Possiamo immaginare delle
multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti
politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti?
Si
può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere!
– una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un
diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale
troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo
scenario non risale a ieri.
Esso compariva già a chiare lettere nel
progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato
segretamente tra il 1995 e il 1997 dai ventinove stati membri
dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(Ocse) (1). Divulgato in extremis, in particolare da Le Monde
diplomatique, il documento sollevò un’ondata di proteste senza
precedenti, costringendo i suoi promotori ad accantonarlo. Quindici
anni più tardi, essa fa il suo ritorno sotto nuove sembianze.
L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip) negoziato a partire
dal luglio 2013 tra Stati uniti e Unione europea è una versione
modificata del Mai. Esso prevede che le legislazioni in vigore sulle
due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio
stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi, sotto
pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una
riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti.
Secondo il calendario ufficiale, i negoziati non dovrebbero
concludersi che entro due anni. Il Ttip unisce aggravandoli gli
elementi più nefasti degli accordi conclusi in passato.
Se dovesse
entrare in vigore, i privilegi delle multinazionali avrebbero forza
di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti.
Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari,
esso si applicherebbe per amore o per forza poiché le sue
disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime
di tutti i paesi firmatari. Ciò riprodurrebbe in Europa lo spirito e
le modalità del suo modello asiatico, l’Accordo di partenariato
transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso
di adozione in dodici paesi dopo essere stato fortemente promosso
dagli ambienti d’affari.
Insieme, il Ttip e il Tpp formerebbero un
impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori
delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni
commerciali con gli Stati uniti e l’Unione europea si troverebbe
costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno
del loro mercato comune.
Tribunali appositamente creati Dato che
mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile, i
negoziati intorno al Ttip e al Tpp si svolgono a porte chiuse. Le
delegazioni statunitensi contano più di seicento consulenti delegati
dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai
documenti preparatori e ai rappresentanti dell’amministrazione.
Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare
giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno
informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà
troppo tardi per reagire. In uno slancio di candore, l’ex ministro
del commercio statunitense Ronald («Ron») Kirk ha fatto valere
l’interesse «pratico» di «mantenere un certo grado di
discrezione di confidenzialità (2)».
Ha sottolineato che
l’ultima volta che la bozza di un accordo in corso di
formalizzazione è stata resa pubblica, i negoziati sono falliti –
un’allusione alla Zona di libero scambio delle Americhe (Ftaa),
versione estesa dell’Accordo di libero scambio nordamericano
(Nafta). Il progetto, difeso accanitamente da George W. Bush, fu
svelato sul sito internet dell’amministrazione nel 2001. A Kirk, la
senatrice Elizabeth Warren ribatte che un accordo negoziato senza
alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato (3).
L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato
statunitense-europeo all’attenzione del pubblico si comprende
facilmente.
Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli
effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato
federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e
le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo
le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato
nei settori che in parte gli sfuggono ancora. Sicurezza degli
alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei
medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia,
cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione
professionale, strutture pubbliche, immigrazione: non c’è una
sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine
del libero scambio istituzionalizzato. L’azione politica degli
eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari
locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro.
È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in
conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro
procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che
essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso
contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei
tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori
e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro
questi ultimi. L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive
tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore. Lo
scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha
condannato gli Stati uniti per le loro scatole di tonno etichettate
«senza pericolo per i delfini», per l’indicazione del paese
d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del
tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di
tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il
Wto ha inflitto anche all’Unione europea delle penalità di diverse
centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare
organismi geneticamente modificati (Ogm).
La novità introdotta dal
Ttip e dal Tpp consiste nel permettere alle multinazionali di
denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un
effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale. Sotto un tale
regime, le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche
sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della
finanza attivate in questo o quel paese reclamando danni e interessi
davanti a tribunali extragiudiziari. Composte da tre avvocati
d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca
mondiale e dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) sarebbero
abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora
la sua legislazione riducesse i «futuri profitti sperati» di una
società.
