giovedì 23 maggio 2013

Le divergenze tra il compagno Bagnai e noi.


Propongo questa critica di Moreno Pasquinelli ad uno dei maggiori rappresentanti del dibattito anti-euro nel nostro paese, Alberto Bagnai.
In queste righe è condensata la visione da "sinistra" dell'uscita dall'euro del nostro paese e dell'analisi marxista della crisi capitalistica in corso.
Un lungo, ma interessante, articolo attraverso cui fornirsi di strumenti d'analisi alternativi per leggere il mondo attuale e la crisi in corso.

di Moreno Pasquinelli.
fonte: Sollevazione.

23 maggio. Ci giunge notizia che Alberto Bagnai (nella foto) si è finalmente deciso a scendere in campo, che sta per lanciare un Manifesto, allo scopo di aggregare energie nuove per, evidentemente, dare vita ad un movimento politico per l’uscita dell’Italia dall’euro. E’ un’ottima notizia. Ma dire no all’euro non è sufficiente. Dall’euro si può uscire in tanti modi e addirittura con opposte finalità. Ci sono quindi aspetti teorici e politici che la questione dell’uscita tira in ballo. Di questo vogliamo parlare. 

«La teoria economica dice questo: in un’area valutaria in cui non c’è mobilità, non ci sono trasferimenti e per di più avviene uno shock, si ha un collasso. L’aspetto criminale dei fondatori dell’Euro è che tutto questo lo sapevano, e non solo non han fatto nulla, ma anzi l’hanno fatto apposta: la crisi dell’Euro di oggi era inevitabile». [1] 
Questa sentenza senza appello non l’ha pronunciata Alberto Bagnai, bensì quel liberista incallito di Luigi Zingales. Seppur tradendo una certa falsa modestia Bagnai ci dice infatti: 

«Non per fare il “precisino”, ma vorrei chiarire subito che quelle che in Italia sono indicate come le “mie” tesi sull’euro in realtà di mio hanno ben poco. Ci tengo sia per onestà intellettuale (non sarebbe bello attribuirsi idee altrui), sia per far capire quanto sia indietro il dibattito in Italia (dove tesi comunemente accettate all’estero ancora sembrano rivoluzionarie)». [2] 

Noi non ci occuperemo tuttavia dei difetti di Bagnai ma se c’è una teoria economica che soggiace alle sue posizioni e, se c’è, di quale essa sia. 

I followers di Bagnai cadranno dalle nuvole: “Di quale teoria economica state parlando? Alberto snocciola dati e fatti così come si presentano, si limita ad interpretarli, di teorie sistemiche non c’è bisogno”. 

I “dati”, i “fatti”. Non dovrebbe essere necessario scomodare Kant per capire che la nostra conoscenza non viene dal mero riflettere dei fatti empirici nella nostra mente, che essa è invece possibile perché la nostra ragione li afferra e li ordina necessariamente in base a criteri e forme a priori. Quindi può interpretarli. Siccome stiamo parlando di fenomeni sociali, e dato che la società è composta di classi e segnata da conflitti, ogni giudizio su di essi, per quanto pretenda di essere “oggettivo”, contiene implicita una concezione “soggettiva”. Nessuna interpretazione è innocente. 
A. Smith

Immaginiamo l’obiezione dei seguaci: “ammesso che sia così, se Bagnai ha tirato conclusioni giuste sull’euro e il suo fatale destino, la sua teoria economica è evidentemente corretta”. Prima contro-obiezione: se anche Zingales, un ultra-liberista seguace di Milton Friedman e grande estimatore del thatcherismo, quindi apparentemente molto distante dalle concezioni di Bagnai, predica l’insostenibilità di una moneta unica per più paesi che non sia affiancata da comuni politiche fiscali, di bilancio e sociali, rivela appunto che si può trarre un medesimo giudizio di fatto, pur avendo differenti giudizi di valore. Seconda contro-obiezione: il fatto che per secoli i marinai abbiano solcato i mari e tracciato con estrema precisione le loro rotte pur basandosi sull’idea che la terra fosse il centro dell’universo non rende evidentemente giusta la teoria geocentrica. 

