venerdì 30 novembre 2018
Ma i libri di Magaldi?
Si, di sparire sono sparito anch'io. Come molti altri, che sull'onda della "crisi del 2008" avevano alzato le antenne e in alcuni casi la voce. Ma come ha detto qualcuno: "Tu non sei un cazzo!", ma Magaldi qualcuno lo è, eccome! Eppure dei suoi volumi della Trilogia "Massoni: Societa a responsabilità illimitata", di cui abbiamo visto alle stampe solo il primo volume, non si è avuta più notizia.
Così come non si è praticamente più avuta notizia della Associazione Eleneanor Roosevelt, alla cui riunione di presentazione al pubblico qui in Calabria, in quel di Gioia Tauro, partecipai anch'io anni fa.
Dunque, che fine ha fatto il "progetto di disvelamento delle trame massoniche del nuovo millennio" che era lo slogan sbandierato ai quattro venti da Magaldi & Co. che rappresentavano appunto i libri di "Massoni"?
Non mi aspettavo che sarebbero usciti gli ulteriori due volumi sui "Maestri Venerabili", promessi da Magaldi nel lontano 2014 (anno di uscita del primo e fin'ora unico volume), ma almeno il completamento della prima Trilogia di Massoni, si, eccome se me lo aspettavo.
E invece niente. Spariti dal radar. Nessuna dichiarazione ufficiale, nessun comunicato della casa editrice Chiare Lettere, nessuna parola spesa (anche perché forse me le sono perse io) in questi lunghi anni di "deflusso politico e sociale".
Mi augurerei di vedere prima o poi comunque comparire sugli scaffali gli altri volumi promessi.
Non fosse altro per continuare la lettura di un appassionante Thriller politico.
Si, perché di romanzo si tratta.
Una bella storia. Raccontata bene. Credibile e verosimile.
Capace di tenere incollati alle pagine.
Ma forse, niente di più.
È davvero così?
(Francesco Salistrari, 2018)
sabato 23 aprile 2016
La teoria della Global Class (quarta parte).
I mezzi di comunicazione, sono, assieme al monopolio della forza
(esercito e polizia), gli strumenti principali attraverso cui il potere
esercita la propria egemonia su una società, vale a dire i modi attraverso i
quali viene espressa la sovranità.
Il meccanismo che ha dato vita al capitalismo finanziario globalizzato
odierno, sarebbe stato impensabile senza il sistema di comunicazione mondiale
utilizzato oggi.
di Francesco
Salistrari
Il controllo dell’informazione e il dominio totalitario del mondo.
L’avvento della modernità
capitalistica è stato favorito da una serie imprecisata di fattori concomitanti
che, nella loro interazione reciproca, hanno reso possibile un’accelerazione
senza precedenti della potenza produttiva mondiale, dando un impulso impressionante
all’avanzamento materiale della società nel suo complesso.

Uno di quei progressi che, grazie
al (e favorendo lo) sviluppo capitalista, più di tutti contribuirono al
progresso generale della società, fu senza dubbio quello della “comunicazione”.
L’invenzione della stampa, dei primi telegrafi, dei primi strumenti di
comunicazione radio a distanza, grazie alla scoperta delle onde
elettromagnetiche, del magnetismo della terra, dell’elettricità ecc, furono
fattori propulsivi del sistema economico mondiale e da questo furono
potentemente favoriti in relazione simbiotica.
La comunicazione, è uno degli
elementi essenziali del progresso di una civiltà ed è per questo che l’analisi
della qualità, dei modi, degli usi e della cultura che si sviluppa intorno alla
comunicazione, di un determinato periodo storico, diventa essenziale per
comprendere “lo stato dell’arte” di tale civiltà.
Comunicazione significa
innanzitutto informazione, circolazione di informazione, quindi di idee,
soluzioni, applicazioni, capacità, possibilità. Più un sistema di comunicazione
permette la circolazione e la condivisione delle informazioni, più tale sistema
può dirsi efficiente e soprattutto evoluto.
E’ per questo motivo che oggi,
con il sistema di comunicazioni di cui disponiamo, in cui la velocità
dell’interconnessione planetaria e la mole di informazioni a cui si può
attingere sono straordinarie, capire i funzionamenti dei cosiddetti “media”
diventa cardinale per comprendere a che punto è la nostra civiltà ed
eventualmente cominciare a comprendere dove, come e perché intervenire.

Non dissimilmente da altri
importanti settori che hanno contribuito allo sviluppo generale della società
moderna, così anche i mezzi di comunicazione rientrano nell’ambito e nelle
logiche dei settori sociali dominanti. Differentemente però da altri settori,
lo sviluppo dei mezzi della comunicazione hanno di pari passo contribuito
all’affermazione e sono stati utilizzati da settori di classe subalterni che,
senza per altro riuscire sempre ad utilizzarli in maniera adeguata, hanno
comunque beneficiato dei vantaggi derivanti dalla condivisione delle informazioni
necessari alla difesa dei propri interessi specifici.
Questo perché, lo sviluppo della
tecnologia, ha comunque assunto carattere di massa e con essa i mezzi di
comunicazione in particolare. Ciò, seppur funzionalmente alle logiche del
profitto proprie del sistema, ha comunque favorito spazi di autonomia e di
influenza mediatica anche per settori subalterni della società, rendendo più
semplice l’organizzazione della difesa di quegli interessi.
Attraverso la stampa, ad esempio,
in occidente, venne forgiata quella che da quel momento in poi sarebbe stata
conosciuta come “l’opinione pubblica”, favorendo la diffusione delle idee
rivoluzionarie della borghesia in ascesa. Dall’interno delle logge massoniche,
espressione viva della politica borghese del tempo, le idee fuoriuscirono come
un fiume in piena che invase ampli strati della società. Ma per poter affluire
in maniera efficace, proprio come un fiume in piena, aveva bisogno dei canali
giusti e questi canali furono individuati nei “quotidiani”, ma soprattutto nei
“pamphlet” e nella stampa politica in generale.
La società borghese si affermò
grazie ad una serie di fattori storici ed economici e non solo grazie alla
forza delle armi della rivoluzione. Uno dei segreti di quel successo storico,
fu proprio la capacità di trascinare il popolo verso i cambiamenti auspicati da
quella che in quel momento era la classe sociale più dinamica, favorendo un
cambiamento complessivo della cultura generale dell’epoca e garantendo l’ascesa
al potere degli interessi incarnati dalla borghesia.
Questo solo per dare un esempio
di come la comunicazione sia influente e lo è sempre stata, nel corso della
storia e nel condizionare in un modo o nell’altro i processi storici.
Tutta la storia umana, se
vogliamo allargare il nostro orizzonte, è storia di comunicazione. Le grandi
dinastie del passato, come ad esempio gli Egizi, uno dei più prosperi imperi
dell’antichità, capace di sviluppare la propria economia in modi che per i
tempi erano assolutamente spettacolari e avanzatissimi, si resse per millenni
grazie alla “comunicazione religiosa”. Una vasta e complessa teologia, espressa
attraverso una dottrina sofisticata e di grande impatto che, comunicata al
popolo suddito e lavoratore (in maggioranza schiavo), permise l’alternarsi al
potere di specifiche dinastie.
E’ la storia di tutti gli imperi.
Ed è la storia della politica.
Lo sviluppo moderno ha solo
sofisticato i mezzi attraverso cui il potere ha comunicato la propria ideologia
e il proprio “credo”, determinando un mutamento radicale delle logiche della
comunicazione, ma non la sostanza.
I mezzi di comunicazione, sono,
assieme al monopolio della forza (esercito e polizia), gli strumenti principali
attraverso cui il potere esercita la propria egemonia su una società, vale a
dire i modi attraverso i quali viene espressa la sovranità. Non esistono altri
sistemi.
I “media”, mediano, dal latino
“medium”, fanno da tramite, tra il mondo dell’élites al governo e il popolo
suddito. E questo che ci si trovi in un antichissimo impero del passato o che
ci si trovi nella più moderna delle società contemporanee.
Un salto di qualità estremo,
rispetto all’utilizzo degli strumenti di comunicazione di massa, si ebbe a
cavallo degli anni ’20 e ’30 del ‘900, allorquando l’avvento della radio
rivoluzionò completamente il modo con cui la comunicazione di massa veniva
espressa.