Questo sistema «investitore contro stato», che sembrava
essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, è stato
restaurato di soppiatto nel corso degli anni. In virtù di numerosi
accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari
sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle
multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle
normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname
ecc. (4). Sotto l’egida di questi stessi trattati, le
procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse
generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le
leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le
richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari.
Il Ttip
aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata,
tenuto conto degli interessi in gioco nel commercio transatlantico.
Sul suolo statunitense sono presenti tremilatrecento aziende europee
con ventiquattromila filiali, ciascuna delle quali può ritenere di
avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione
per un pregiudizio commerciale. Un tale effetto a cascata supererebbe
di gran lunga i costi causati dai trattati precedenti. Dal canto
loro, i paesi membri dell’Unione europea si vedrebbero esposti a un
rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie
statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali.
In
totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia
ai tesori pubblici. Ufficialmente, questo regime doveva servire
inizialmente a consolidare la posizione degli investitori nei paesi
in via di sviluppo sprovvisti di un sistema giuridico affidabile;
esso avrebbe permesso di fare valere i loro diritti in caso di
esproprio. Ma l’Unione europea e gli Stati uniti non sono
esattamente delle zone di non-diritto; al contrario, dispongono di
una giustizia funzionale e pienamente rispettosa del diritto di
proprietà. Ponendoli malgrado tutto sotto la tutela di tribunali
speciali, il Ttip dimostra che il suo obiettivo non è quello di
proteggere gli investitori ma di aumentare il potere delle
multinazionali. Processo per aumento del salario minimo Ovviamente
gli avvocati che compongono questi tribunali non devono rendere conto
a nessun elettorato. Invertendo allegramente i ruoli, possono sia
fungere da giudici che perorare la causa dei loro potenti
clienti (5).
Quello dei giuristi degli investimenti
internazionali è un piccolo mondo: sono solo quindici a dividersi il
55% delle questioni trattate fino a oggi. Evidentemente, le loro
decisioni sono inappellabili. I «diritti» che essi hanno il compito
di proteggere sono formulati in modo deliberatamente approssimativo,
e la loro interpretazione raramente tutela gli interessi della
maggioranza. Come quello accordato all’investitore di beneficiare
di un quadro normativo conforme alle sue «previsioni» – per il
quale va inteso che il governo si vieterà di modificare la propria
politica una volta che l’investimento ha avuto luogo. Quanto al
diritto di ottenere una compensazione in caso di «espropriazione
indiretta», ciò significa che i poteri pubblici dovranno mettere
mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la
riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa
legislazione si applica alle aziende locali.
I tribunali riconoscono
anche il diritto del capitale ad acquistare sempre più terre,
risorse naturali, strutture, fabbriche, ecc. Non vi è nessuna
contropartita da parte delle multinazionali: queste non hanno alcun
obbligo verso gli Stati e possono avviare delle cause dove e quando
preferiscono. Alcuni investitori hanno una concezione molto estesa
dei loro diritti inalienabili. Si è potuto recentemente vedere
società europee avviare cause contro l’aumento del salario minimo
in Egitto o contro la limitazioni delle emissioni tossiche in Perú,
dato che il Nafta serve in quest’ultimo caso a proteggere il
diritto a inquinare del gruppo statunitense Renco (6).
Un altro
esempio: il gigante delle sigarette Philip Morris, contrariato dalla
legislazione antitabacco dell’Uruguay e dell’Australia, ha
portato i due paesi davanti a un tribunale speciale. Il gruppo
farmaceutico americano Eli Lilly intende farsi giustizia contro il
Canada, colpevole di avere posto in essere un sistema di brevetti che
rende alcuni medicinali più accessibili. Il fornitore svedese di
elettricità Vattenfall esige diversi miliardi di euro dalla Germania
per la sua «svolta energetica», che norma più severamente le
centrali a carbone e promette un’uscita dal nucleare.