Potete scavare in lungo e in largo nella copiosa produzione di Bagnai, a cominciare da “Il tramonto dell’euro”, per quanto possa sembrarvi paradossale non troverete mai il concetto di “crisi del sistema capitalistico”. Il fatto che ciò lo accomuni allo schieramento bipolare degli economisti mainstream divisi, così si dice, tra ortodossi ed eterodossi, non rende meno grave questa spaventosa deficienza. Una prova lampante che tutti costoro, liberisti e pseudo-keynesiani, pur accapigliandosi, si basano sul medesimo paradigma, la cui genetica caratteristica è quella di dare per scontato che quello capitalistico non è un sistema storicamente determinato, con contraddizioni sue proprie, bensì destinato ad essere eterno. Tutt’al più esso conoscerebbe solo “squilibri”, quindi essi si dividono solo sulle terapie: su come detti squilibri necessariamente momentanei debbano essere superati. 

Conosciamo l’antifona: “ariecco i soliti marxisti tetragoni!”. Voilà il sintomo infallibile della momentanea vittoria del cosiddetto “pensiero unico”, la medaglia di cui neoliberismo e neo-keynesismo sono le due facce. Una tombale amnesia sembra essere calata sulla teoria economica, lo stigma della pervasività delle teorie dei seguaci contemporanei dei neoclassici o marginalisti che seppellirono brutalmente come “metafisiche” non solo le riflessioni di Marx, ma pure quelle di economisti come Smith, di Ricardo, di Sismondi, di Malthus, di J.S. Mill, di Schumpeter, di Marshall, di Galbraith, che pur essendo ognuno a suo modo liberisti, almeno indagavano le contraddizioni e si chiedevano quale fosse il destino del sistema capitalistico. 

Tutti questi grandi economisti sono stati “grandi” appunto perché non si sono limitati ad osservare i fenomeni, essi hanno cercato di svelare le loro intime connessioni, di scoprire le leggi a cui una data formazione economico-sociale ubbidisce, senza sfuggire alla questione di quale sarebbe potuto esserne l’approdo. Pur avendo svelato cause anche molto diverse fra loro, malgrado si siano divisi sul dopo, tutti sono giunti alla medesima conclusione: il capitalismo sarebbe perito sotto il peso delle sue contraddizioni intrinseche. 
D. Ricardo

Tutto questo ricchissimo patrimonio teorico e scientifico sembra andato perduto, seppellito dalla folta schiera di economisti tutti indaffarati nel tentativo disperato di dare un senso al terrificante caos in cui si dimena il capitalismo-casinò. Sono così nate le più diaboliche discipline, le più disparate metodologie, i più funambolici modelli: finanza frattale, econometria, curve di differenza, moltiplicatori monetari, funzioni translogaritmiche. Chi più ne ha più ne metta. 

Anche molti presunti keynesiani fanno appunto parte di questa schiera di insabbiatori. Come se, per meritarsi la qualifica di keynesiano fosse sufficiente ripetere come un mantra che occorre stimolare la domanda aggregata durante le recessioni incrementando la spesa pubblica, porre riparo agli squilibri delle partite correnti, ergo disporre di sovranità monetaria. 

Si converrà che per spacciarsi tali occorre accettare, assieme a certe premesse dottrinali di keynes —la critica alla teoria smithiana della “mano invisibile” per cui il mercato si autoregola da solo; quindi il rifiuto della legge di Say, oro colato dei neo-classici; per cui l'offerta aggregata crea la propria domanda, la critica alla concezione marginalista del capitale— anche la sua visione generale per cui, dato che il capitalismo tende per sua natura allo squilibrio (o sovrapproduzione) la funzione della politica economica sarebbe quella di accompagnarlo verso la sua inesorabile fine a favore di un ordine sociale più razionale. [3] 

Maledetta economia teorica! Il guaio è che senza una teoria generale non si va lontano, e senza questa non possiamo spiegarci la malattia congenita che affligge il sistema capitalistico, quindi non avremo alcuna terapia degna di questo nome. Per cui a noi va bene anche chiamarli tutti quanti “neo-keynesiani”, compresi i Krugman, gli Stiglitz e i Roubini, ma nel senso di “mezzi-keynesiani”. [4] 