L’adesione popolare al regime
fascista in Italia e l’utilizzo sapiente e scientifico da parte del regime
nazista in Germania della cosiddetta “propaganda”, furono immensamente favoriti
dalla radio e dai mezzi di comunicazione. La manipolazione delle masse, da quel
momento in poi divenne una scienza che nei successivi decenni si perfezionò
progressivamente ed in maniera impressionante, molto tempo dopo che quei regimi
dittatoriali che più di altri erano stati capaci di elevare le capacità e i
metodi d’utilizzo degli strumenti di comunicazione di massa, erano ormai seppelliti
sotto le ceneri della distruzione della seconda guerra mondiale.
La televisione, rivoluzionò
nuovamente il mezzo, ma la logica era ormai acquisita e si era compresa molto
bene, sull’esempio nazista, la potenza manipolativa sulla coscienza collettiva
degli strumenti di comunicazione moderni. Fu così che il mondo dei media, oltre
che per ragioni strettamente economiche, divenne una vera e propria industria.
Il cinema, la televisione, la
radio, i giornali, gli spettacoli, la musica, divennero pienamente integrati alle
logiche mercatistiche che il potente sviluppo economico della ricostruzione
post bellica stava portando.
C’era bisogno di creare “un sogno
americano”, un “sogno europeo”, e in misura diversa non nei fini ma nei
contenuti ideologici, un “sogno socialista”. Il potere, seppur da logiche
apparentemente opposte e distanti, sfruttò alla perfezione la macchina
mediatica che si era messa in moto favorendo l’avvento del “consumismo” e
creando una visione del mondo e della società, plasmando i valori della modernità,
condizionando vasti processi di cambiamento sociale che, come abbiamo visto,
hanno tutti insieme portato a determinati sviluppi storico-economici.
Oggi, più che in passato,
l’importanza della comunicazione e dei “media” appare spaventosamente estesa. I
moderni ritrovati della tecnologia della comunicazione, dai satelliti alla rete
internet, ha aperto possibilità di interconnessione inesplorate, allargando a
dismisura le capacità di collegamento di ogni angolo del mondo con il resto. Da
questo punto di vista il mondo non è mai apparso così unito.

Se solo consideriamo le capacità
di calcolo dei computer moderni e a questo affianchiamo l’innervatura della
rete di comunicazione globale (Internet), appare evidente come il meccanismo di
valorizzazione del valore e l’estrazione di profitto (plusvalore) dalla
società, ha assunto dimensioni e connotati mai sperimentati. Il meccanismo che
ha dato vita al capitalismo finanziario globalizzato odierno, sarebbe stato
impensabile senza il sistema di comunicazione mondiale utilizzato oggi.
I cambiamenti intervenuti nel
modo di allocare le risorse (circolazione dei capitali) e nella velocità di interconnessione
(mercati finanziari computerizzati) hanno permesso un duplice effetto:
- l’espansione dei profitti;
- la trasformazione dei connotati del lavoro;
Il pallone aerostatico che ha
tenuto su il sistema capitalistico nell’ultimo trentennio, può a ragione essere
individuato nella “finanza”, che ha permesso livelli di profittabilità
altrimenti irraggiungibili. Ma la finanza moderna è talmente innervata con i sistemi
di telecomunicazioni, che appare assolutamente inscindibile (e imprescindibile)
da essi, così come gli stessi livelli di profitto.

Questo ha determinato un’enorme
espansione della produttività sociale complessiva ed una capacità “estrattiva”
(sistemica) del valore assolutamente inconcepibile nelle vecchie e superate
forme di capitalismo keynesiano/fordista/taylorista.
Ma il sistema di comunicazioni
globale, appare decisivo anche da un altro punto di vista.
Attraverso l’interconnessione planetaria
non si muovono soltanto denaro, dati, informazioni, ma anche (e in maniera
decisiva) idee, modi di pensare, modelli di consumo. In una parola, attraverso
la rete di telecomunicazioni (intesa nella sua totalità) viaggia l’ideologia
del sistema.
Le multinazionali, infatti,
grazie anche ai nuovi strumenti telematici (social media, blogsfera, social
network ecc.) hanno potuto raccogliere una tale quantità di dati e informazioni
sugli utenti della rete che ciò, non solo ha permesso l’elaborazione di sempre
più efficaci tecniche di marketing, ma soprattutto ha consegnato nelle loro
mani il potere di indirizzare e di creare, in maniera ininterrotta, i desideri
stessi dei consumatori, forgiando i modelli di consumo globali immanentemente.
L’ideologia, che già con la Tv
commerciale, aveva volato sulle frequenza elettromagnetiche delle trasmissioni
televisive, plasmando il boom degli anni Sessanta e veicolando il consumismo
come nuova religione secolare, viaggia oggi sulle velocissime autostrade
informatiche, dove il meccanismo di “creazione del desiderio” non ha più un
andamento univoco, ma multidirezionale, essendo connaturato dall’interazione
sociale che la rete incarna.
Dunque, i cambiamenti operati
dalla comunicazione massificata, nel mondo a capitalismo finanziario
globalizzato, non solo hanno favorito l’insorgenza di meccanismi nuovi di
formazione del desiderio consumistico, ma hanno d’altra parte instaurato nuove
forme di sfruttamento del lavoro e della produzione sociale complessiva,
altrimenti nemmeno pensabili.
L’integrazione dei mercati,
impensabile in assenza dell’interdipendenza della rete telematica, è un
processo che ha segnato in maniera profonda gli ultimi 30 anni di storia del
mondo, permettendo la strutturazione e l’affermazione di questa forma
totalitaria e onnipervasiva di capitalismo il cui apice sociale va rintracciato
nei nuovi rapporti di proprietà internazionali sorti nei “marosi” della fine
della Guerra Fredda.
La manipolazione globale
organizzata e la veicolazione ideologica dei principi e dei valori sistemici, si
esprime pertanto oggi attraverso le bocche di fuoco multipolari della rete,
della televisione, della stampa, del cinema, della radio, in modo sempre più
sofisticato e raggiungendo livelli stupefacenti di efficacia. Ogni “media”
viene infatti contemporaneamente funzionalizzato a:
- creazione del consenso;
- formazione dei desideri consumistici;
- omologazione culturale;

Il mito del denaro, del self made man, della scalata sociale,
proprie del primo affermarsi del consumismo come religione della modernità post
bellica del mondo occidentale, si declinano oggi in maniere del tutto originali
e onnicomprensive, surrettizialmente, determinando una mutazione antropologica
complessiva che si esprime attraverso la figura dell’homo consumens, atomizzato, individualista, anticomunitario.
Le culture (multiculturalismo)
vengono spazzate via dalla visione monoculturale dell’imperativo mercatistico,
della crematistica assolutizzata e dell’economia feticizzata, in cui l’essere
umano, merce tra merci, vive la propria esistenza rifuggendo la socialità che
non sia quella istituita dal nesso liberoscambista, ricreando perciò stesso una
“società senza socialità”, in cui gli stessi problemi sociali collettivi
(disoccupazione, sottoccupazione, miseria) vengono percepiti come fallimenti
individuali e non già come manifestazioni proprie del sistema delle
ineguaglianze promosso dal classismo capitalistico.
In questo meccanismo psicologico
di massa, la comunicazione e la cultura in generale, com’è ovvio, giocano il
ruolo cruciale che hanno sempre giocato nella storia dell’essere umano. Il
sistema di manipolazione globale della coscienza collettiva, funziona a pieno
regime e permette la standardizzazione dei modelli di consumo e dei
comportamenti collettivi, funzionalmente alla illimitata valorizzazione del
valore che trova nella categoria “teologica” della crescita (illimitata,
appunto) il suo corollario automatico.
Un altro aspetto su cui influisce
la macchina possente della manipolazione mediatica planetaria è il processo che
sfocia in ultima battuta nella “feticizzazione dell’economia” che viene
percepita collettivamente come sistema naturale di funzionamento della società
e non già come momento politico (dunque discrezionale) della distribuzione
della ricchezza.
E’ in questo modo che le “crisi
economiche”, la disoccupazione, la devastazione ambientale, le crisi sanitarie,
descritte nelle giaculatorie del nuovo clero della comunicazione attraverso
sempre più l’uso massiccio della neolingua
(l’inglese imposto a livello globale come lingua unica), vengono percepiti
dalle masse come fenomeni naturali, assimilabili ai terremoti e agli uragani,
cioè come eventi imprevedibili e imprescindibili con i quali si è nostro
malgrado costretti a fare i conti.
La “naturalizzazione” dei
fenomeni economici (che restano tuttavia sempre e comunque determinati da
scelte collettive di classe) è la manifestazione evidente di quanto profonda
sia la distorsione ideologica veicolata dai “media” controllati dai grandi
potentati economici della finanza mondiale.
Il controllo della comunicazione,
attraverso il possesso dei grandi quotidiani nazionali (stampa), dei network
televisivi internazionali e delle emittenti nazionali e locali (Tv e rete
satellitare), nonché il controllo dei colossi del Web, da Google ad Amazon, da
Microsoft a Yahoo!, per fare alcuni esempi (Internet), configurano un sistema
integrato di comunicazione mondiale di immane potenza mediatica. Se a questo
aggiungiamo le grandi case di produzione cinematografica e pubblicitaria, la
sottomissione degli atenei e della produzione/ricerca scientifica
universitaria, appare chiaro e cristallino come il controllo della cultura
generale, la sua espressione, i principi e i valori veicolati e quelli
censurati/ostracizzati, configura in assoluto il sistema più totalitario che la
storia abbia mai sperimentato.