Non ci sono
limiti alle pene che un tribunale può infliggere a uno Stato a
beneficio di una multinazionale. Un anno fa, l’Ecuador si è visto
condannato a versare la somma record di 2 miliardi di euro a una
compagnia petrolifera (7).
Anche quando i governi vincono il
processo, essi devono farsi carico delle spese giudiziarie e di varie
commissioni che ammontano mediamente a 8 milioni di dollari per caso,
dilapidati a discapito del cittadino. Calcolando ciò, i poteri
pubblici preferiscono spesso negoziare con il querelante piuttosto
che perorare la propria causa davanti al tribunale. Lo stato canadese
si è così risparmiato una convocazione alla sbarra abrogando
velocemente il divieto di un additivo tossico utilizzato
dall’industria petrolifera.
Eppure, i reclami continuano a
crescere. Secondo la Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e
lo sviluppo (Unctad), a partire dal 2000 il numero di questioni
sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato. Se il sistema di
arbitraggio commerciale è stato concepito negli anni ’50, non ha
mai servito gli interessi privati quanto a partire dal 2012, anno
eccezionale in termini di depositi di pratiche. Questo boom ha creato
un fiorente vivaio di consulenti finanziari e avvocati d’affari. Il
progetto di un grande mercato americano-europeo è sostenuto da lungo
tempo da Dialogo economico transatlantico (Trans-atlantic business
dialogue, Tabd), una lobby meglio conosciuta con il nome di
Trans-atlantic business council (Tabc). Creata nel 1995 con il
patrocinio della Commissione europea e del ministero del commercio
americano, questo raggruppamento di ricchi imprenditori è impegnato
per un «dialogo» altamente costruttivo tra le élite economiche dei
due continenti, l’amministrazione di Washington e i commissari di
Bruxelles.
Il Tabc è un forum permanente che permette alle
multinazionali di coordinare i loro attacchi contro le politiche di
interesse generale che restano ancora in piedi sulle due coste
dell’Atlantico. Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di
eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade
irritants), vale a dire di operare sui due continenti secondo le
stesse regole e senza interferenze da parte dei poteri pubblici.
«Convergenza regolativa» e «riconoscimento reciproco» fanno parte
dei quadri semantici che Tabc brandisce per incitare i governi ad
autorizzare i prodotti e i servizi che trasgrediscono le legislazioni
locali. Ma invece di auspicare un semplice ammorbidimento delle leggi
esistenti, gli attivisti del mercato transatlantico si propongono
senza mezzi termini di riscriverle loro stessi. La Camera americana
di commercio e BusinessEurope, due tra le più grandi organizzazioni
imprenditoriali del pianeta, hanno richiesto ai negoziatori del Ttip
di riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi
azionisti e di responsabili politici affinché questi «redigano
insieme i testi di regolamentazione» che avranno successivamente
forza di legge negli Stati uniti e in Unione europea.
C’è da
chiedersi, del resto, se la presenza dei politici in questo
laboratorio di scrittura commerciale sia veramente indispensabile…
Di fatto, le multinazionali mostrano una notevole franchezza
nell’esporre le loro intenzioni. Sulla questione degli Ogm, ad
esempio. Mentre negli Stati uniti uno stato su due pensa di rendere
obbligatoria un’etichetta indicante la presenza di organismi
geneticamente modificati in un alimento – misura auspicata dall’80%
dei consumatori del paese –, gli industriali del settore
agroalimentare, là come in Europa, spingono per l’interdizione di
questo tipo di etichettatura.
L’Associazione nazionale dei
confettieri non usa mezzi termini: «L’industria statunitense
vorrebbe che il Ttip progredisse su tale questione sopprimendo
l’etichettatura Ogm e le norme relative alla tracciabilità».