Non è per caso che costoro si guardano bene dallo spiegarci come mai il cosiddetto “periodo d’oro del capitalismo”, che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni ’70, che si è svolto appunto all’insegna del keynesismo, sia crollato e abbia lasciato il posto a quello che chiamiamo (in attesa di una definizione più stringente e adeguata) capitalismo-casinò, convenzionalmente neoliberismo. 
Sismondi

Bagnai per primo evita di porsi certe “scabrose” domande —salvo prendere sdegnato le distanze dalle tesi “complottiste” come quella dei seguaci della Modern Money Theory, che pur ricorrendo alla conspiracy delle sette dominanti, almeno una risposta cercano di darsela. 

La tesi di Bagnai è alquanto semplice (ciò che non rende inutile leggersi il suo ponderoso Il tramonto dell’euro). Proviamo a ricapitolare la concezione generale di Bagnai: (1) la crisi non chiama in causa la struttura del sistema capitalistico, essa trae origine da alcuni “squilibri”; (2) dipende dal fatto che i debiti privati sono diventati pubblici; (3) se è anzitutto crisi dell’eurozona, ciò dipende dallo squilibrio delle partite correnti e delle bilance commerciali; (4) l’euro è causa essenziale poiché, che con le parità fisse, impedisce alle leggi di mercato di farsi valere anche nella sfera valutaria. 

La cura per uscire dal marasma è quindi semplice: tornare alle valute nazionali, e, grazie al gioco compensativo delle svalutazioni e rivalutazioni, i mercati capitalistici, compresi quelli finanziari (qui Bagnai si tiene alla larga dal dirci se vuole almeno far fuori la plutocrazia bancario-finanziaria globale) torneranno a scoppiare di salute. 

Questa tesi sulle cause della crisi fa acqua da diverse parti, ed è come minimo semplicistica. E per quanto attiene alla terapia, vorremmo sottolineare che dall’euro si può uscire in diversi modi, anche “da destra”, fascisticamente, o magari proprio con un governo del sempiterno Berlusconi, ovvero usando svalutazione e inflazione per affamare ulteriormente i salariati, obbligandoli a sgobbare per quattro soldi. Lo crediamo bene che così il capitale tricolore aumenterebbe la sua produttività e si risolleverebbe aggrappandosi alle esportazioni. Ciò che, malgrado tutte le improperie contro il “luogo comunismo”, finisce proprio per giustificare i sinistrati i quali ti dicono che, dati i rischi… tanto vale tenersi la moneta unica e sparire in un super-stato europeo. 

Tutto ciò cela, eccome! una teoria economica. Una pietanza in cui frattaglie di keynesismo vengono condite alla rinfusa con un pizzico di mercantilismo protezionistico (quello che sta applicando la Germania), quindi forti dosi di libero-scambismo smithiano —privato però del suo discorso, pur impreciso, sulla caduta inevitabile del saggio di profitto e del suo aspetto anti-liberista [5]. Il tutto per servirci un insipido piatto neo-classico. 

Già, i neo-classici, i marginalisti i quali, liquidando come metafisico ogni tentativo di dare basi oggettive alla teoria del valore, tagliarono la testa al toro affermando che questo, lungi dall’essere creato anzitutto a monte, nella sfera produttiva, si determinerebbe a valle, in quella del consumo, sarebbe quindi puramente soggettivo. Scompare del tutto l’analisi delle merce e del suo valore di scambio, che è considerata solo dal lato del suo valore d’uso, valendo quindi solo per il fatto di essere di qualche utilità al consumatore finale. Conterebbe cioè solo il prezzo, stabilito dalla “legge” della domanda e dell’offerta. Un letterale capovolgimento da cui deriva un’idea astrusa del capitale, considerato come mero sinonimo di mezzo di produzione (e non come rapporto sociale), come se un grande complesso industriale nel quale lavorano migliaia di salariati, equivalga all’arco e alle frecce del cacciatore preistorico o alla zappa del servo della gleba. Di qui l’idea che il capitale sia un sistema “naturale” in quanto tale destinato all’eternità. Si fa subito, seguendo questa pista, a considerare il profitto come legittima remunerazione del capitalista, giusta ricompensa del fatto che invece di consumare il suo reddito lo investe a rischio per creare ricchezza supplementare. Piccola domandina: da dove gli viene questo profitto? Non sarà mica che egli si appropria del plusvalore prodotto dai salariati? 