Viviamo il mondo dell’immagine,
consensuale e televisivo, flessibile, ma per sua essenza totalitario,
oligarchico e antidemocratico. Il mondo della Classe Possidente Globale, della
sua ideologia e della sua ricchezza ostentate.
(continua)
venerdì 8 aprile 2016
La teoria della Global Class (terza parte).
Dall’immenso processo di privatizzazioni inaugurato dalla Tatcher e da Reagan, proseguito in tutti gli altri paesi europei con intensità variabile e conclusosi con il ritorno al mercato da parte dei territori ex sovietici, se è rimasto qualche “cadavere storico” sulla strada, questi sono i partiti e le organizzazioni dei lavoratori.
di Francesco Salistrari
La deriva oligarchica e la
fine della democrazia rappresentativa: il caso europeo.

Laddove lo Stato Sociale, sorto
dal “new deal” americano keynesiano-roosveltiano ed in parte già sperimentato
nei regimi fascisti in Italia e Spagna e nazista in Germania, presupponeva l’intervento
statale in economia come “bilanciatore” delle storture e delle distorsioni del
“mercato”, ma soprattutto come fonte di investimenti e di luogo decisionale di
spesa, di emissione monetaria e di politica estera, la nouvelle teorie che
ha conquistato il mondo nel giro di qualche decennio, al contrario, presuppone
un intervento “minimo” dello Stato in modo tale da lasciare alle “libere forze”
del mercato la possibilità di fare il loro gioco indipendente.
Questa posizione rappresenta una
scelta strategica che consente di eliminare la “politica”, vale a dire quella
partitico-statale (democratica), dall’equazione della mediazione sociale ed
economica, in modo da liberare un ampio spazio dentro il quale si possono
esprimere interessi e una nuova dimensione politica privati, tendendo alla
progressiva eliminazione dei controlli e dei limiti imposti dal regime
democratico.
Non è un caso che, dall’immenso
processo di privatizzazioni inaugurato dalla Tatcher e da Reagan, proseguito in
tutti gli altri paesi europei con intensità variabile e conclusosi con il
ritorno al mercato da parte dei territori ex sovietici, se è rimasto qualche
“cadavere storico” sulla strada, questi sono i partiti e le organizzazioni dei
lavoratori.
Dagli anni ’90 in poi, con
l’implosione dell’unica ideologia fino ad allora esistente capace di mettere in
discussione quella del mercato capitalistico, vale a dire il comunismo, anche i
partiti e le varie “partitocrazie” dei regimi democratici occidentali sono
letteralmente implosi in sé stessi, diventando col tempo qualcosa di molto
diverso da quello che erano stati fino a quel momento. Le Costituzioni
antifasciste scritte subito dopo la vittoria sui nazi-fascisti nella seconda
guerra mondiale, affidavano ai partiti un ruolo predominante come strumenti di
partecipazione democratica. Per certi versi i partiti furono, per un intero
periodo storico, il corollario della democrazia rappresentativa postbellica. E
la loro funzione, benchè la degenerazione partitocratica fu un segno evidente
fin dai primi anni, fu molto importante.
Con l’andare degli anni, la
burocratizzazione, lo strutturarsi del sistema delle alleanze oligarchiche, la
non trasparenza e la scarsa democraticità interna, fecero dei partiti le
appendici del potere, macchine della corruzione e del clientelismo,
dell’affarismo e della lottizzazione delle proprietà pubbliche.
Tutti questi problemi, riassunti
nella fortunata definizione di “partitocrazia”, rappresentano un fenomeno che
benchè nei vari contesti nazionali abbia avuto gradi diversi di intensità non
indifferente, tuttavia fu comune a tutte le esperienze partitiche d’Europa.
Con il 1989 e con il poderoso
cambiamento della situazione geopolitica internazionale, anche i partiti
persero la propria ragion d’essere, diventando un ostacolo e non una variabile
utile della funzione del potere. Emblematico il caso italiano di
“tangentopoli”, dove una intera classe politica fu azzerata per via giudiziaria
e dove divenne evidente come i nuovi partiti che sarebbero sorti di li a poco
avrebbero sempre più assomigliato ai “clubs” e ai cartelli elettorali
americani.
L’ “americanizzazione” delle
formazioni partitiche europee non fu casuale, né tantomeno interessò solo
alcuni e non altri, alcuni paesi e non altri. La trasformazione dei partiti in
“comitati elettorali”, privati di una vera identità ideologica, di una propria
cultura caratterizzante, incapaci dunque di proporre programmi di “alternativa
sistemica”, è un fenomeno che interessa la stragrande maggioranza delle
formazioni partitiche parlamentari dagli anni ’90 in poi.
Dalle ceneri dei vecchi “partiti
ideologici”, nacquero dunque delle forze politiche che si configurarono sempre
più come comitati d’affari, raccoglitori di consenso da spendere in una
mediazione politica resa ormai orfana degli strumenti fino ad allora
utilizzati, in quanto sempre più il centro decisionale si allontanava dallo
Stato verso strutture sovranazionali e private.
La mancanza di una vera
distinzione sulle questioni fondamentali, l’omologazione in una visione
economica pressoché uniforme, l’uniformità pressoché totale nella tipologia
delle scelte operate dalle varie alternanze parlamentari, determinarono nei
fatti il superamento della dicotomia destra-sinistra che aveva caratterizzato
la politica fin dalla rivoluzione francese. Un superamento che, però, nelle
ragioni e negli interessi sociali non solo non si è verificato, ma che anzi ha
determinato un sempre più marcato scollamento tra la base sociale, la classe
politica e le classi dirigenti nazionali prese nel loro insieme.

Esattamente ciò che auspicavano e
dettavano gli autori di “Crysis of Democracy”.
Il processo di privatizzazione è
stato dunque fortemente condizionato da una modificazione profonda degli
istituti e delle organizzazioni della politica, creando i presupposti, dal lato
sociale, per l’affermazione del “consumismo” come contraltare alla limitazione
progressiva degli spazi democratici del sistema occidentale.
Sulla scorta infatti del modello
americano (statunitense), grazie alle modifiche strutturali implementate nel
corso di tutti gli anni ’80, si è assistito ad un fenomeno di allargamento
della massa dei consumi, accompagnato dalla progressiva privatizzazione di
sempre più ampi settori dell’economia che hanno liberato le energie del sistema
permettendo due fenomeni complementari, sebbene apparentemente distanti:
l’espansione dei profitti e la “crisi” democratica.

Da un punto di vista strettamente
politico e sociale, infatti, la limitazione delle sovranità nazionali,
soprattutto in campo economico, l’unificazione dei mercati e la libera
circolazione dei fattori produttivi (merci, servizi, persone e capitali), non
connatura un modello diverso di partecipazione democratica ed uno sviluppo
della società in direzione evolutiva della democrazia, bensì una compressione
dei diritti sociali e democratici e la messa in opera di una strutturazione del
potere decisionale di stampo oligarchico e tecnocratico.
Sempre più i Parlamenti nazionali
sono diventati camere di compensazione delle tensioni sociali senza per questo
determinare cambiamenti della linea politica ed economica di fondo dei vari
stati, anzi diventando “camere di ratifica” di politiche imposte dall’alto
(organi di amministrazione burocratica periferici), affidando di converso
grandissimi poteri alla Banca Centrale e alla Commissione.
Il Parlamento europeo, unico
organo eletto democraticamente, non ha alcun potere legislativo, né alcun
meccanismo di fiducia/sfiducia nei confronti di un “esecutivo” i cui confini
sfumano dalla Commissione al Consiglio Europeo e alla Banca Centrale.
“Esecutivo”, d’altra parte non eletto e dunque non legittimato democraticamente
e anzi sottoposto alla pressione costante delle “lobbyes” private.

