di ragionare, tenendo conto che l’amministrazione bolognese, insieme alla più estesa ed eclettica alleanza di apparati politico-economici mai vista, ha fatto una sfegatata propaganda per il voto, non per l’astensione. Gran parte dell’armata persiana ha disertato la battaglia e questa sarebbe una vittoria di Serse?
La logica distorta si commenta da sé.
Pd, Pdl, Lega nord, Scelta civica, Cei, Curia, Cisl, Ascom, Confindustria, Cna, con gli endorsement di Prodi, Renzi, Lupi, Gasparri, Casini, hanno chiamato al voto per l’opzione B (continuare a finanziare le scuole paritarie private), e hanno mobilitato meno gente di un piccolo comitato di volontari, che invece ha incassato una vittoria 59 per cento a 41. L’opzione A (dare quei soldi alle scuole pubbliche comunali e statali) ha vinto in tutti i seggi eccetto quelli pedecollinari, che raccolgono il voto dei bolognesi più abbienti e tradizionalmente di destra. Significa che gran parte dell’elettorato del Pd si è astenuto oppure ha votato A, perfino nei quartieri dove il partitone ha più tesserati. Di fronte a questa evidenza verrebbe da dire “a buon intenditor poche parole”, se non fosse che gli intenditori si sono estinti da un pezzo in favore dei navigatori a vista, per giunta mezzi ciechi o ubriachi.
Ottantacinquemila votanti su duecentonovantamila aventi diritto. In sostanza, meno di un elettore bolognese su tre è andato alle urne. Potevano essere di più? Senz’altro. Se i seggi fossero stati quelli delle amministrative, vicino a casa, dove la gente è abituata ad andare a votare; se i dipendenti comunali ai seggi fossero stati dotati di uno stradario per indirizzare gli elettori disorientati alle sezioni giuste; se il sito del comune non fosse andato in tilt e le linee telefoniche non fossero state intasate; se alcuni seggi non fossero stati a casa del diavolo, come si suol dire (guarda caso quelli dove l’affluenza è stata più bassa); o semplicemente se i seggi fossero stati più numerosi e si fosse votato in due giorni anziché in uno solo.
Ma il motivo di fondo della bassa affluenza non è l’imbarazzante negligenza organizzativa del comune di Bologna. La verità è che una vasta fetta di popolazione ha sottovalutato la valenza politica del quesito referendario, magari perché non ha figli in età scolare o non lavora nel settore dell’istruzione, o semplicemente perché è talmente sfiduciata nella possibilità che la propria espressione venga tenuta in conto da non avere più nemmeno voglia di mettersi in fila a un seggio. Lo hanno dimostrato, in contemporanea, le elezioni amministrative in varie città italiane. Non c’è chiamata di correo che tenga, sono in tanti ormai a non crederci più.
Ecco perché i cinquantamila di Bologna sono tanto più importanti. Ecco perché quella di Bologna non è stata una semplice scaramuccia, ma una battaglia campale condotta senza risparmio di energie da entrambe le parti, sotto i riflettori nazionali. Si è risolta in una vittoria dei referendari, prodotta dal basso, con l’appoggio nominale di una sfilza di intellettuali e artisti famosi, che però non sono venuti a Bologna a metterci la faccia (ad eccezione di Moni Ovadia e Paolo Flores D’Arcais). Una vittoria ottenuta con le proprie sole forze, se si tiene conto che nemmeno gli unici due partiti presenti in consiglio comunale che appoggiavano l’opzione A, cioè Sel e M5s, hanno dato un contributo determinante alla campagna referendaria. Insomma è innanzitutto una vittoria contro la depressione e la frustrazione dilaganti. La dimostrazione che “si può fare”, anche in pochi contro tanti e contro ogni pronostico.
E adesso? Secondo il regolamento la risposta del comune rispetto al risultato della consultazione dovrà arrivare entro novanta giorni. Più verosimilmente entro le vacanze estive. Intanto dal sito del comune di Bologna il referendum è già sparito. Come non fosse mai successo. Le dichiarazioni del sindaco Merola – lo stesso che ha mandato una lettera a casa dei bolognesi invitandoli a votare B; quello che ha ceduto al comitato per la B i propri spazi elettorali; colui che ha lanciato la riscossa del Pd nazionale a partire dal referendum bolognese – cercano di nascondere la débâcle politica dietro la scarsa affluenza e in buona sostanza annunciano che non cambierà nulla. Il sistema integrato non si tocca, tutt’al più si potranno fare due cose: “migliorare” la convenzione con le scuole private, per esempio con maggiori controlli, e chiedere tutti insieme appassionatamente, pro-A e pro-B, che lo stato sganci più soldi per le scuole d’infanzia.
La seconda eventualità sembra la più improbabile nell’epoca del governo ircocervo. Tuttavia, il ministro dell’istruzione Carrozza, che ha sostenuto la B e i finanziamenti alle scuole private paritarie, adesso dichiara che il referendum bolognese “apre un dibattito e stimola una riflessione sul ruolo del servizio pubblico in rapporto alle scuole parificate che vale la pena di approfondire anche a livello nazionale […]. Il rapporto tra il sistema pubblico e quello paritario non cambia nell’immediato, ma il voto di Bologna porta a fare una riflessione anche su scala nazionale, in stretto rapporto con gli enti locali, su quello che dovrà essere il sistema a lungo termine […]. Noi sappiamo che la scuola pubblica ha bisogno di investimenti, soprattutto per quanto riguarda l’edilizia scolastica ed è su questo che ragioneremo guardando anche a ciò che succede a Bologna”.
Insomma, pare che a dispetto delle minimizzazioni fatte dai generali persiani sconfitti, a Bologna qualcosa sia in effetti successo. Un punto a favore della riaffermazione del diritto alla scuola pubblica è stato messo a segno, se non altro nella percezione degli osservatori e con buona pace di chi vorrebbe scordare in fretta che una battaglia sia mai avvenuta.
Quanto al “miglioramento” della convenzione con le scuole paritarie private, bisognerà innanzitutto capire cosa significa. Il fronte della A ha sostenuto fin dall’inizio che se ne potrebbe fare a meno, senza lasciare a casa manco un bambino. Probabile che si tratti di mettersi intorno a un tavolo con una calcolatrice e dimostrare a chi di dovere che le scelte riguardano assai più il campo della volontà politica che quello dell’ineluttabile destino.
Infine si tratterà di capire se altre realtà locali seguiranno l’esempio di Bologna e se questo potrà mai alludere a un eventuale movimento nazionale che metta in discussione la sussidiarietà e immagini una sorte diversa per la scuola italiana.
Più che probabile che la riscossa non sia dietro l’angolo (nessun Alessandro Magno in vista, tanto per proseguire sulla stessa metafora…). Ma intanto oggi, a Bologna, i reduci vittoriosi della battaglia camminano a testa alta. E guardano avanti.
fonte: Internazionale
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