L’influente Associazione dell’industria biotecnologica
(Biotechnology industry organization, Bio), di cui fa parte il
colosso Monsanto, dal canto suo si indigna perché alcuni prodotti
contenenti Ogm e venduti negli Stati uniti possano subire un rifiuto
sul mercato europeo. Essa desidera di conseguenza che il «baratro
che si è scavato tra la deregolamentazione dei nuovi prodotti
biotecnologici negli Stati uniti e la loro accoglienza in Europa»
sia presto colmato (8).
Monsanto e i suoi amici non nascondono
la speranza che la zona di libero scambio transatlantico permetta di
imporre agli europei il loro «catalogo ricco di prodotti Ogm in
attesa di approvazione e di utilizzo (9)».
Le rivelazioni sul
Datagate L’offensiva non è meno vigorosa sul fronte della privacy.
La Coalizione del commercio digitale (Digital Trade Coalition, Dtc),
che raggruppa industriali del Net e del hi-tech, preme sui
negoziatori del Ttip per togliere le barriere che impediscono ai
flussi di dati personali di riversarsi liberamente dall’Europa
verso gli Stati uniti (si legga l’articolo a pagina 20).
I lobbisti
si spazientiscono: «L’attuale punto di vista dell’Unione,
secondo cui gli Stati uniti non forniscono una protezione “adeguata”
della privacy, non è ragionevole». Alla luce delle rivelazioni di
Edward Snowden sul sistema di spionaggio dell’Agenzia nazionale di
sicurezza (National security agency, Nsa), tale opinione risoluta è
certo interessante.
Tuttavia, non eguaglia la dichiarazione dell’Us
council for international business (Uscib), un gruppo di società
che, seguendo l’esempio di Verizon, ha massicciamente rifornito la
Nsa di dati personali: «L’accordo dovrebbe cercare di
circoscrivere le eccezioni, come la sicurezza e la privacy, al fine
di assicurarsi che esse non siano ostacoli cammuffati al commercio».
Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di
mira. L’industria statunitense della carne vuole ottenere la
soppressione della regola europea che vieta i polli disinfettati al
cloro. All’avanguardia di questa battaglia, il gruppo Yum!,
proprietario della catena di fast food Kentucky fried chicken (Kfc),
può contare sulla forza d’urto delle organizzazioni
imprenditoriali.
L’Associazione nordamericana della carne protesta:
«L’Unione autorizza soltanto l’uso di acqua e vapore sulle
carcasse». Un altro gruppo di pressione, l’Istituto americano
della carne, deplora «il rifiuto ingiustificato [da parte di
Bruxelles] delle carni addizionate di beta-agonisti, come il
cloridrato di ractopamina». La ractopamina è un medicinale
utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di suini e bovini. A
causa dei rischi per la salute degli animali e dei consumatori, è
stata bandita in centosessanta paesi, tra cui gli stati membri
dell’Unione, la Russia e la Cina.
Per la filiera statunitense del
suino, tale misura di protezione costituisce una distorsione della
libera concorrenza a cui il Ttip deve urgentemente porre fine. Il
Consiglio nazionale dei produttori di suino (National pork producers
council, Nppc) minaccia: «I produttori americani di carne di suino
non accetteranno altro risultato che non sia la rimozione del divieto
europeo della ractopamina». Nel frattempo, dall’altra parte
dell’Atlantico, gli industriali raggruppati in BusinessEurope,
denunciano le «barriere che colpiscono le esportazioni europee verso
gli Stati uniti, come la legge americana sulla sicurezza alimentare».
