Non basta più gridare
la volontà di cambiamento, bisogna rivoluzionare gli strumenti di lotta.
di Francesco Salistrari
Ancora scontri con la Polizia. Ieri
a Roma. Di nuovo guerriglia tra manifestanti e poliziotti, di nuovo l’eterna
guerra tra poveri voluta e cercata dai tanti che hanno interesse solo a che le
proteste finiscano in massacro, che le idee vengano cancellate dal dibattito,
che quello che resti, di una manifestazione, siano solo gli schizzi di sangue
ed il disgusto.
Basta!
Il mondo è cambiato. E’ cambiato
tutto. La sacrosanta protesta di un
popolo contro le ingiustizie, i soprusi, i diritti negati, la protervia e
la corruzione del potere, non può non cambiare con esso. Pena l’annientamento,
l’annichilimento, la sconfitta, l’oblio.
Gli anni Settanta sono finiti.
Non si può più continuare ad usare gli strumenti e i metodi di lotta di
un’epoca passata, seppellita sotto un cumulo di cambiamenti che hanno stravolto
rapporti di forza e condizioni sociali, abito mentale ad un intero corpo
sociale, che hanno mutato le stesse risposte del potere.
Il corteo, la manifestazione, la
sfilata di protesta, intese classicamente, non servono più a nulla. Per ragioni
pratiche, prettamente pratiche, ma anche teoriche, ideologiche.
Per prima cosa è indubitabile che
“contarsi” in mezzo ad una strada, prestabilita dalle autorizzazioni
prefettizie, è solo un modo per incanalarsi nei percorsi di un macello a cielo
aperto. E’ indubitabile altresì che ormai, mancando potenti organizzazioni sociali
capaci di un servizio d’ordine degno di questo nome, infiltrazioni e
provocazioni diventino talmente semplici che ogni volta, in ogni
manifestazione, si assiste alla stessa scena: gruppo ristretto di scalmanati
che scatenano la violenza, attesa da parte delle forze dell’ordine e poi carica
indiscriminata, mentre nel frattempo gli iniziatori della violenza si sono già
dileguati.
Ma un’altra ragione pratica,
forse ancora più importante, che boccia la metodologia del corteo di protesta è
che, nei fatti, è perfettamente inutile rispetto agli obiettivi delle proteste, a meno di numeri oceanici capaci di spostare i rapporti di
forza in campo, e nessuna manifestazione oggi nel nostro paese sarebbe capace
di farlo.
Viviamo in un’epoca di fascismo latente, subdolo, in
cui non esiste possibilità democratica di cambiare le cose con gli strumenti
classici delle epoche passate.
Non esiste la possibilità
concreta di incidere realmente sulle dinamiche decisionali, che si estrinsecano
lontano dai luoghi sociali e dalle stesse istituzioni rappresentative. E’ per
questo motivo che le sacrosante proteste e l’energia che le genera vanno
incanalate in altre direzioni, attraverso altri metodi, nuovi e realmente
rivoluzionari.
In secondo luogo, la manifestazione di protesta ha perso la
sua capacità incisiva anche da un punto di vista ideologico. In un’epoca di
apatia e omologazione come quella in cui viviamo, non è più possibile pensare
che la solita, piccola, avanguardia politica sia capace di accendere le coscienze
e spingere le persone alla consapevolezza e di conseguenza alla lotta. Non
basta più. Del resto le immagini, super pubblicizzate, degli scontri, il messaggio subliminale dell’inutilità della
protesta, sono dei potentissimi strumenti anestetizzanti e controfunzionali
alla necessità partecipativa di pur ampie fette di popolazione.
E’ pertanto venuto il momento di
cambiare. Perché non basta più gridare la volontà di cambiamento. Un
cambiamento che va attuato anche rispetto agli stessi strumenti di lotta. Per
spezzare una catena altrimenti indistruttibile.
Già a partire dalle stesse
formazioni politiche che, da pompieri, tengono le persone ferme, immobili,
incoscienti, mistificando la realtà a proprio uso e consumo e difendendo
interessi precisi, è necessario cambiare il tiro delle proposte e di conseguenza
della protesta, facendolo in maniera trasversale, così da colpire al cuore la
cappa che i partiti politici impongono alla società.
Nel nostro paese è chiaro,
chiarissimo, come la vera nuova Democrazia Cristiana, il PD, insieme agli altri
partiti, proponendo una versione uniforme e indistinguibile di un mondo
possibile, una visione omologata e omologante, figlia e difenditrice degli
interessi che governano il mondo e l’Italia, tiene a bada, ferma e immobile una
grandissima fetta di popolo che, al contrario, avrebbe tutto l’interesse a
ribellarsi. Tutto un popolo che avrebbe la possibilità non solo di reclamare
qualche diritto negato, qualche aumento salariale, qualche avanzamento sociale,
ma che pretenderebbe il ripristino della democrazia, ormai sospesa, illusoria e
mistificatoria. Che chiederebbe a gran voce un modo diverso non solo di
intendere la politica, ma gli stessi rapporti sociali.
E’ a quel popolo che bisogna
rivolgersi. E non lo si può fare più, con la “chiamata alle armi” della
manifestazione. Non solo perché, come detto, narcotizzato dalla politica
partitica, ma anche perché la forma a cui la manifestazione si richiama non è
più appetibile, in quanto percepita come fallimentare, inutile e dannosa.
Bisogna dunque ricercare nuove
forme di coinvolgimento sociale, trasversali, nuove forme di protesta, nuovi
strumenti capaci di rendere realmente incisive le rivendicazioni. E questo può
farsi solo attivandosi in maniera radicalmente diversa, nelle pieghe della
società, attraverso azioni concrete di penetrazione, di messa in discussione
dei cardini su cui poggia il sistema.
Forme di disobbedienza civile,
fiscale. Forme di boicottaggio. Proposizione di nuovi modi di intendere, nella
pratica quotidiana, il consumo (di suolo e di prodotti). Proposizione di nuovi
strumenti di solidarietà sociale che mettano a nudo le crepe di quello che
resta dello Stato Sociale distrutto dalla politica neoliberista.
Bisogna darsi obiettivi e
ricercare forme radicali di messa in discussione delle certezze e delle stesse
basi su cui poggia il consenso sociale ai partiti politici reazionari che
governano il paese, mettendone a nudo, nella pratica quotidiana, le
contraddizioni e le magagne.
Quello che deve emergere è una
concezione nuova non solo di fare politica, ma una prospettiva. Le manganellate
e gli arresti per strada non propongono alcuna prospettiva. Se non quella della
sconfitta e della ritirata sociale.
Dalle pieghe della protesta deve germogliare prepotente un modo nuovo di
intendere il mondo, i rapporti sociali e la stessa produzione.
Foto di Sebastiao Salgado ®, Scontri fra minatori e autorità in Serra Palada, Brasile, 1986
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