K. Marx

Per i classici, e soprattutto per Marx, l’economia capitalistica consiste invece in produzione di valore, il quale ha come fine la propria valorizzazione. In altre parole: il capitale produce delle merci le quali hanno sì un valore d’uso che soddisfa bisogni; ma questo per il capitale è solo un mezzo, essendo il suo scopo la propria valorizzazione, il proprio illimitato accrescimento. E’ proprio la nativa insaziabile sete di profitto di innumerevoli capitali in cieca concorrenza fra loro che per Marx determina le crisi più catastrofiche, che implicano distruzione su larga scala di forze produttive (solo in Italia la produzione industriale, dal 2009, è crollata del 20%). 

Ed è proprio a causa di queste crisi cicliche sempre più devastanti, alle prese con la necessità di investimenti sempre più massicci che offrono rendimenti sul lungo periodo e quel che è peggio decrescenti, che il tardo-capitalismo (capitalismo senescente) tende a preferire l’interesse al plusvalore, la rendita finanziaria insomma, il processo corto per cui il denaro deve produrre un guadagno saltando le fatiche del ciclo produttivo di merci (da cui solo nasce il plusvalore). Detto di passata: Bagnai non vede questa metamorfosi del tardo-capitalismo —la trasformazione della borghesia in classe parassitaria, come aveva colto Shumpeter, e prima di lui Lenin con la sua analisi dell’imperialismo come “fase suprema” quindi terminale del capitalismo— ciò che gli impedisce di afferrare le cause del crollo del sistema finanziario americano del 2007-2008. 

E’ in questa metamorfosi del sistema capitalistico, il peso preponderante della sfera finanziaria, che si spiega la fenomenologia delle crisi dal 1929 in poi, che consiste in terremoti valutari, in crack bancari, bolle borsistiche, o in default di debiti sovrani, fino all’ultimo patatrac, quello dei subprime negli Stati Uniti —che ha innescato la crisi globale nella quale il capitalismo, non solo euro-atlantico, è ancora avviluppato. 

Abbiamo detto che alla domanda del perché la crisi scoppiata negli USA si sia riverberata più pesantemente in Europa Bagnai, spinge solo tre tasti del suo clavicembalo: debito privato! Bilance dei pagamenti! euro! Repetita juvant, sottolinea spesso il Nostro. Anche troppo, grazie. Lo fa squadernando una panoplia di grafici e tabelle. La sua specialità. Ovviamente ciò non spaventa nessuno, ma impressiona assai coloro che, mossi da una sincera passione civile e da un sano disprezzo per il partito unico degli euristi, si sono gettati con foga nella disputa “euro sì, euro no”. Per costoro, non certo colpevoli per essere dei principianti, le tabelle di Bagnai hanno un effetto stupefacente, nel senso letterale del termine. Creano un’illusione d’irrefutabilità. 

J. Shumpeter

Noi ci permettiamo di osservare che: 

- La scienza statistica e l’econometria sono strumenti utili, ma non sono discipline da cui si può tirar fuori leggi invarianti, e che quindi ad una tabella gliene si può opporre un’altra di diverso segno. [6] 

- In Europa la finanza speculativa, i derivati, il flash trading, il mercato dei titoli OTC, le vendite allo scoperto, i sistemi di negoziazione dark pool, sono forse più diffusi che negli Usa. 

- Nel capitalismo-casinò tra debiti privati e debiti pubblici c’è una connessione a monte e non solo a valle. 