Dal 2011, essa autorizza infatti i servizi di controllo a ritirare
dal mercato i prodotti d’importazione contaminati. Anche in questo
caso, i negoziatori del Ttip sono pregati di fare tabula rasa. Si
ripete lo stesso con i gas a effetto serra. L’organizzazione
Airlines for America (A4A), braccio armato dei trasportatori aerei
statunitensi, ha steso una lista di «regolamenti inutili che portano
un pregiudizio considerevole alla [loro] industria» e che il Ttip,
ovviamente, ha la missione di cancellare. Al primo posto di questa
lista compare il sistema europeo di scambio di quote di emissioni,
che obbliga le compagnie aeree a pagare per il loro inquinamento a
carbone. Bruxelles ha provvisoriamente sospeso questo programma; A4A
esige la sua soppressione definitiva in nome del «progresso».
Ma è
nel settore della finanza che la crociata dei mercati è più
virulenta, Cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime,
i negoziatori americani ed europei si sono trovati d’accordo sul
fatto che le velleità di regolamentazione dell’industria
finanziaria avevano fatto il loro tempo. Il quadro che essi vogliono
delineare prevede di levare tutti i paletti in materia di
investimenti a rischio e di impedire ai governi di controllare il
volume, la natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul
mercato. Insomma si tratta puramente e semplicemente di cancellare la
parola «regolamentazione».
Da dove viene questo stravagante ritorno
alle vecchie idee thatcheriane? Esso risponde in particolare ai
desideri dell’Associazione delle banche tedesche, che non manca di
esprimere le sue «inquietudini» a proposito della tuttavia timida
riforma di Wall street adottata all’indomani della crisi del 2008.
Uno dei suoi membri più intraprendenti sul tema è la Deutsche bank,
che ha tuttavia ricevuto nel 2009 centinaia di miliardi di dollari
dalla Federal reserve statunitense in cambio di titoli addossati a
crediti ipotecari (10). Il mastodonte tedesco vuole farla finita
con la regolamentazione Volcker, chiave di volta della riforma di
Wall street, che a suo avviso sovraccarica un «peso troppo grave
sulle banche non statunitensi».
Insurance Europe, punta di lancia
delle società assicurative europee, dal canto suo auspica che il
Ttip «sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore
dall’avventurarsi negli investimenti ad alto rischio. Quanto al
Forum dei servizi europei (l’organizzazione padronale di cui fa
parte la Deutsche bank), questi si agita dietro le quinte delle
trattative transatlantiche affinché le autorità di controllo
statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi
banche straniere operanti sul loro territorio. Da parte degli Usa, si
spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il progetto europeo di
tassare le transazioni finanziarie.
La questione pare essere già
intesa, dal momento che la stessa Commissione europea ha giudicato
tale tassa non conforme alle regole del Wto (11). Nella misura
in cui la zona di libero scambio transatlantica promette un liberismo
ancora più sfrenato di quello del Wto, e dato che il Fondo monetario
internazionale (Fmi) si oppone a qualunque forma di controllo sui
movimenti di capitali, negli Stati uniti la debole «Tobin tax» non
preoccupa più nessuno. Ma le sirene della deregolamentazione non si
fanno ascoltare solo nell’industria finanziaria. Il Ttip intende
aprire alla concorrenza tutti i settori «invisibili» e di interesse
generale. Gli stati firmatari si vedranno costretti non soltanto a
sottomettere i loro servizi pubblici alla logica del mercato, ma
anche a rinunciare a qualunque intervento sui fornitori stranieri di
servizi che ambiscono ai loro mercati.
I margini politici di manovra
in materia di sanità, energia, educazione, acqua e trasporti si
ridurrebbero progressivamente. La febbre commerciale non risparmia
nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si arrogano
il potere di stabilire una politica comune alle frontiere – senza
dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da
vendere, a svantaggio degli altri. Da qualche mese si è
intensificato il ritmo dei negoziati. A Washington, si hanno buone
ragioni di credere che i dirigenti europei siano pronti a qualunque
cosa per ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di
rinnegare il loro patto sociale. L’argomento dei promotori del
Ttip, secondo cui il libero scambio deregolamentato faciliterebbe i
commerci e sarebbe dunque creatore di impieghi, apparentemente ha
maggior peso del timore di uno scisma sociale. Le barriere doganali
che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati uniti sono tuttavia
già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante
statunitense al commercio(12).
