di Francesco Salistrari.
Questa sinistra italiana… che rabbia.
Una sinistra davvero sinistra, nel senso di
inquietante. Una sinistra che nel corso degli ultimi trent’anni ha
completamente mancato due appuntamenti storici cruciali: la caduta
del muro di Berlino (1989) e l’ingresso nell’euro (1999). Due
appuntamenti cruciali, periodizzanti, in cui alla sinistra non è
mancato solo il coraggio e l’ardire politico che ci si aspetterebbe
da chi, a parole, vuole “cambiare il mondo”. Ma è mancato
qualcosa di ancora più importante, qualcosa che ad una sinistra
degna di questo nome non dovrebbe mancare mai: la capacità di
analisi.
Un’incapacità davvero imbarazzante considerato
ciò che stava succedendo realmente, visti gli sviluppi successivi.
Anzi, alle inquietanti prospettive che si stavano già dal 1989
delineando dinnanzi a questo paese (e al mondo occidentale), alla
sinistra non è mancata solo la capacità di predirle, intuirle,
pensarle, ma è mancata anche la capacità di elaborare il “lutto” della caduta del mondo sovietico. Un mondo che per
decenni era stato presentato come il contraltare migliore al
capitalismo, come la prospettiva auspicata, il “sol dell’avvenire”
anche per il mondo occidentale, nascondendo, negando e non
comprendendo il profondo abisso nel quale quell’esperienza avrebbe
gettato tutta la sinistra antagonista mondiale e di conseguenza
l’intero pianeta, spianando la strada alla “globalizzazione della
finanza” che ha condannato il mondo al neoliberismo teologico
dominante. Che ha portato alla vittoria definitiva di questo
capitalismo assoluto nel quale viviamo.
E alla sinistra è mancata la capacità necessaria e
fondamentale, in quel frangente storico così decisivo, di
analizzare, comprendere, spiegare e trovare le contromisure atte a
scongiurare il naufragio di qualsiasi velleità (teorica e politica)
di una prospettiva anticapitalista degna di questo nome. Di una
prospettiva “socialista” che non avesse più alcun legame con le
bugie, le omissioni, le esagerazioni, le brutture e gli errori
indicibili di quello che era passato alla storia come il “socialismo
reale”.
Una sinistra in definitiva, soprattutto quella
italiana, che ha dimostrato di essere completamente inadatta ad una
qualsiasi elaborazione filosofica, politica ed economica, capace di
rinnovare una teoria anticapitalista adatta ai nuovi tempi e
soprattutto pronta ad affrontare con armi ideologiche e politiche
quella che stava diventando, con la caduta dell’Urss, l’era del
trionfo del capitalismo liberista (neoliberale) globalizzato.
Senza questa analisi, senza questa capacità di
elaborazione teorica e pratica, la sinistra è sprofondata sotto le
macerie del muro di Berlino. E giace ancora lì. Inerte. Cadaverica e
marcescente.
Una incapacità che tra le altre cose si è tradotta
anche in una sciatteria politica talmente marcata che ha portato a
scissioni, alleanze, politiche e posizioni inconcepibili non solo per
formazioni politiche che si autodefiniscono di sinistra, ma per
qualsiasi “politico” con un minimo di intelligenza e calcolo sul
futuro, sancendo la definitiva sconfitta delle istanze e della difesa
dei diritti e degli interessi delle classi subalterne.
Come descrivere, se non come uno degli abbagli più
incredibili, delle miopie più assurde, per la storia della sinistra
italiana, la partecipazione ai governi “Prodi” che hanno sancito
la fine della sovranità nazionale di questo paese, la fine del
potere di contrattazione dei lavoratori, la fine dell’istruzione
pubblica di questo paese, la fine dell’industria pubblica italiana
(e oggi anche di quella privata) e la cancellazione “de facto”
della Carta Costituzionale repubblicana (fine della democrazia)?
Processi tutti avviati negli anni in cui non solo i governi Prodi
sancivano l’ingresso dell’Italia nell’Europa di Francia e
Germania (e degli USA), ma che non sarebbero mai divenuti applicabili
in un paese in cui fosse ancora esistita una vera sinistra
parlamentare e politica.
Dunque, ci troviamo oggi a osservare quello che
resta della sinistra (o che si autodefinisce tale) e che ha un
terrore atavico di affrontare alcune questioni che al contrario
appaiono di importanza capitale, data la situazione attuale non solo
europea.
Due questioni su tutte: la sovranità nazionale e
l’euro.
Due aspetti che ad un’analisi seria e
circostanziata, appaiono (la prima completamente messa in discussione, l'altro come dogma) come due fondamenti di quello che oggi è il
capitalismo liberista europeo.
Ed una sinistra che ancora una volta non abbia il
coraggio, la lungimiranza e la capacità di affrontare (e non
affronta) con nuove armi teoriche e politiche queste due questioni
cruciali, non può che far spegnere qualsiasi speranza in tutti
quelli che anelano alla rinascita di un polo politico, ideologico ed
economico alternativo in questo paese ed in Europa.
Si, perché il non affrontare oggi, così come non
lo si è fatto ieri, due argomenti tanto cruciali, attraverso l’uso
spietato della critica politica ed economica, sarebbe l’ulteriore
incredibile, dannoso, sbaglio di una sinistra che non solo non riesce
a risorgere come fenice dalle proprie ceneri, ma soprattutto che non
vuole.