L’esempio di come le élites
europee hanno affrontato la crisi del 2007 (partita dagli Stati Uniti), è
emblematico.
L’esplosione della crisi dei
cosiddetti “debiti sovrani” europei, determinatasi dopo l’esplosione della
bolla dei mutui “subprime” e dei “derivati” che ha condotto al fallimento di
una delle più grandi banche di investimento del mondo, la Leman’s Borthers,
infatti ha creato le condizioni politiche ideali per determinare una
trasformazione della struttura sociale ed economica europea difficilmente
realizzabile senza tali “strumenti”. Questo perché, venendo meno la capacità
decisionale dei vari Parlamenti nazionali e la limitazione del controllo
democratico sulle decisioni europee, è stata possibile una “gestione” della
crisi che ha praticamente liquidato in maniera definitiva i residui dello
“stato sociale” (welfare), la capacità contrattuale dei lavoratori, la
modificazione dei meccanismi del mercato del lavoro, la svendita dei patrimoni
pubblici, la compressione della capacità di spesa delle finanze statali,
l’integrazione economica con gli USA (TTIP).
Tutto questo complesso di
conseguenze, conosciute più semplicemente con il nome di “austerity”, è stato
possibile grazie alla particolare configurazione della struttura istituzionale
europea determinata da trattati come il “Trattato di Lisbona”, il “MES, il “Fiscal
Compact” (che inserisce il pareggio di bilancio nei ranghi costituzionali
nazionali). Tutti trattati mai discussi democraticamente, ma semplicemente
ratificati dai parlamenti nazionali che, nel frattempo, come nei casi italiano
e greco, erano stati “commissariati” con la giustificazione politica del
cosiddetto “spread”.
Il dato di fondo è che il meccanismo europeo in cui la Banca Centrale indipendente e privata, assurge ad
un ruolo di straordinaria influenza politica sulle scelte di tutta l’area, in cui
la “moneta unica” diventa dunque strumento di controllo politico dei vari
contesti nazionali e in cui le maglie strette delle regole sui “debiti sovrani”
(regole assolutamente politiche e non dettate da considerazioni economiche)
diventano il cappio al collo con cui si impiccano i diritti sociali e il
welfare, configurano un nuovo modello di democrazia che soppianta il modello di "democrazia occidentale rappresentativo". A questo punto bisognerebbe chiedersi: cui prodest?
I maggiori beneficiari di una
dinamica decisionale sganciata da controlli, contrappesi e determinazioni
democratiche, cioè espressioni vive delle popolazioni generalmente intese, sono
sicuramente tutte quelle imprese private, quegli speculatori, finanzieri,
operatori di borsa e quel vasto mondo di interessi che si muovono nell’alveo
del cosiddetto “mercato”.
E’ un caso se sono stati i
“mercati” a decretare, ad esempio, la fine dell’esperienza governativa di
Berlusconi in Italia? Lo spread, cioè una misura econometrica di raffronto tra
debiti pubblici dell’area euro, può essere superiore ad una determinazione
politica democratica? Evidentemente si.
Questo può succedere proprio in
virtù di un cambio strutturale di portata generale e che investe non solo
l’Europa, ma che a livello globale, apre lo spazio ad una nuova dimensione
politica, decisionale, che esula dalle determinazioni democratiche (laddove
regimi democratici quantomeno formali sussistono).
L’involuzione oligarchica delle
democrazie occidentali, è da inserire dunque all’interno di un cambiamento
generale di paradigma come portato ideologico, sociale ed economico. E’ cioè,
in altri termini, il risultato conseguente di uno sviluppo determinato che,
all’interno delle dinamiche economiche nuove che si sono sviluppate negli
ultimi 40 anni, ha portato la “democrazia rappresentativa” a diventare progressivamente un ostacolo
dello sviluppo economico.
Questo per una serie di ragioni
che cercheremo di analizzare.

Il punto della questione è che i
meccanismi della “rappresentanza democratica”, che dovrebbero esprimere anche
la tutela dell’interesse collettivo, sono rimasti indietro rispetto alle
dinamiche economiche degli ultimi decenni. Ciò dimostra come non si è avuta,
rispetto all’espansione dei mercati mondiali, nessuna parallela evoluzione
delle forme democratiche di difesa dalle storture allocative, distributive e
sociali dei “mercati” e dunque gli istituti classici della democrazia
rappresentativa, risultano decisamente inadeguati.
Le stesse strutture difensive
rappresentate dalle organizzazioni dei lavoratori (leghe, comitati e
sindacati), appaiono oggi inadatte rispetto alle spinte sistemiche che si
trovano a fronteggiare. Considerando il ruolo ormai integrato svolto dai
sindacati ufficiali, lo sviluppo di forme moderne di autodifesa appare
fortemente in ritardo. L'associazionismo o il sorgere di comitati territoriali
di difesa, seppur per certi versi potrebbero rappresentare i germi delle future
forme di lotta, tuttavia allo stato attuale, risultano ancora insufficienti e
fortemente frammentati per essere gli strumenti di una resistenza sociale
paragonabile al ruolo che nel corso dello sviluppo capitalistico hanno svolto i
partiti e le organizzazioni dei lavoratori del passato.
Questo avviene perché il “potere ricattatorio”
degli interessi privati nei confronti delle istanze collettive, risulta
enormemente aumentato e sproporzionato a proprio vantaggio, disponendo di
strumenti potentissimi come quelli dell’emissione del credito, il controllo
delle monete, delle borse e ove ciò non bastasse, le organizzazioni
lobbystiche, la corruzione, gli eserciti mercenari e i sicari delle mafie. I
risultati di questo coacervo di strumenti sono che la classe politica vede
ridursi costantemente la propria capacità di influenza anche laddove i
meccanismi di selezione delle élites politiche dirigenti non riescano a
bloccare istanze popolari e interessi esterni al sistema privatistico dei
“mercati” e laddove le forme di resistenza collettiva riescano a rappresentare
un argine concreto ed efficace.
Ma la democrazia rappresentativa
occidentale, appare oggi un sistema in decadenza anche da un altro punto di
vista.
Infatti, se osserviamo le
“regole” che determinano la gestione del debito pubblico degli Stati, capiamo
immediatamente come l'erosione della sovranità statale determini effetti
profondi e ineliminabili. Il debito pubblico, inserito nei meccanismi
finanziari generali, cioè sottoposto alle leggi economiche generali (libera
circolazione dei capitali), diventa un “ricatto”, un limite e un problema.
Un ricatto, da parte di chi ha
interesse affinchè una nazione, un popolo o un’area geografica determinata,
implementi determinate politiche favorevoli ai propri interessi. Un limite alla
determinazione di proprie autonome politiche. Un problema economico in
relazione ai propri programmi sociali, all’erogazione dei servizi e alla tutela
del proprio territorio.
Da questo punto di vista le
logiche “superiori” del mercato sono determinanti. Superiori nel senso
etimologico del termine: “che stanno sopra”.