I fautori del Ttip ammettono che il
loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i vincoli
doganali, comunque insignificanti, ma di imporre «l’eliminazione,
la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali superflue (13)»,
dal momento che viene considerato «superfluo» tutto ciò che
rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della
finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio
della democrazia. In realtà i rari studi dedicati alle conseguenze
del Ttip non si attardano per nulla sulle sue ricadute sociali ed
economiche.
Un rapporto frequentemente citato, proveniente dal Centro
europeo di economia politica internazionale (European centre for
international political economy, Ecipe), afferma con l’autorevolezza
di un Nostradamus da scuola commerciale che il Ttip darà alla
popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3
centesimi pro-capite al giorno… a partire dal 2029(14). A dispetto
del suo ottimismo, lo stesso studio valuta ad appena 0,06% l’aumento
del prodotto interno lordo (Pil) in Europa e negli Stati uniti in
seguito all’entrata in vigore del Ttip.
Ancora, un tale «impatto»
è decisamente non realistico dato che i suoi autori postulano che il
libero scambio «dinamizza» la crescita economica: una teoria
regolarmente confutata dai fatti. Un aumento così infinitesimale
sarebbe d’altronde impercettibile. A titolo di paragone, la quinta
versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati uniti una
crescita del Pil otto volte più importante.
Pressoché tutti gli
studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni favorevoli al
libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali, ragione per cui i
costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue
vittime dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di
milioni. Ma i giochi non sono ancora conclusi. Come hanno mostrato le
disavventure del Mai, del Ftaa e alcuni cicli di negoziati del Wto,
l’utilizzo del «commercio» come cavallo di Troia per smantellare
le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati d’affari
in passato ha fallito a più riprese. Nulla ci dice che non possa
succedere la stessa cosa anche questa volta.
note:
*
Direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, Washington,
DC, www.citizen.org.
(1) Si legga « Il nuovo
manifesto del capitalismo mondiale », Le Monde diplomatique/il
manifesto, febbraio 1998.
(2) «Some secrecy needed in
trade talks : Ron Kirk», Reuters, 13 maggio 2012.
(3) Zach
Carter, «Elizabeth Warren opposing Obama trade nominee Michael
Froman», 19 giugno 2013, Huffingtonpost.com
(4) «Table
of foreign investor-state cases and claims under Nafta and other Us
«trade» deals», Public Citizen, agosto 2013,
www.citizen.org
(5) Andrew Martin, «Treaty disputes
roiled by bias charges», 10 luglio 2013, Bloomberg.com
(6) «Renco
uses Us-Peru Fta to evade justice for La Oroya pollution», Public
Citizen, 28 novembre 2012.
(7) «Ecuador to fight oil
dispute fine», Agence France-Presse, 13 ottobre 2012.
(8) Commenti
all’accordo di partenariato transatlantico, documento del Bio,
Washington, DC, mai 2013.
(9) «Eu-Us high level
working group on jobs and growth. Response to consultation by
EuropaBio and Bio», http://ec.europa.eu.
(10) Shahien
Nasiripour, «Fed opens books, revealing European megabanks were
biggest beneficiaries», 10 gennaio 2012,
Huffingtonpost.com.
(11) «Europe admits speculation
taxes a Wto problem», Public Citizen, 30 aprile
2010.
(12) Messaggio di Demetrios Marantis,
rappresentante americano al commercio, a John Boehner, portavoce
repubblicano alla Camera dei rappresentanti, Washington, DC, 20
marzo 2013, http://ec.europa.eu.
(13) «Final report.
High level working group on jobs and growth», 11 febbraio 2013,
http://ec.europa.eu.
(14) «Tafta’s trade benefit: A candy
bar», Public Citizen, 11 luglio 2013. (Traduzione di Al. Ma.)
fonte: LeMondeDiplomatique
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