martedì 18 agosto 2009

Terzo Mondo e mondializzazione.


I paesi in via di sviluppo non costituiscono una unità culturale omogenea, ma costituiscono piuttosto la "periferia" del mondo. I paesi del Terzo Mondo comprendono infatti una grande varietà di nazioni con caratteristiche così diverse che difficilmente si possono considerare come appartenenti ad un'unica entità; esistono paesi poveri e paesi potenzialmente molto ricchi, paesi semidisabitati e paesi dove la concentrazione demografica e urbana raggiunge livelli patologici, vi sono paesi multietnici e paesi omogenei, alcuni dei quali - come i paesi della parte meridionale dell'America Latina - abitati da popolazioni poco diverse dal punto di vista etnico da quelle europee. Vi sono poi paesi retti da governi se non democratici almeno tolleranti, e paesi che hanno conosciuto regimi che forse non è eccessivo definire dispotici, paesi pacifici e paesi dove la guerra appare endemica. Tuttavia il problema del Terzo Mondo, con il suo notevole sviluppo demografico, rappresenta una questione troppo importante per non essere affrontata e molto probabilmente nel prossimo futuro il problema del rapporto fra Nord e Sud è destinato a divenire uno dei principali problemi dell'umanità.

L’estrema povertà di vaste aree del pianeta, fardello e vergogna di un mondo ipertecnologico e iperproduttivo, rimane un fenomeno che è ancora lungi dal trovare soluzione se lasciato inserito nel quadro di regole e squilibri di un mercato come quello attuale, sempre più globale e pervasivo. L’enorme debito pubblico gravante sulla stragrande maggioranza dei paesi poveri del mondo (soprattutto africani), rappresenta non solo un freno alla piena democratizzazione dei vari sistemi politici, ma soprattutto un pesantissimo fardello opprimente per popolazioni e sviluppo economico. Il problema dell’arretratezza dei paesi del cosiddetto Terzo mondo affonda le sue radici nella storia ed è attribuibile a tutta una serie tensioni, sconvolgimenti e imposizioni, dovuti all’epoca coloniale e alla politica delle potenze europee di cui quell’epoca è stata caratterizzata. Il saccheggio sistematico, l’occupazione, la spartizione e la destabilizzazione di quelli che oggi vengono definiti paesi del terzo mondo ma che un tempo erano i “dominions” di superpotenze come Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio e Germania, ha causato un ritardo forse incolmabile di questi paesi nei confronti del c.d. occidente ricco. L’arbitrarietà dei confini, la mescolanza etnica dovuta a forti migrazioni e deportazioni forzate volute dalle potenze occidentali, hanno reso, oggi, i paesi del terzo mondo teatri di guerre sanguinose e disastri sociali. La forte instabilità politica di ampie regioni dell’Africa, affonda in definitiva le sue radici negli squilibri creati dal colonialismo e dalla decolonizzazione successiva che ha lasciato spesso paesi sconquassati, spremuti nelle proprie risorse, divisi socialmente, economicamente allo stremo e indebitati massicciamente. “La geografia della fame è una leggenda: è legata solo alla passività, all’inerzia creata dal colonialismo nelle popolazioni autoctone. Faceva comodo al colonialismo incoraggiare la fatalità e la rassegnazione.[…] Il fatto coloniale non è solo politico: è anche e soprattutto economico. Esiste una condizione coloniale quando manca un minimo d’infrastruttura industriale per la trasformazione delle materie prime. Esiste una condizione coloniale quando il gioco della domanda e dell’offerta per una materia prima vitale è alterato da una potenza (o più potenze) egemoniche” (Enrico Matteri, discorso del 1960 a Tunisi, mai pronunciato,conservato negli archivi dell’ENI).