L'insorgenza della Classe
Possidente Globale, si presenta dunque come una fase nuova dello sviluppo
storico-sociale in cui una specifica classe sociale dominante determina nuove
dimensioni e nuove dinamiche dello scontro sociale, originali ricomposizioni,
assetti e disequilibri che travalicando i consueti confini nazionali, nell'era
della globalizzazione, interessando pertanto il mondo intero.
(continua)
lunedì 4 aprile 2016
La teoria della Global Class (seconda parte).
Il “neoliberismo”, lungi dal rappresentare una semplice opzione economica, un semplice modo di intendere i rapporti economici, dunque una teoria puramente economica, è anche e soprattutto una teoria sociale, espressa attraverso una concezione filosofica complessiva della realtà socioeconomica che permea non tanto il livello politico, cioè la struttura di potere dei singoli contesti, ma ne caratterizza soprattutto il livello culturale.
di Francesco Salistrari
L’imporsi a livello globale delle
cosiddette teorie del “neoliberismo”, pur con diverse connotazioni a seconda del contesto regionale, ci porta ad una considerazione generale che difficilmente può essere messa in discussione: il sistema keynesiano di produzione/distribuzione/rapporti di
lavoro, ha praticamente cessato di esistere ovunque nel mondo.
Le nazioni che
ancora oggi praticano le cosiddette “politiche miste”, cioè laddove lo Stato
riveste ancora un ruolo importante, sono delle realtà in cui il blocco sociale
dominante nazionale è un blocco relativamente “giovane”, nel senso che
la sua ascesa al potere nazionale è un fenomeno
abbastanza recente rispetto alle dinamiche generali mondiali.
Questo avviene in forme diverse
in Cina, per la peculiare struttura sociale ed economica, ma avviene in molti
paesi del Sud America, in molti paesi dell’est ex sovietico (in parte anche in
Russia), e in alcuni paesi del Nord Europa non inseriti nei meccanismi monetari
dell’euro.
Questo però non toglie che ampli
settori di queste “borghesie nazionali” siano collegate e integrate
strutturalmente nelle dinamiche di classe della Classe Possidente Globale e
benchè per certi versi rappresentano in parte degli ostacoli al pieno dispiegamento del
dominio di classe globale, generando fattori di crisi, frizioni e contrapposizioni
latenti e palesi, tuttavia la loro “funzione” a livello globale è pienamente
inseribile nel contesto degli interessi globali, di cui la Classe Possidente
Globale è portatrice.
Un esempio di questo, potrebbe
essere rintracciato nella struttura produttiva cinese, dove, sebbene il ruolo
della macchina statale sia preponderante rispetto ad altre realtà, pur
tuttavia, le aziende multinazionali operanti in Cina e collegate con la “classe
burocratica” al potere, fanno parte del più generale apparato produttivo
mondiale di proprietà privata della Classe Possidente Globale.
Investimenti,
rapporti di proprietà, rapporti di lavoro, struttura produttiva, sono
perfettamente integrati al più generale meccanismo dei “mercati” mondiali e
fanno della Cina un paese a struttura capitalistica “neoliberista”, non troppo
dissimile nei funzionamenti macrosistemici a quelli di altre realtà politiche
totalmente diverse.
Ma il “neoliberismo”, lungi dal
rappresentare una semplice opzione economica, un semplice modo di intendere i
rapporti economici, dunque una teoria puramente economica, è anche e
soprattutto una teoria sociale, espressa attraverso una concezione filosofica
complessiva della realtà socioeconomica che permea non tanto il livello
politico, cioè la struttura di potere dei singoli contesti, ma ne caratterizza soprattutto
il livello culturale, esistenziale.
Il corollario sociale del
neoliberismo infatti è ciò che viene conosciuto col nome di “consumismo”, un
fenomeno le cui radici sociali vengono rintracciate fin dai primi anni del
secondo dopoguerra, ma che si è imposto in maniera sistemica, imprescindibile
ai funzionamenti stessi del meccanismo economico, a partire dal tornante
storico cominciato con l’esplosione “sessantottina”, in occidente, e con la
“rivoluzione culturale” e la “stagnazione” in oriente.
Il “consumismo” è un fenomeno, prima che
economico in senso stretto, soprattutto ideologico. Ideologico nel senso che
nasce e si sviluppa sulla scorta di una nuova concezione ideologica del mondo,
dei rapporti sociali e della politica che si strutturano a partire dalla fine
degli anni ’60 in poi. E’ un fenomeno
principalmente ideologico, perché sia in occidente, sia in oriente,
contribuisce alla distruzione delle società “tradizionali”, venute fuori dalla seconda guerra mondiale.
L’omologazione culturale sottesa al fenomeno del consumismo, la sua
totalizzante espressione del reale e dei comportamenti collettivi, il suo
essere espressione di sottesi cambiamenti strutturali di livello sociale ed
economico, ne fanno più precisamente l’epifenomeno dell’instaurazione di un
nuovo ordine economico e politico nuovo, sostanzialmente rivoluzionario.
La modificazione permanente degli
stili di vita, delle abitudini e delle tipologie di consumo, l’instaurazione di
un complesso sistema di “manipolazione mediatica” di questi ultimi, l'abbandono del concetto di "consumo da sussistenza", l’allargamento della
base produttiva mondiale e delle capacità di spesa da parte di sempre più ampi
settori della popolazione mondiale, sono solo alcuni tratti di questo
epifenomeno sociale.
L’ideologia sottesa al consumismo
è quella della “crescista”, cioè della crescita illimitata di produzione e
consumi, sottesa al più generale impianto “neoliberista”, all’interno però di
un quadro generale di modificazione complessiva dei rapporti sociali.
Un contributo particolare e molto
significativo all’instaurazione di questa nuova ideologia come orizzonte di
senso del mondo moderno e contemporaneo, non a caso venne proprio da una delle
organizzazioni mondialiste più famose, e meno conosciute, della storia: la
Commissione Trilaterale.

Questo testo appare illuminante
per tante cose. Innanzitutto al suo interno è codificata la nuova ideologia
politica ed economica che si sta imponendo e che la nascita della
“contestazione sociale” della fine degli anni ’60 ha potentemente favorito, non
solo come “reazione”, ma soprattutto come sbocco politico. I punti salienti del
contributo, sono rappresentati da alcuni concetti-chiave espressi in maniera
poco pedante e incredibilmente concreta e lucida.
Tali concetti-chiave, saranno
l’architrave portante delle politiche mondiali di integrazione economica che
partendo da quegli anni e passando attraverso il crollo del blocco sovietico,
disegneranno il mondo così come lo vediamo oggi.
Partendo dal presupposto che il
“socialismo reale” non fa parte dei fattori di crisi della “democrazia”, non
rappresentando più un pericolo di involuzione collettivistica globale, ma
avviandosi ad un rapido tramonto, l’analisi del “libello”, pone alcune
questioni fondamentali, la prima delle quali è senza dubbio quello dell’apatia
delle classi popolari. Il concetto di “apatia” viene usato in maniera
tutt’altro che dispregiativa, anzi elevandolo a concetto stabilizzante della
governance “democratica” e ritenendolo assolutamente necessario all’esercizio
del potere e al funzionamento stesso del sistema politico. In altre parole, la
NON partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, in quote sempre maggiori,
garantisce una più equilibrata gestione del potere, una più corretta
allocazione delle risorse ed una dialettica sociale meno traumatica e più
convergente.
Da questo punto di vista, “The
Crysis of Democracy”, si spinge ancora più in là, introducendo il concetto di
“governabilità” in maniera del tutto nuova rispetto al concetto tradizionalmente
inteso. In questo senso, la “governabilità” viene completamente sganciata dalla
“democraticità sostanziale” del sistema e viene al contrario auspicata una
stabilità democratica sostanzialmente senza democrazia (o con una democrazia
ridotta ai minimi termini).

Agnelli individua in tre fattori
principali le “minacce” allo stato democratico, suddividendoli in tipologie. La
prima tipologia è di carattere “contestuale”, la seconda di “strutturale”, la terza di carattere “intrinseco”.
Analizziamo brevemente le
posizioni del ricco imprenditore italiano.
Le minacce di tipo “contestuale”
rispecchiano la situazione economica e di politica internazionale, come minacce
militari esterne, penuria di materie prime, inflazione, instabilità monetaria,
le quali per essere disinnescate necessitano della giusta organizzazione
dell’interdipendenza economica e della sicurezza.
Per quanto riguarda le minacce di
tipo “strutturale”, Agnelli individua nella cultura “antagonista”, una minaccia
rilevante proveniente dagli strati intellettuali della società e dai gruppi ad
essi collegati che si contraddistinguono per la loro avversione “ideologica”
alla corruzione, al materialismo e all’inefficienza della democrazia, nonché la
subordinazione del sistema democratico al capitalismo monopolistico.
Infine, le minacce “intrinseche”,
sono quelle più gravi e pericolose. Più democratico è il sistema, più le minacce
intrinseche sono gravi, riflettendo il funzionamento stesso della democrazia.
In altre parole, per poter funzionare bene e al riparo dai pericoli
disgregativi, Agnelli è convinto che il “sistema democratico” debba essere il
meno democratico possibile, bilanciandosi sulle altre tendenze di segno
opposto.
E’ per questo motivo che la
questione della “governabilità”, secondo Agnelli riveste una fondamentale
importanza.
Appare davvero interessante come
poi i tre autori elaborino le loro “soluzioni”, proponendo una cura per la
malattia della democrazia che presuppone, di fatto, meno partecipazione e
dunque meno democrazia. Ma aldilà di questo, la questione di organizzare in
maniera concreta e razionale l’integrazione delle economie come baluardo alla
spinta “dissolutiva” delle correnti cosiddette antagoniste, appare, nelle
concezioni di questa élites di intellettuali, professori, manager,
imprenditori, capi di stato, ministri, finanzieri ed economisti che si
riuniscono intorno alla Trilaterale, come uno dei punti cardini del proprio
ragionamento politico. Infatti, l’invito ad accelerare quanto più possibile
l’integrazione europea per sottrarre ai vari apparati statali i centri
decisionali di politica economica e sociale e spostarli in istituzioni
“lontane” da quei popoli all’interno dei quali vive la “contestazione” e si
sviluppa sempre più una richiesta generale di maggiori garanzie, maggiori
diritti e maggiori libertà, è talmente esplicito che, considerando l’attuale
impalcatura europea, i suoi meccanismi, chi detiene le fila delle decisioni
politiche ed economiche, come vengono implementate nei vari contesti nazionali
e il ruolo ancillare che, a parte qualche sporadico esempio, hanno assunto i
vari governi nei confronti della governance europea, le posizioni espresse in
“Crysis of Democracy” apparirebbero quasi profetiche, se non fosse che si
trattasse di vere e proprie direttive.
La considerazione generale
infatti che si può tentare è che quel “cenacolo” di potere che si raggruppa
attorno alla Trilaterale e ad altre istituzioni simili, non solo ha le idee
molto chiare sugli sviluppi in atto e sulle auspicabili direzioni da seguire,
ma soprattutto che, una volta formulate le analisi, esista poi una volontà
generale perfettamente capace di realizzare quelle visioni, di renderle
operative, di indirizzare lo svolgimento dei fatti salienti e delle decisioni
politiche decisive.
L’esempio della Trilaterale è
infatti emblematico di come, aldilà dei confini e delle differenze politiche,
esista una capacità di analisi e una capacità politica che non rimane sulla
carta, espressione volatile e pedantesca, bensì si concretizza nella realtà in
modo omogeneo e determinato e tali capacità si esprimono
attraverso queste “istituzioni” non ufficiali, dimostrando come un blocco di
interessi di livello globale ha la capacità di organizzarsi, di strutturarsi e
far valere le proprie pretese.
Non è un caso, infatti, che dopo
quel 1975 e l’uscita di “Crysis of Democracy”, le svolte epocali che si
determinarono di li a poco, nelle linee di fondo, ricalcavano quella
impostazione e quell’ideologia. Da quel momento in poi, non solo il processo di
integrazione europea subì una fortissima accelerazione, ma con l’avvento al
potere negli Usa e in Inghilterra dell’ex attore hollywoodiano Reagan e della
miss lady di ferro Margareth Thatcher, si avviò una nuova stagione politica che
sancì l’uscita delle teorie “neoliberiste” dalle aule e dai seminari
universitari, per farsi prassi economica e politica nella realtà sociale
concreta.