- A certe condizioni importare capitali, e quindi un deficit di conto corrente, può essere addirittura salutare per un paese che voglia attivare un virtuoso ciclo di accumulazione (il caso più evidente: la Cina). Ciò che chiama quindi in causa le scelte delle sue autorità e della sua classe dominante. [7] 

- Finché l’economia globale funzionerà in base alle leggi capitalistiche, fino a quando si resta entro il perimetro imperialistico dei mercati finanziari (Bagnai non propone di uscirne, per questo dice che i debiti sovrani verso la finanza predatoria globale vanno onorati comunque), non c’è sovranità monetaria che tenga e sei comunque esposto a crisi valutarie, con l’euro o la lira. 

- Per quanto occorra sbarazzarsi al più presto di quel mostro che è la moneta unica, essa è una concausa, per quanto decisiva, della crisi sistemica, ma la radice più profonda è nella crisi del processo di accumulazione e valorizzazione del capitale su scala globale. 

- E' certo necessario contrastare gli euristi che terrorizzano i cittadini descrivendo scenari apocalittici con la fine dell’euro. E’ un gravissimo errore, tuttavia, sottovalutarne le conseguenze, e considerare la svalutazione della nuova lira come una panacea. Se con l’uscita non reintrodurremo l’indicizzazione dei salari, l’inevitabile inflazione sarà una macelleria sociale peggiore della deflazione montiana; 



J.M. Keynes
- Ultimo ma non per importanza: dobbiamo solo “uscire dalla crisi” o anche da un modello sociale condannato per sua stessa natura alla crisi permanente? 

Troppo complesso, troppo radicale, non fa trendy. Meglio piccole pillole di saggezza econometrica. Per dirla alla Grillo: “l’economia non è né di destra né di sinistra, riguarda tutti i cittadini”. 

Vogliamo augurarci che col suo Manifesto Bagnai non voglia suonarci questa stucchevole melodia e ci dica, oltre che bisogna uscire dall’euro, come e con chi ricostruire questo paese, quale blocco sociale dobbiamo costruire per vincere quello oggi dominante, e quale potrà essere la forza motrice dell’alternativa. 


Note 

[1] Luigi Zingales intervista di Umberto Mangiardi del 19 dicembre 2012 

[2] Intervista a rischio calcolato del 20 febbraio 2013 

[3] J:m: Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, 1930 

[4] Non si interpreti quanto scriviamo come un’apologia del pensiero di Keynes, ne siamo ben lontani, anche dal suo concetto di Pil di evidente matrice neoclassica per cui esso sarebbe la somma di consumi e investimenti, di lavoro produttivo e improduttivo. Concetto di cui i liberisti si sono infatti ben guardati dallo sbarazzarsi. 

[5] «Nella corsa alla ricchezza, agli onori e all'ascesa sociale, ognuno può correre con tutte le proprie forze, […] per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l'indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. […] la società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l'un l'altro». Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, 1759 

[6] Valga per tutti la recente figuraccia fatta dai due notissimi metroeconomisti Kenneth S. Rogoff e Carmen M. Reinhart. In un loro lavoro del 2010 i due harvardiani avevano “dimostrato” con una messe di statistiche e tabelle che sopra una certa soglia di spesa pubblica arriva la recessione. E’ bastato che uno sconosciuto studente di econometria di un altro ateneo, l'università Amherst del Massachussets, a far crollare il loro castello di carte. Incaricato di ripercorrere i calcoli dei due economisti, ha riscontrato diversi errori nelle tabelle Excel dello studio dei due, e perfino l'omissione dei dati riguardanti diversi paesi, come Spagna e Nuova Zelanda. 

[7] Sbaglia dunque Bagnai a liquidare come fuffa la protesta popolare contro “la casta”. Il disprezzo trasversale verso le elite politiche italiane è sacrosanto poiché chiama in causa non solo la loro corruzione, ma il loro servilismo verso monopoli e finanza globale, il loro fallimento strategico, le loro corte vedute.

2 commenti:

  1. "Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere "veramente bene informati". Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affiché possano pescare con questi ami fatti ch'è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza."
    Ray Bradbury, Fahrenheit 451
    Scusa...

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