Le parole di Mattei, che per primo capì l’importanza di una politica energetica e di sviluppo per i paesi africani e mediorientali, diventano oggi di un’attualità schiacciante, perché se è vero che la decolonizzazione è un fatto storico indiscutibile, altrettanto vero è che il colonialismo come fenomeno economico è ancora esistente e fortemente condizionante i paesi non occidentali. La pressione economica, attraverso l’operato dei grandi trust (in materia energetica) e delle multinazionali (in materia di infrastrutture e beni di consumo), rappresenta ancora oggi un’arma molto potente nelle mani dell’occidente nei confronti dei paesi subshariani, del medioriente, dell’Africa del centro-sud e dell’Asia.

Così, l’enorme divario esistente tra i paesi ricchi e i paesi poveri del mondo, appare oggi incolmabile con i meccanismi messi in atto dalla nuova mondializzazione dei mercati e degli scambi e questo per tre ragioni: 1. Senza una politica di cancellazione totale del debito pubblico, quest’ultimo continuerà ad aumentare, rappresentando un gravissimo impedimento all’accelerazione economica e di sviluppo di questi paesi; 2. l’ingresso in un sistema integrato di mercati di questi paesi, sarà (e per alcuni lo è già) disastroso in quanto la competitività è bassissima e nessun paese sarà in grado di sopportarla senza una copertura adeguata del gap tecnologico e finanziario di cui dispongono nei confronti degli altri competitor; 3. lo sviluppo economico di questi paesi è osteggiato da molti paesi ricchi (anche se non palesemente) in quanto l’emergenza di questi paesi sulla scena competitiva rappresenterebbe un fattore di squilibrio prepotente nel mercato energetico.

Dal momento che la produzione e la distribuzione energetica e il reperimento delle risorse per far fronte ad una costante crescita della domanda, rappresenterà la sfida del sistema di mercato nei prossimi decenni, appare scontato come l’inserimento di paesi oggi poveri sul mercato energetico (non solo come produttori, ma soprattutto come consumatori) sia quantomeno problematico (e osteggiato).

Il dato di fondo è e rimane che l’indebitamento massiccio dei paesi poveri diventa, grazie alle regole del mercato globale, un’arma di ricatto e se a ciò si aggiunge la fragilità politica di alcuni, la non democraticità di molti e la perenne instabilità sociale di tutti , il traguardo di un loro sviluppo appare ancora lontano e quasi irraggiungibile.

Se i paesi del Terzo Mondo si analizzano poi dal versante della sanità, il quadro appare raccapricciante.

Sono milioni le persone che all’anno muiono di fame, di sete, malaria, aids, ebola, difterite, tbc ecc. Le cifre paurose del tasso di mortalità dei paesi africani in particolare, dovute anche a guerre etniche, di potere, religiose, ci consegnano un quadro in cui parlare di carneficina può risultare riduttivo. Un massacro giornaliero che lascia sgomenti soprattutto se si osserva l’opulenza delle classi ricche (reali e non) dei paesi produttori di petrolio del vicinissimo Medio Oriente, ma anche gli sprechi (di medicine, alimenti, acqua) dei paesi industrializzati occidentali e asiatici. Lo stridente contrasto tra l’immagine di una strada di New York, Pechino, Dubai, Roma, Mosca, la stessa Rio de Janeiro, e una strada di Karthoum, Kinshasa o di uno sperduto villaggio congolese o nigeriano, non può lasciare indifferenti. Generazioni di bambini condannate ad un misera vita (se non brevissima), mutilate dai campi minati disseminati un po’ in tutta l’Africa, asfissiate da caldo e siccità, falcidiate da epidemie spaventose di ebola e aids, inviliti e uccisi da colera, tifo, malaria, peste. Guardando le cifre sull’aspettativa di vita media africana, del tasso di mortalità tra i bambini, leggendo i resoconti spaventosi dell’OMS sulla mortalità in periodi epidemici, ci sembra di leggere e di osservare un mondo che in occidente e in gran parte dei paesi asiatici non esiste ormai dal medioevo. I milioni di dollari che il mondo raccoglie in beneficenza per queste popolazioni in un anno, sono solo gocce perse in un mare di morte, perdizione, paura e non saranno mai sufficienti a garantire un reale effetto benefico sulla stragrande maggioranza di questi popoli e cosa più importante sulle loro economie. Certamente il lavoro di “Ong”, croce rossa, volontariato missionario cattolico, aiuti internazionali, è per moltissime persone una manna dal cielo e risulta prezioso in situazioni disastrate come il Sudan, la Burkina Faso, il Botswana, il Congo ecc. ecc.