La brusca sferzata che le crisi
energetiche degli anni ’70 diedero a tutto il mondo politico occidentale,
favorì in maniera decisiva un cambio radicale dei paradigmi economici e delle
politiche economiche dei vari contesti nazionali, sancendo la fine di un’era e
l’inizio di una nuova.
Il varo dello SME (padre
dell’Euro) in Europa, l’abbandono del sistema monetario di Bretton Woods e
l’introduzione del sistema a “moneta fiat” (cioè non agganciata all’oro e con
cambi liberi e variabili), il progressivo smantellamento del welfare state come
modello di compensazione sociale, l’abbandono dei sistemi di indicizzazione dei
salari, le nuove politiche energetiche e industriali, la riorganizzazione del
lavoro di fabbrica, lo sganciamento del potere di emissione monetaria da parte
delle banche centrali da quello politico, sono tutti aspetti di una strategia
univoca, predeterminata, lucida, potente, che si innestò in un momento storico
e sociale che, proprio mentre i movimenti sociali subivano un naturale
“riflusso” e in alcuni contesti nazionali come l’Italia ciò conduceva lo
scontro a radicalizzarsi in “lotta armata”, il potere occidentale marciava in
una direzione completamente diversa, ma comunque nuova, rispetto alle aspirazioni “antagoniste”
che preoccupavano così tanto Gianni Agnelli.
Lasciando da parte le varie
peculiarità nazionali, è evidente come la capacità di immaginare un futuro
diverso, di prevedere sviluppi e situazioni, di indirizzare lo sviluppo sociale
e politico in direzioni ben precise, di “giustificare” determinate scelte
anziché altre, da parte delle élites del potere globale, furono fattori
decisivi. La cementificazione ideologica, l’armonizzarsi delle differenze e dei
contrasti, la capacità dialettica tra le varie posizioni e i vari interessi, la
prontezza delle soluzioni, la capacità di indirizzare le risorse e le forze
laddove servisse quando servisse, la capacità manipolatoria e l’abilità nello
sfruttare gli eventi storici e sociali funzionalmente ai propri disegni, furono
tutte cose che in quegli anni, le élites globali riuscirono a ottenere e
concretizzare in maniera decisiva.
Una Classe Globale, prendeva
coscienza di sé e per la prima volta nella storia era diventata potenzialmente
capace di indirizzare i destini del globo e di esserne consapevole.

Fu proprio a partire da quel
fatidico decennio degli anni ’70 che, laddove esisteva, la democrazia fu messa
in discussione e subì una profonda e costante involuzione, mentre laddove non
esisteva, veniva persa definitivamente la possibilità di essere instaurata. Non
solo venne completamente bloccata la possibilità di un’evoluzione spontanea da
forme democratiche di stampo “classico”, vale a dire borghese parlamentare di
tipo liberale, a forme più avanzate di governance politica, ma venne
altresì compromessa la possibilità di un’evoluzione democratica di quei
contesti regionali nei quali la democrazia parlamentare non aveva mai
attecchito, configurando una mappatura della cartina geopolitica mondiale in
cui, oggi, la democrazia (laddove esista) appare ormai solo l'orpello formale di governance autoritarie.
(continua)
giovedì 31 marzo 2016
La teoria della Global Class (Classe Possidente Globale).
Classe sociale è la strutturazione gerarchica di uno strato della popolazione in un raggruppamento abbastanza omogeneo, sia da un punto di vista economico (lavoro, casa, vestiario), sia sul versante culturale (livello di istruzione, titolo di studi, cultura generale).
di Francesco Salistrari
Ricomposizione transnazionale di classe.
Il capitalismo fu sin dall’inizio
un “movimento sociale” a grandissimo carattere internazionalista. La formazione
di tutta una serie di “borghesie nazionali”, intorno al sorgere politico dello
“Stato Nazione”, inteso come “nume tutelare” degli interessi di classe
nazionali (imperialismo), fu fin dal principio accompagnata dalla “nascita” di
una sorta di “classe borghese transnazionale” che si espresse attraverso varie
forme ed organizzazioni, una delle quali può essere rintracciata sicuramente
nella cosiddetta “haute finance” di ottocentesca memoria.
Questa classe sociale nascente,
benchè suddivisa comunque al suo interno su linee di classe a “base nazionale”,
ha sin da subito assunto una chiara fisionomia cosmopolitica, cioè di
“politica” (polités) applicata al “mondo” (cosmos). Nella sua visione aperta
delle relazioni economiche umane, questa classe sociale, ha infatti espresso i
suoi interessi travalicando spontaneamente le diversità culturali e formandosi
spontaneamente all’interno di qualsiasi contesto, divenendo interlocutore
globale di interessi seppur di matrice “locale”.
Nelle dinamiche storiche
intercorse, dalla nascita di questa “classe globale”, le contraddizioni
sistemiche e sociali scaturenti dallo sviluppo del capitalismo, fecero di
questa classe ciò che Smith fece della “mano invisibile” per il mercato. Cioè
vale a dire, all’interno delle contraddizioni nazionali e dello scontro per il
controllo delle risorse planetarie, questa classe “sovranazionale”, sovente ha
“spostato” i suoi interessi apparentemente in modo funzionale a particolari
interessi “nazionali”, ma in realtà ai propri. Gli accordi commerciali, gli
investimenti, i finanziamenti, tutta la massa monetaria che questa classe è
riuscita a spostare nel mondo nel corso degli ultimi 200 anni, ha in qualche
modo sempre contribuito a determinare in maniera fondamentale, gli eventi
storici e gli scontri internazionali.
Un metodo capace di gettar luce
su questa dinamica, può facilmente essere rintracciato individuando, nei vari
tornanti storici, gli spostamenti di capitale mondiale. Cioè, allo stesso modo
di come un magistrato che indaghi su un reato, per scoprire i mandanti, gli
esecutori e gli eventuali fiancheggiatori, segue la “scia del denaro”, così
individuando i flussi finanziari, si individuano un modus operandi e dei
“colpevoli”.
Questo per il semplice fatto che
l’allocazione delle risorse che questa “classe globale” storicamente ha
determinato, è stata capace di spostare gli equilibri politici e sociali di
intere aree del pianeta contemporaneamente.
Oggi, con l’avvento del
capitalismo globale (finanziarizzato), il peso sociale, economico, politico e
militare di questa classe, di fatto, si è enormemente accresciuto, tanto da
configurare una nuova sovranità che soppianta, nelle dinamiche del potere, la
sovranità dello “Stato nazionale”, un nuovo spazio politico decisionale, capace
di indirizzare le scelte di qualsiasi contesto nazionale o regionale.
La capacità di “spostare”,
attraverso i mezzi tecnologici moderni, i propri interessi aldilà di qualsiasi
confine linguistico, culturale, politico, permette una composizione di classe
mai sperimentata in passato. Questo significa che esiste, a partire da un certo
momento storico (che cercheremo di individuare in seguito), una nuova
dimensione politica.
Ogni classe sociale, storicamente
esistita fin qui, ha infatti fondato la propria dimensione politica. Tale
dimensione politica, rifletteva la struttura produttiva del tempo e i rapporti
sociali ad essa sottesi.
Oggi, la struttura produttiva
mondiale (multinazionale) e i nuovi rapporti sociali nati dal crollo della
divisione in blocchi del mondo, hanno generato la creazione di una nuova
dimensione politica occupata appunto dalla classe globale.
Questa nuova dimensione politica
si esprime, naturalmente, attraverso una nuova dimensione ideologica che permea
il contesto culturale globale, colonizzando l’immaginario collettivo di sempre
più grandi masse di individui. L’unificazione dell’immaginario collettivo non
più su basi nazionali e/o regionali, bensì globali, è probabilmente un fenomeno
originale, nella storia del mondo, ma se è possibile oggi, lo è essenzialmente
perché è solo da qualche decennio che la classe sociale globale ha instaurato
una propria dimensione politica autonoma.
Se infatti in passato, molto più
di oggi, la mediazione degli interessi della “classe borghese transnazionale”
doveva avvenire per ragioni di forza (rapporti) su canali più strettamente
nazionali (quindi gruppi nazionali, espressione di interessi di classe nazionali),
quindi delimitando fortemente la propria capacità decisionale e politica, oggi,
con la modificazione della funzione dello Stato (storicamente esistita), essa
si è spostata da ambiti “nazional pubblici”, ad ambiti “internazionali
privati”. All’interno della mediazione internazionale privata, con tutte le sue
sfaccettature e le sue contraddizioni, la dimensione decisionale politica,
assume sempre più carattere “privatistico”, cioè non determinata da dinamiche
pubbliche (democratiche, collettive e/o nazionali) e che impone la propria
trasversalità ideologica a tutto l’orizzonte sociale mondiale.
Una delle caratteristiche
attraverso cui si può individuare questa classe sociale globale, si esprime
attraverso le nuove forme di proprietà che lo sviluppo capitalistico degli
ultimi decenni ha determinato. Analizzando infatti la struttura delle imprese
multinazionali, delle banche e della finanza mondiale, i nuovi istituti di
proprietà sorti dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, prefigurano
l’esistenza di una classe possidente globale.
Possidente nel senso letterale
del termine.
Tutto ciò che rientra nella
categoria socialmente ampia di “merce”, le appartiene. In un’epoca storica in
cui la “mercificazione dell’esistente” è un processo il cui grado di sviluppo
conosce oggi vette storicamente mai sperimentate, le “proprietà” di cui dispone
la classe possidente globale sono talmente estese da occupare la quasi totalità
dell’orizzonte esistenziale moderno.
Osservando le ramificazioni dei
titoli di proprietà delle imprese, delle aziende, dei titoli azionari, dei
consigli di amministrazione (compresi quelle delle grandi banche di
investimento, delle banche centrali e degli istituti finanziari), appare
evidente come questa classe possidente globale, controlli (più o meno
totalmente):
• Il
denaro;
• La
forza lavoro;
• Le
risorse (energia, acqua, minerali, terra ecc.);