E vuole invece restare attaccata al “carro dei
padroni”, agli interessi e alle dipendenze, di chi ha decretato la
condanna di questo paese e dei popoli europei (occidentali) alla
galera perpetua di un sistema di cui non si mettono in discussione
più nemmeno i presupposti più semplici. Un sistema che al contrario
sta fagocitando in tutto il mondo, popoli, culture, ambiente,
prospettive e possibilità future, per l’intera specie umana.
La sinistra storicamente è stata l’unico luogo
politico nel quale è stato possibile discutere di una alternativa al
capitalismo (Pasquinelli), l’unico luogo politico in cui la
prospettiva per un futuro migliore non era appannaggio di una classe
sociale particolare, ma per l’intero genere umano (universalismo
socialista), una prospettiva che dall’opera della classe sociale
che più aveva interesse immediato a capovolgere i rapporti di forza
esistenti (il proletariato) si sarebbe tradotta in un avanzamento
complessivo del genere umano verso forme organizzative più eque, più
razionali ed efficienti, meno distruttive e prospetticamente
pienamente sostenibili (considerato lo sviluppo tecnologico). Tutto
questo ha fatto della sinistra, da sempre, il luogo politico deputato
all’elaborazione del “sogno”, dell’utopia, della
progettazione di un futuro migliore per tutti.
Questo luogo politico è ormai scomparso quasi
praticamente in tutto il mondo.
Quella che non è scomparsa, e questo coloro i quali
ancora si definiscono “uomini di sinistra” non l’hanno nemmeno
minimamente intuito, è al contrario proprio la necessità di
un’alternativa reale e concreta, nonché ideale ed ideologica, al
mondo del turbocapitalismo neoliberale in cui siamo immersi oggi.
Un sistema come quello in cui viviamo, non può
essere lasciato funzionare liberamente e senza opposizione reale
alcuna, non tanto per una questione ideologica o astrattamente
classista, semplicemente perché porterà la nostra specie su questo
pianeta all’estinzione.
Dunque è compito di ognuno, eliminate le differenze
di latitudine politica, superando cioè la dicotomia destra-sinistra
di ottocentesca memoria, alzarsi le maniche e collaborare ad una
nuova prospettiva anticapitalista.
Una prospettiva ineliminabile e di cui tutti
dobbiamo assumerci la responsabilità di tracciare, abbandonando
tutte quelle formazioni politiche che oggi, in un modo o nell’altro,
difendono questo sistema, lo alimentano e da cui traggono il proprio
sostentamento. Abbandonando anche e soprattutto l'isolamento e l'apatia che contraddistingue amplissimi settori sociali.
Per fare questo è necessaria una convergenza
collettiva su una serie di punti fondamentali e che abbiano come
minimo comun denominatore la messa in discussione radicale
dell’ordine e dei rapporti di forza esistenti, sia in senso alle
classi sociali, sia in seno alle istituzioni (ormai solo formalmente
democratiche).
Occorre dunque l’attivazione di tutte quelle
sensibilità intellettuali, popolari, politiche, culturali che in un
modo o nell’altro, per ragioni e storie diverse, da prospettive e
angolazioni disparate, hanno in qualche modo messo in discussione
alcuni (se non tutti) gli aspetti dell’odierno sistema vigente.
Un’attivazione che porti alla creazione di un vero polo ideologico
anticapitalista che sappia elaborare una nuova teoria del mondo, da
contrapporre in maniera decisa (e decisiva) alla teologia del mercato
ormai dominante. Una nuova teoria che sappia mettere in discussione i
dogmi che vengono difesi e imposti alla società in nome di entità
propriamente teologiche quali il mercato, il denaro, la merce (Fusaro).
Una nuova teoria economica, ma non solo economica,
invece anche sociologica, politica, che sappia ridefinire, per fare
solo alcuni esempi, concetti quali il contratto di lavoro,
l’organizzazione del lavoro, il processo produttivo, la logica
produttiva, la distribuzione di risorse e ricchezza, l’architettura
istituzionale ecc.
In altre parole, una nuova teoria complessiva del
mondo alternativa a quella che ci viene al contrario presentata come
l’unica praticabile: il capitalismo.
Bisogna sfatare i miti di questo capitalismo. E
bisogna farlo da una prospettiva necessariamente anticapitalista. Non
è più il tempo del riformismo. Il riformismo ha già mostrato i
segni del tempo e la sua assoluta incapacità a frenare gli eccessi e
le mostruosità dell’organizzazione capitalista. Il riformismo è
stato sconfitto esattamente sul proprio campo da gioco: le riforme.
Il capitalismo ha dimostrato ampiamente di sapersi
adattare ad ogni frangente storico con straordinaria capacità
adattiva, trasformandosi e cambiando strutturalmente tutte le volte
che si è trovato in crisi (ciclicamente). Ha dimostrato ampiamente
di esser diventato non più soltanto il sistema di “una” classe
sociale (la borghesia), ma di tutte le classi sociali, sconfiggendo
sul piano stesso del simbolico i suoi avversari (politici e di
classe). Ha dimostrato una forza e una radicalità uniche che ne ha
fatto un sistema capace di assecondare, stuzzicare, indirizzare,
lusingare e corrompere la cosa più importante, quella che muove
realmente il mondo: il desiderio umano.
Occorrono dunque non solo una nuova sinistra, ma una
nuova visione del mondo, una nuova politica, una nuova economia.
Quali soggetti sociali dovranno essere interpreti di
questo progetto?
Tutti coloro che credono, in fondo al proprio cuore,
che questo sistema non sia davvero, come ci viene detto, l’unico
destino possibile per l’essere umano su questo pianeta.
Nessun commento:
Posta un commento