di Francesco Salistrari.
Come un calesse sobbalzante, tra scalpiccii e rumor di ruote
di legno.
Il selciato è bagnato, basta poco per scivolar giù. Ma
tanto, dicono in tanti, più di cadere a terra, dove si può andare? Si può anche
scavare, certo, ma dopo un certo tempo, dopo aver riassorbito il trauma della
botta, quell’ematoma fastidioso che non va via, violaceo e ipocrita che ti
guarda e ti giudica, ricordandoti quanto stupido sia stato per esser finito a
terra. E tu a dirgli che è il selciato. Che è la pioggia. Che son le scarpe.
Trovando mille rivoli su cui scivolare le proprie responsabilità. E stai là a
palleggiarti, spalleggiarti con qualcuno, qualcosa, senza saper bene cosa dire.
Il cielo può sembrare carico d’acqua. Ma è notte e dunque non
si vede. Se ne sente l’incombenza minacciosa sulla testa, tutto qui. Un peso,
elettrico, che ti spinge verso terra, ancora una volta. Con quelle sue mani da vecchio
irabondo, quel suo sguardo frecciato, quel suo dito inquisitore. E’ complicato
camminare in questo mondo, quando a sorreggerti sono queste gambe. Passo
malfermo, indecente, zoppicante, lento.
Appoggiarsi ad un'anta di porta, a quella sua consistenza
sicura, rifiatare, far finta di trovare energie, con un senso di fame perenne.
Affamati di qualcosa che non c’è. Che non si trova. Che non viene regalato. Perché
nessuno ti regala niente, ci viene insegnato. Ma poi guardi quegli sguardi lì,
al chiaro di luna, intorno a quel fuoco fumoso e scoppiettante, dove ogni
parola ha un senso, un peso, un colore, una dolcezza infinita, pur nella
rudezza, nella spontaneità di un fiato che è cuore, anima, dignità insieme. E
li guardi, li riconosci, alcuni sono stati lì, con te, da sempre. Quegli occhi
carichi di paura, ma non di rassegnazione. Quel coraggio fatto di muscoli e di
energia, che sprigiona prepotente nella notte fino all’alba.
Nulla ti viene regalato. Così dicono. E poi guardi quelle
mani candide donarti un pezzo di pane, una caffè bollente nel freddo del
mattino, un sorriso, una carezza, una grazie tacito ma mai così dolce, mai così
esplicito. E osservi il cielo carico di pioggia, ancora una volta, adesso lo
vedi, è lì, alleato perenne di questa ingiustizia. Ti viene a bagnare fin nelle
ossa. Ma non c’è pace e non c’è sottomissione, per queste anime ribelli, ma
giuste, coscienti, amanti.
E scopri l’amore.
Un amore travolgente. Per l’aria che respiri, che condividi,
che anima il tuo petto e le tue parole, simili a farfalle che ti dicono chi
sei.
Un amore estenuante. Potente. Come potente il suono di
queste voci. Come profondo il burrone nel quale qualcuno vuole spingerci. Ma non
spingete. Non cadiamo. Non adesso. Non così.
Moriremo amando. E morendo ameremo. Ancora e ancora. Tutti
quei volti, quelle carezze, quella dignità che si alza come un canto, dai
boschi, dai monti, dalle vallate. Da ogni singolo ramo, da ogni foglia, da ogni
filo d’erba.
Figli di questa terra, noi abbiamo capito.
E non c’è potere che tenga, contro l’amore. Il più potente
esercito schierato a battaglia di quest’uomo, che cammina, ancora trafelato,
zoppicante, quasi malato, ma che, gridarlo è un dovere, non piega la testa!
Pezzo stupendo, Francesco!
RispondiElimina