La struttura sociale di questa
classe possidente globale, si costruisce su base piramidale, attraversata da
settori intermedi.
Questo ampio settore sociale
globale, rappresenta la cuspide della piramide sociale mondiale. Immediatamente
sotto a questo livello, esiste il livello cosiddetto “statale nazionale”, vale
a dire, un livello intermedio di classe, che si esprime attraverso linee di
classe nazionali, ma in posizione subordinata. La base della piramide è
rappresentata da quella che si potrebbe definire “Società bassa”: l’insieme
delle masse “produttrici e consumatrici”.
All’interno della Società Bassa,
sussistono, com’è naturale, settori intermedi che fungono da collante sociale
verso l’alto.
Il Potere politico e la funzione dello Stato.
Come tutte le classi possidenti
della storia, anche la Classe Possidente Globale, detiene il potere politico ed
esprime tale potere attraverso proprie Istituzioni. Una di queste istituzioni
rimane lo Stato Nazionale, che ha completamente mutato la propria funzione
rispetto a ciò che ha storicamente rappresentato sino a questo momento.
Il vasto processo denominato
“erosione dello stato nazionale”, è un processo storico, sociale e politico che
affonda le sue radici nei mutamenti strutturali avvenuti durante il corso degli
anni ’70 del novecento a livello globale.
L’emergere del “neoliberismo”
come teoria economica fondante dell’azione Statale, in occidente, ha
determinato una lenta ma progressiva erosione delle prerogative dello Stato in
quanto istituzione di potere, in quanto cioè a dimensione politica
(decisionale). Questa erosione, è avvenuta attraverso tutta una serie di
mutamenti sociali, giuridici, finanziari che il processo che si è avviato dagli
anni ’70 in avanti, ha portato sempre più i luoghi decisionali politici da una
dimensione “nazionale” (imperialistica), ad una sempre più internazionale. La
nascita di istituzioni transnazionali come la Banca Mondiale, il Fondo
Monetario Internazionale, le Banche Centrali sganciate dal controllo pubblico
(e dalla proprietà pubblica), la nascita di unificazione commerciale di intere
regioni (NAFTA, COMUNITA’ EUROPEA ecc), l’abbandono del sistema monetario nato
a Bretton Woods, tutto questo, ha progressivamente ridotto l’ambito di
intervento (e la proiezione di potenza) dello Stato Nazione in quanto tale,
relegandolo al ruolo comprimario di potere tra i poteri.
In qualche modo, è avvenuta
progressivamente una “divisione internazionale dei poteri”, in cui quello
statale, non è che un livello politico-amministrativo non più “fondante”, bensì
intermedio.
Questo processo, con la caduta del
muro di Berlino e della società “collettivistico-burocratica” dell’Unione
Sovietica e del Patto di Varsavia, ha subito un’accelerazione prepotente e
sebbene qualcuno intravedesse al contrario l’emergere degli Stati Uniti come
unica superpotenza statale globale, capace cioè di determinare su linee di
interesse di classe a base nazionale, nel medio periodo, ha contribuito ad una
pesante limitazione della proiezione di potenza dello Stato Americano (USA).
Sebbene, grazie al suo apparato militare, alle relazioni internazionali,
evolutesi a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti mantengano una
potente egemonia politica, culturale, economica, pur tuttavia, gli interessi
transnazionali della frazione americana (statunitense) della Classe Possidente
Globale, spesso sono in contrasto con i particolari interessi nazionali
espressi attraverso la dimensione politica statale.
Dunque, se da una parte, gli USA,
in quanto entità Statale (Nazione), mantengono un ruolo di primo piano,
all’interno delle dinamiche internazionali e di scontro intercapitalistico, pur
tuttavia, tale ruolo diventa ancillare e funzionale non già ad interessi
prettamente statunitensi, bensì trasversali e transnazionali.
In realtà, le varie componenti
del potere politico statale, espresso regionalmente e/o nazionalmente,
rappresentano più che altro frazioni intermedie di una piramide che si estende
anche al di sopra di esse.
Non sono più le forze nazionali,
bensì quelle transazionali che determinano l’andamento della geopolitica
moderna.
Le guerre, i conflitti, le
situazioni di crisi sociale, militare ed economica, sono tutte espressione di
fratture interne su linee di classe nazionale che vengono utilizzate, ai fini
degli interessi della Classe Possidente Globale, a seconda delle circostanze,
delle convenienze, delle alleanze sociali e politiche.
E’ chiaro che all’interno dei
vari contesti nazionali, esistano spazi culturali ed ideologici autonomi, che
non necessariamente esprimono interessi globali, ma che al contrario fanno da
contraltare alle spinte disgregative insite nel meccanismo di distruzione delle
entità statali tradizionali.
Laddove esistono governi che si
oppongono al dominio incontrastato dei “mercati” (cioè della Classe Possidente
Globale), esistono forze sociali capaci ancora di opporre resistenza
organizzata e mediazione politica. Laddove questi governi hanno rappresentato
un ostacolo troppo ingombrante agli interessi dei “mercati”, sono stati
spazzati via dalle guerre che abbiamo vissuto negli ultimi 70 anni.
Le guerre del futuro, la
geopolitica del futuro cioè, si giocheranno pertanto sull’eliminazione (o sul
tentativo di eliminare) progressivamente tutti quegli ostacoli che restano
all’instaurazione definitiva della “dittatura dei mercati”, vale a dire al
pieno e totale dispiegamento del potere della Classe Possidente Globale.
La svolta del '68.