Fintantoché l’arretratezza tecnologica e infrastrutturale non sarà combattuta massicciamente dalle potenze economiche mondiali, attraverso un cambiamento di rotta radicale nel modello di sviluppo proposto e messo in atto, fintantoché i rapporti tra potenze ricche e questi paesi saranno improntati alla logica della dominazione e dell’imposizione, il futuro dei paesi del terzo mondo sarà appeso a un filo di miseria e arretratezza. Per dirla ancora con Mattei, c’è bisogno di qualcuno che parli la lingua dell’accordo e non dell’ingiunzione, che offra a questi paesi “[…] la parità, la cogestione, la formazione di un’elite tecnologica perché non siate ricevitori passivi di un’iniziativa straniera, ma siate soggetto, non oggetto di economia”.

L’aspetto più controverso della situazione mondiale attuale è rappresentato proprio dagli squilibri e dalle contraddizioni che il capitalismo moderno provoca e alimenta. I meccanismi competitivi e l’espansione dei mercati in questo particolare periodo della storia, lascia aperti moltissimi dubbi sulla congruità di questo sistema a rispondere adeguatamente alle esigenze delle popolazioni della terra, tenendo conto di cultura, economia, struttura sociale.

Il fatto che il mondo abbia già sperimentato un sistema di mercati così vasto e pervasivo, autoregolentesi grazie alle borse, alle politiche monetarie e alle grandi aziende multinazionali, aldilà e in competizione/accordo con i contesti nazionali, dovrebbe essere un monito per il mondo intero e una lezione che avremmo già dovuto imparare. Il mondo del diciannovesimo secolo, collassato su stesso negli anni a cavallo delle due guerre mondiali, il mondo dell’emergenza di un capitalismo non più nazionale, ma già internazionalizzato, ha avuto un effetto devastante sugli assetti e gli equilibri sociali e politici e ha sprofondato l’uomo nella sua più grande tragedia, la seconda guerra mondiale. Aldilà infatti dell’enfasi posta sulle responsabilità morali e politiche (indiscusse) di Hitler e della sua follia ossessiva di conquistare il mondo e sottomettere l’umanità ad una “razza superiore”, il nodo gordiano della questione rimane quello che carnefici come Hitler, come lo stesso Stalin, come Hiroito, furono i figli legittimi di un crollo di sistema che è cominciato con la prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica, ha raggiunto la sua vetta nel crollo della borsa del ’29 e si è conclusa nella devastante tragedia della storia, appunto la guerra scatenata da Hitler e dai sogni imperiali di uomini senza scrupoli. Il nazismo, come qualsiasi altro fenomeno politico di fascismo, perde qualsiasi consistenza se sganciato arbitrariamente dal contesto economico nel quale emerge. Il punto è che la “svolta dittatoriale” di un sistema politico, non rappresenta semplicisticamente un’avventura di potere, ma è una “mossa” obbligata (Karl Polanij, “La Grande Trasformazione”) per contrastare il disfacimento del sistema economico in atto e contenere le aspirazioni sociali, difensive e offensive, naturalmente emergenti.

Il crollo del sistema di mercato, non è una invenzione fantasiosa, ma un dato storico indiscutibile e che dovrebbe far riflettere tutto il mondo sull’adeguatezza del ritorno ad un sistema del genere nel mondo moderno. E questo soprattutto a fronte di situazioni di arretratezza come quella dei paesi del terzo mondo e di una situazione molto precaria e incerta sul versante del fattore energetico, strategicamente e indissolubilmente legato alla tenuta del sistema stesso.


(Francesco Salistrari, 2009)


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