Infatti, l’anno 1968, sebbene anno-simbolo,
rappresenta una particolare convergenza di fattori che hanno fatto esplodere le
contraddizioni insite nel sistema sociale (e internazionale) scaturito dalla
seconda guerra mondiale e ne hanno dato uno sbocco sociale, economico e
politico del tutto nuovo.
Un immenso intellettuale come
Pierpaolo Pasolini, in modo profetico, nei suoi scritti e in generale nella sua
produzione artistica, fu uno dei pochi capaci di cogliere i tratti salienti del
“movimento del ‘68”, individuandone significati, processi, sbocchi, conseguenze
di lungo periodo.
In effetti, il movimento del ’68,
aldilà delle sue manifestazioni politiche e delle sue contraddizioni, sprigionò
energie sociali nuove, capaci di modificare lo stato esistente delle cose. Tali
energie, lungi dall’essere rappresentate, come Pasolini ben comprese, da un
generale riorientamento culturale della società del tempo, in realtà furono
capaci di provocare lo sconquasso della “società borghese” minando le
fondamenta stesse del “dominio borghese della società”.
Il movimento del ’68, in larga
parte, benchè caratterizzato da una polarizzazione ideologica di classe
(operaia) e intellettuale (studentesca), fu preminentemente un fenomeno
“antiborghese” e solo in maniera marginale “anticapitalista”. Pur in presenza
di una forte componente antisistemica, espressa nelle forme organizzative dei
movimenti extraparlamentari di matrice marxista, marxiana, veteromarxiana,
leninista, maoista o troschista, pacifica o armata, tale componente non fu mai
veramente egemonica, né da un punto di vista politico, né ideologico. Il
contraltare, rappresentato dal “riformismo istituzionale” incarnato dai
partiti, dai movimenti e dai sindacati della “sinistra ufficiale”, rifletteva
essenzialmente la struttura sociale esistente e i rapporti sociali
internazionali, molto più di quanto gli stessi rappresentanti di queste
tendenze credessero o volessero far credere. Da questo punto di vista, il
“conservatorismo” di sinistra, espresso da queste formazioni sociali, fu ciò
che rese impossibile uno sbocco realmente anticapitalista del vasto movimento
cominciato nel 1968.
La messa in discussione della
“famiglia”, della “morale”, del “potere” e delle istituzioni in generale, non
fu una messa in discussione generale del sistema nel suo complesso, bensì una
messa in discussione del “modello borghese” di queste istituzioni, senza per
ciò stesso comportare il radicale rifiuto del sistema economico nel suo
complesso.
In altri termini, grazie a tutta
una serie di situazioni e alla composizione dei rapporti di forza in campo, il
movimento del ’68, distruggendo la “società borghese”, con essa, contrariamente
alla dottrina marxista allora imperante, non distrusse il sistema capitalista,
ma contribuì ad una sua evoluzione sociale, politica ed economica di ampia
portata del tutto nuova ed originale.

Questo fatto, determinato da
fattori sociali e da fattori strettamente economici, provocò una lenta ma
inesorabile messa in discussione generale della struttura economica sovietica.
Messa in discussione che si espresse, per quanto riguarda le componenti
popolari, in un sempre crescente malcontento e nel rifiuto ideologico del
comunismo, mentre per quanto riguarda i vertici sociali, attraverso un sempre
più marcato anelito di trasformazione dei rapporti di proprietà e di quelli
sociali in direzione di una restaurazione capitalistica.
Le contraddizioni sociali e la
lotta tra settori sociali sovietici, ad un certo momento divennero così
evidenti attraverso la messa in discussione del fondamento del potere del
Partito Comunista (nelle sue varie declinazioni nazionali), per infine produrre
al proprio interno quelle forze capaci di generare il cambiamento che si
verificò poi alla fine degli anni ’80. Tali contraddizioni, fortemente
condizionate dalla situazione internazionale e dai rapporti di forza sociali
internazionali, nonché alimentate dalla base popolare del sistema sovietico che
anelava un cambiamento, permisero la dissoluzione del sistema sovietico in modo
talmente repentino che agli occhi degli osservatori occidentali, tutto il
fenomeno per lungo tempo restò un mistero.
La reintroduzione del
capitalismo, in una società come quella sovietica, fu un processo politico ed
economico di inaudita violenza, capace di lasciare cicatrici e problemi sociali
non ancora rimarginati. La dissoluzione sociale sfociata in predazione
sistematica delle risorse pubbliche da parte di una “classe borghese nascente”,
in realtà figlia diretta della “casta burocratica” al potere tramite i vari
Partiti Comunisti nazionali, determinò il più grande e colossale “furto” di
proprietà pubbliche che la storia abbia mai registrato, provocando un
riallineamento di classe violento e criminale i cui effetti non sono ancora del
tutto dispiegati.
Dunque, mentre più o meno nello
stesso periodo in occidente, assistiamo da una parte ad un colossale movimento
di messa in discussione delle basi tradizionali del dominio borghese della
società, ed in particolare dello “stato nazione”, un movimento che dall’alto si
esplica attraverso la radicalizzazione delle nuove teorie economiche
riconducibili al “neoliberismo” che mettono in discussione il ruolo dello Stato
nell’economia, dunque i rapporti sociali sorti dalla seconda guerra mondiale
fino a quel momento, dall’altro, in oriente, assistiamo ad un movimento che pur
da presupposti del tutto diversi e con forme e contenuti dissimili, pur
tuttavia mette in crisi e in discussione anch’esso lo Stato (non solo come proprietario
dei mezzi produttivi), con sbocchi del tutto simili (se non perfettamente
corrispondenti) a quelli del “neoliberismo” occidentale.
In effetti, analizzando
metodologie, tempi e strumenti utilizzati nella reintroduzione del capitalismo
nei paesi dell’est ex sovietico, ci accorgiamo immediatamente di come la
nascente classe possidente (al sorgere dei nuovi rapporti sociali), sia legata
a doppia mandata, non solo per filiazione ideologica, bensì strutturale, alla
classe possidente occidentale, che nel frattempo stava guidando la
trasformazione del capitalismo occidentale in senso “neoliberista”.

Gli strumenti attraverso i quali,
questo processo si è realizzato, sono di natura ideologica, sociale, politica
ed economica.
L’avvio economico di questo
processo, che in occidente coincide con l’esplosione delle cosiddette crisi
energetiche (shock pretroliferi) degli anni ’70, in oriente si manifesta
attraverso quella che è passata alla storia come l’epoca della “stagnazione”
sovietica. In entrambi i casi, le crisi ad essi sottese, sono di natura
intrinsecamente sociali, prima che economiche.
La distruzione della “società
borghese” e della “società socialista”, sono due fenomeni strettamente connessi
e strettamente correlati, che investono un cambiamento generale del paradigma
economico globale e che genera un riassetto complessivo degli equilibri
politici ed economici mondiali, il risultato del quale è sotto gli occhi di
tutti noi, oggi.
La cosiddetta
“finanziarizzazione” del capitalismo, significa tutto e non significa niente.
Questo perché, aldilà delle categorie strettamente economiche, il vasto
processo di mutamento sociale intercorso negli ultimi 40 anni, è
significativamente connaturato all’emergere e all’affermarsi di una nuova
dimensione politica sovranazionale, classista, che fa dell’attuale panorama
sociale ed economico un vero e proprio “mondo nuovo”.
La globalizzazione dei mercati,
in realtà è l’affermazione di una nuova classe sociale possidente,
contraddistinta, come qualsiasi altra classe sociale storicamente esistita, da
proprie istituzioni, da una propria ideologia, da specifici rapporti di proprietà,
da specifici rapporti di lavoro.
La divisione mondiale del lavoro
oggi, si esprime attraverso non solo nuove forme contrattuali (e di
sfruttamento), ma anche attraverso una nuova stratificazione sociale globale,
una nuova capacità allocativa, e attraverso la capacità di spostare e
diversificare gli apparati produttivi per cui, le entità sociali che possiedono
i titoli di proprietà (strettamente intesi) dell’apparato produttivo mondiale,
essendo portatrici sempre più di interessi “privatistici” erosivi degli ambiti
di intervento pubblico (statale e collettivo) e che abbracciano l’intero agone
economico trasversalmente, vanno a strutturare un sistema economico-produttivo
capace di allocare le risorse in maniera indipendente dal potere politico classicamente
inteso.
Quello che viene oggi presentato
come il distacco dell’economia dalla politica, o dell’autonomizzazione delle
categorie economiche da quelle della politica, o ancora, della supremazia
dell’ordo aeconomicus sull’ ambito politico, in realtà è l’emersione di un
“nuovo ordine politico” espressione di un interesse di classe globale
trasversale, sovranazionale e transnazionale, che determina una profonda
mutazione genetica dei rapporti di forza sociali internazionali.
Il mondo della globalizzazione
economica è, dunque, il mondo della Classe Possidente Globale. Vale a dire di
quel soggetto storico, espressione di un blocco sociale mondiale determinato,
che detiene il Potere e lo esercita attraverso forme e metodologie, istituzioni
e prassi sociali, nuove e rivoluzionarie.
(continua)
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